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168. Forse era meglio che Roberto Prunas non fosse ritrovato dai palombari lungo la diga solitaria. Forse era meglio ch’egli sentisse ancóra passare sopra sé le torpediniere a fuochi spenti in rotta verso i porti dell’Istria. Era meglio che sottomare si cangiasse «in qualcosa di ricco e di strano».
Qui non ha più nome; né il suo pilota ha nome. Li cerco, e non li trovo. Mi smarrisco nella farragine della morte. Vacillo nel barbaglio. Odo sotto il mio cranio uno scampanìo continuo che è come la sonorità della luce. Vedo un’ombra passare lungo il muro abbagliante di lapidi.
È un vecchio cappuccino, vecchio decrepito, che strascica gli zoccoli biasciando, con le mani congiunte sul cordiglio di San Francesco, seguìto da un gatto nero e da due gatti tigrati che gli miagolano alle calcagna. Mi accosto, lo riverisco, lo interrogo. Non è se non una tonaca logora, non è se non un cappuccio penzoloni, tanto la sua carcassa mi sembra cadente e sparente. Il suo viso è niente, è meno d’un pomo aggrinzito e muffito. I suoi occhi sono come due frantumi di vetro azzurrognolo, senza sguardo, senza cigli. Si sofferma, non comprende, non risponde. Gli domando dove sieno i miei morti. I morti sono da per tutto. Egli medesimo è un morto che va a coricarsi in quella fossa laggiù, dove i suoi gatti scarni lo lamenteranno tutta notte. I suoi piedi nudi sono morti negli zoccoli che fanno stridere la ghiaia. Egli non ode le voci umane che vengono dalle fondamente lontane; non ode le campane lontane; non ode l’ora che suona; non ode il martello che batte; non ode quel bambino che piange, chi sa dove, forse in fondo a un locello, di sotto a una lapide, dietro a un cipresso.