Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
Lettura del testo

Licenza

128

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

169. Dove sono i miei morti? Vedo Roberto Prunas che apre la tabacchiera d’oro donata al suo bisnonno dal re di Sardegna e prende una sigaretta tra le sue dita brunicce. Luigi Bresciani è in piedi, come sotto la tettoia dell’Arsenale dov’era ricoverato il suo meraviglioso idròttero; e la sua gota è inclinata verso la pala dell’elica ferma verticalmente; e le linee del suo volto sono fini, precise e misteriose come quelle del legno propulsante. Batto le palpebre. Le apparizioni vaniscono. Il sudore mi cola giù per la tempia.

Il frate minore non torna indietro. Scorgo nel viale un custode nero. Lo chiamo. Lo interrogo. Non sa. Va a consultare il registro. Si allontana. La ghiaia scricchiola.

L’attesa mi vuota l’anima, e vuota il mondo. I pensieri ruotano e si sperdono come nella vertigine. Col supplizio della luce negli occhi, resto fisso alla mia ombra coricata sul sabbione dove i miei piedi si stampano. Sopra la mia ombra svolazzano due farfalle bianche, simili a quelle che esitavano davanti al cancello rugginoso dell’orto contareno.

Il custode torna. Mi tende una piccola carta piegata: la polizza sepolcrale, la bulletta funeraria: dov’è scritto che Luigi Bresciani fu seppellito nella fossa tredicesima della fila terza.

Oggi è la festa del suo nome.

Ho il foglio tra le dita. Cerco. Scopro la pietra quadrata che porta scolpito il numero tredici.

Nel primo attimo, qualcosa di vivido e di leggero, qualcosa come la sensibilità, come la delicatezza e l’acume del mio amico, trema su quella desolazione. Poi vedo la cruda miseria. Nessun nome, nessun segno. Una grossa corona di zinco e di porcellana, un’altra di conterie nere e bianche; un fascio di palme secche, quasi spinose, legato da un nastro stinto; un coccio rossastro, con uno stecco fitto in un poco di terra; un cartoccio di latta, con un poco di acqua e un mazzolino marcio.

La tristezza mi curva, mi fiacca i ginocchi, mi schiaccia su quel povero orrore. Vedo il viso raso e chiaro, il biondo puerile dei capelli lisci, le labbra esigue e sensitive, i leali occhi fraterni che di sùbito il coraggio affilava e aguzzava. Tra la lugubre cianfrusaglia che ingombra questa sepoltura, scopro il fiore tenue del vilucchio, un che di fresco e di candido, quasi volubile sorriso. S’allevia il peso del cuore.

Ecco che il nostro primo compagno, ecco che il più amato è con noi. La sua voce mi passa nell’anima, come quando conduceva al mio sogno le imagini dell’Estremo Oriente, nel giardino situato dalla parte dell’ombra.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL