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155. Allora ci fu uno che ruppe il silenzio per dire: «Questa tavola è fatta col fasciame della barca che pescava l’alga nella Valle dei sette morti».
Vi sono parole che sembrano crearsi nell’aria indistinta e non portare la forma delle labbra note. Vi sono le parole delle cose e non soltanto le lacrime delle cose, reali le une e le altre. Udendo quelle, non le attribuimmo a una gola amica ma a uno spirito che dimorasse in quel luogo o vi passasse. Erano modulate secondo quella luce e quell’ombra, secondo quegli aspetti e quei lineamenti, secondo quel freddo verdore di sott’acqua ove il respirare era simile al boccheggiare. Risolvevano con un accordo atteso i rapporti musicali della malinconia.
«Quale barca raccoglieva l’alga nella Valle dei sette morti?» domandò un’altra voce intonata su quella cadenza.
La tavola era dinanzi a noi, fatta d’un legno più vecchio che quello del coro di Santa Chiara, dove sono iscritti i nomi lucenti delle prime clarisse ed è appeso un fascetto di spighe. Era di pino. Mostrava le vene e i nocchi. Scheggiato, screpolato, abbrumato, serbava l’odore del catrame e della salsuggine. Io v’ero appoggiato con i due gomiti e mi reggevo con le due mani il capo; e mi pareva di sentirla barcollare come se fosse ridivenuta cava e avesse rimutato in chiglia i suoi quattro piedi.