Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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163. Contro la riva il canotto aveva il medesimo battito, incitante come la diana, né il mio paio di calzari, né la mia maschera, né la mia pistola carica. V’erano sul banco tre fasci di fiori còlti in quel giardino isolano ove respirammo l’essenza inebriante dell’Italia bella: tre fasci mortuarii, coperti affinché non li cocesse il sole. E nella corsa il vento sollevava la copertura e il mio cuore, ché mi pareva a ogni tratto il sole non soltanto li guastasse ma li pigiasse come fa dei grappoli il duro vendemmiatore. E il marinaio che era al timone, presso al meccanico, si volgeva e con una mano cercava di ricoprire i fiori, per quetare la pena che la sua gentilezza leggeva nel mio viso. Ma anche quella mano era rude come il sole, e mi faceva soffrire. Imagini funebri mi attraversavano il cervello pulsante. Rivedevo la mano villosa del medico nell’atto di ricoprire il cadavere dopo avere iniettato il balsamo per conservarlo.

Allora con un segno brusco ho impedito che l’uomo continuasse quel gesto. E il vento ha rapito la copertura, che s’è dileguata tra i due filoni della scia schiumanti. Sul legno caldo del banco il sole divorava la freschezza dei fiori.

Ho cavalcato per ore ed ore nel deserto. Solo, di mezzogiorno, ho traversato le sabbie roventi che dividono le grandi Piramidi dai sepolcreti di Sakkarah. Ma non mi ricordavo che il sole potesse tanto essere terribile. Avevo dunque dimenticato, sotto la coltre della mia tristezza, la forza del giorno italiano?

Ero uscito dalle cautele dell’ombra per entrare in un contrasto di violenze aperte. La vibrazione del motore si comunicava a tutte le mie ossa. Tenevo i miei piedi sospesi per interromperla, discostavo le mascelle perché non arrivasse all’orbita, serravo la palpebra per comprimere i tessuti e gli umori dell’occhio leso. L’acqua rotta dalla rapidità mi spruzzava la gota; e i suoi riflessi erano intorno come un combattimento ad armi bianche. Vedevo, a traverso la palpebra, un rossore simile a una nuova emorragia raggiante, ove il ragno tenace fosse annegato. E il dominio del mio corpo meschino sfuggiva alla mia anima non dominabile. Il mio corpo temeva, si contraeva, pareva quasi cercasse nascondersi per sfuggire all’offesa. L’istinto se n’era impadronito. Ma la miglior parte di me era sollevata da un dolore più solitario che la sommità stessa del cielo. Consideravo la miseria del mio corpo come la fragilità di quei fasci funebri, sopra quel banco arido e palpitante. Il mio dolore e il mio amore volevano difendere la freschezza di quell’offerta che il sole disfaceva. Più che la velocità dello scafo, quel sentimento mi avvicinava alle tombe. Eppure quei fiori erano destinati a esser deposti su le zolle secche, destinati a divenir strame innanzi sera. Che già incominciassero a morire, importava forse ai morti? Potevano essi forse godere la loro freschezza?


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