Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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152. La vita è bella. Sotto le pergole di quella vigna Nontivolio avrebbe dovuto curvarsi come la grande Circe quando versa il filtro nelle coppe delle mense collocate presso il suolo. Era una vigna di Murano, una solitaria vigna in pergole, appena appena inclinata verso l’acqua, all’estremità dell’isola.

Fu ieri, o quasi, e me ne ricordo come d’un sogno interrotto. Passammo per un monastero senza monache, vecchissimo, senza usci, senza imposte, pieno di donne cenciose e di bambini macilenti, brulicante di malattie e di miserie, sonante di ciarle e di strilli e di singhiozzi, popoloso e vuoto, dove ardeva e splendeva l’ara di un vetraio, laggiù, in fondo a un corridoio ingombro di legna: un cuore di fuoco domato. Il dolore della Foscarina ripalpitava all’orlo della fiamma.

Poi, non so per che via, non so per che andito, entrammo nella vigna come in un’opera di vetro freddo e verde.

Era un labirinto di pergole basse. Non ci si camminava in piedi. Le viti qua e si staccavano dai graticolati malfermi di pali e di canne, per coricarsi in terra, per abbracciarsi su l’erba. I tralci a ogni passo c’impastoiavano; i pampani ci passavano una mano fresca su la faccia; i viticci tentavano di pigliarci l’orecchio e il collo. Tenevo il braccio alzato su la fronte per proteggere la vista che mi rimane, temendo il palo aguzzo e la canna fessa, nell’ombra ingannevole. Intravedevo le stelle per gli spiragli della volta pampinosa, e parevano vicine da poterle tastare come i grappoli acerbi che penzolavano da per tutto fitti e duri.

V’era un lume quasi di crepuscolo, un lume di perla, un albore di Via lattea, che rendeva sensibile la trasparenza dei pampani. V’era talvolta un che di vitreo, un che di fragile, qualcosa come un ghiaccio verdiccio che s’incrinasse, che si screpolasse. Il canto delle raganelle continuava in suono quella fragilità, quella verdezza. Credevamo di udir saltare una botta molliccia a traverso il cammino, e mettevamo il piede cauto per non schiacciarla, rabbrividendo. Senza sapere perché, avevamo uno sgomento improvviso, un senso languido di freddo, come se la febbre ci salisse dall’erba su per le ginocchia. L’umidità pareva che c’impallidisse, che c’illividisse. Il cammino si faceva cedevole. L’orma si sprofondava. Ci sorreggevamo a vicenda per non sdrucciolare nella belletta.


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