Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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160. Cresceva la notte senza bava, già senza stelle. I cerchi di luce si rompevano contro le grandi zattere di legname che galleggiavano nella Sacca tristi come se avessero trasportato mucchi di naufraghi o di pestilenti. Le finestre cieche del Casino degli Spiriti, murate a una a una per impedire che vi si riaffacciasse la fantasima, non si riaprivano?

D’un tratto udimmo un tuono cupo come d’un uragano che scoppiasse laggiù su l’Adriatico. Stavamo per entrare nel rio di Noale.

Alzai una mano per far segno ai rematori che s’arrestassero. La mia mano mi parve troppo pallida e il mio gesto troppo vano. Guardai i miei compagni, e li vidi tutti dello stesso color grigio, dello stesso color di cenere, nella barca nera, tutti simili a quello spettro ravvolto in quel càmice e coperto di quel berretto. Erano tutti fissi, come quando aspettavano che l’eco rispondesse al gorgheggio escito di quella bianca gola.

«È il cannone su l’Isonzo» uno disse, a bassa voce, da prua come da una indefinita distanza.

E due o tre mani troppo pallide si levarono ancóra, per far più di silenzio in quel silenzio mortale.

E fu l’ultimo gesto. Ascoltammo, senza soffio, senza colore, divenuti spettri gli uni per gli altri, esangui, esanimi. Non ci guardavamo in viso, ma tutti eravamo fissi al morto dal càmice bigio che ci dominava, ritornato dal sonno come quello che piegò su le scodelle le facce dei raccoglitori d’alga.

I tuoni si seguivano quasi senza pause, formavano un solo rombo propagato dalle solitudini del mare. La battaglia era nascosta sotto l’orizzonte, bolliva nella conca della notte. Gli spettri di prua vedevano forse il fumo del bollore sanguigno tingere l’orlo dell’alba.

Noi non ci volgemmo; non potemmo noi volgerci. Né si volsero i vogatori. I remi rimasero sospesi su l’acqua lugubre, e credemmo che non ricalassero più.


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