Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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147. Un collegio di fanciulle nobili instituito da una vecchia dama in memoria della sua figlia morta: una grande casa di campagna in un parco immenso e solitario come una steppa, biancheggiante di betule, occhieggiante di stagni. Tutte le sere le educande vanno a uno stagno che sanno, pieno di cigni. Attraversano il parco tenendosi allacciate e cantando in coro. Portano il pane ai cigni che accorrono verso il margine fendendo l’acqua liscia; e tutta l’acqua rimane raggiata di scie su l’imbrunire. Risa, grida, sobbalzi; e non so che vago terrore, perché i grandi uccelli taciturni guardano con un cipiglio selvaggio e si appressano a prendere il cibo con un aspetto quasi imperioso alzando le ali a calice sul dosso e tenendo il collo all’altezza delle cinture. Le vergini hanno i loro prediletti; e li imitano nelle attitudini talvolta, inconsapevolmente, come l’amante imita l’amato e di lui si forma.

Or ecco come una sera le damigelle inebriate di canto trascurano di portare il pane. I cigni accorrono, e non ricevono se non voci di rammarico e promesse che non riempiono le mani vuote. Qualcuno soffia di collera come il serpe drizzato contro l’incantatore.

Quando le fanciulle si accomiatano per riprendere la via del ritorno, afflitte d’aver deluso i favoriti, ecco che odono su le loro tracce uno stropiccìo di piedi palmati e di penne dibattute. Si volgono, e scorgono la frotta malcontenta che, lasciato lo stagno, le insegue senza grazia pel cammino. Gettano un grido che più le sbigottisce, e si dànno alla fuga, credendo di avere alle calcagna il soffio dei lunghi colli, credendo di vedere a ogni svolto biancheggiare la frotta minacciosa. Non si arrestano. Le più timide e le più folli comunicano alle altre la paura e la delizia d’aver paura. Giungono a casa scapigliate, pallide, anelanti, con nel bianco degli occhi la voluttà del rischio ignoto. Raccontano l’avventura interrompendosi a vicenda con la voce rotta dall’ansia. Qualcuna a un tratto scoppia in singhiozzi. Entrando per le finestre aperte la sera ha lo sguardo torvo dei cigni; le tende mosse dalla brezza hanno il fremito delle piume. La notte cala come le notti delle favole. Si favoleggia fino a tardi. L’inquietudine scaccia il sonno dai letti virginei. Si ascolta, si palpita, si sobbalza. Quando gli occhi stanchi si chiudono, quando si placano i seni illesi, di tra le pieghe delle cortine bianche un collo bianco s’allunga verso il capezzale.


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