Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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174. Chiudo ancóra le palpebre. Sento che il mio compagno è dietro di me, seduto al governo delle leve, come in quella partenza. Sento l’oscillazione del velivolo. Ho davanti a me, sopra una specie di rastrelliera, quattro bombe con le eliche fissate da un fil di ferro e il fascio di fiori che un’anima pietosa ci ha affidato per gettarlo sul sepolcro marino.

Prendiamo altezza. C’è vento fresco, ma l’apparecchio è stabile. Un rullio leggero, a quando a quando, poi un senso d’immobilità, di sospensione nell’aria. Il cuore si dilata. Un sorriso spontaneo brilla alla cima dell’anima.

V’è qualche ragnatelo sparso nell’azzurro.

Il mare increspato fa un poco di bava bianca ai lidi sottili.

Un raggio traversa il cofano e fa rilucere il tubo d’ottone nel motore.

Nella scia d’una torpediniera i due filoni divergono, simili alle due palme nelle mani della Vittoria.

Tutto di qui appar soave, quasi femineo. Dianzi, la città e il ponte erano come il fiore e il gambo.

La gola di Venezia era come la gola della colomba cangiante quando un poco si gonfia e s’inarca nella voglia di tubare.

I Colli Euganei erano laggiù come tumuli d’amanti famose, inzaffirati.

Le chiare dighe sono cinture cinte alla terra bionda e molle che, come una donna, ha le sue delicatezze segrete da non potersi sorprendere se non di quassù.

Nell’estuario le porzioni della terra sembrano fatte per essere offerte, come il pane si frange, come la focaccia si parte.

Il fango è una materia preziosissima: di quassù è opulento come la sabbia del Pattolo.

Le rive sono protese, distese come chi si stira nel sopore: sono attitudini, sono gesti.

La laguna ha i suoi prati che aspettano le sue greggi d’argento squammose.

La laguna è come la perlagione d’un cielo vista a traverso le nervature d’una foglia macera.

Ora il mare la imita. Ora nel mare le correnti rilucono e lo fanno simile alla laguna solcata dai canali tortuosi.

Nel pallore della laguna i canali tortuosi sono verdi come la malachite, verdi come l’ossido di rame, come certi occhi.

Le piccole città bianche, su le sporgenze della costa, sono da prendere e da portare in palma di mano.

Ecco Caorle. Sta sopra una sporgenza che ha la forma di una tiara aguzza.

Guardo ancóra Caorle. Il lido m’appare tagliato come una sella d’alto arcione; e la città è posta in sommo dell’arcione di velluto logoro.

Il mare è deserto. Gli orli spumosi hanno una dolcezza infinita, simili a non so che favellìo, a non so che sorrise parolette.

L’ala inferiore è metà nel sole e metà nell’ombra. La parte davanti è nel sole. L’ombra di tratto in tratto avanza. Resta nel sole una striscia sottile: la costola.

Leggo e comprendo i segni intersecati che fanno le ombre dei tiranti d’acciaio.

Ho lo spirito lucido come l’aria. Si sale, si sale. «Sublimare è d’una cosa bassa e corrotta farla alta, e grande, cioè pura

Si sale. Siamo di dai duemila metri. Siamo soli, io e il mio compagno. Quel che io ho veduto, egli l’ha veduto; quel che io ho sentito, egli l’ha sentito.

Mi volgo. Lo guardo. Ha l’aria d’uno di quegli idoli dell’Estremo Oriente accosciati e immobili. È fisso. Il suo viso è bronzino nel camaglio di lana. Alla radice del naso ha l’ammaccatura degli occhiali, violacea. Porta i baffi tagliati nettamente su la bocca grande, rasi col rasoio agli angoli. I suoi occhi sono felini, tra verdognoli e giallognoli, pieni di polvere d’oro. Prendono qualcosa d’infantile quando mi sorridono.

Egli mi domanda il taccuino, e scrive: «Vuoi, di grazia, stringermi l’elastico degli occhiali, che m’è lento?».

Mi sporgo dal mio seggiolino; faccio miracoli d’agilità per non disturbargli il governo, mentre il velivolo rulla al vento che rinfresca. La molletta non serra. Mi levo i guanti. Riesco a fare un nodo. Vedo a traverso le lenti ridere i suoi occhi. Ho sùbito le dita ghiacce. Il freddo aumenta. Si continua a salire. Il sangue è armonioso. La vita è piena.

Ecco Grado nostra, Grado d’Italia!

«O Gravo belo, me no posso

El canto eterno de la to belessa…»

Discendiamo. La terra il mare il cielo s’aggirano in un solo vortice raggiante. Le barene e le velme ci sono sul capo come le nubi. Le Alpi dentate della guerra mordono l’Adriatico come l’addentano i moli di Trieste. le barene, le velme, tutte le seccagne solitarie, sott’acqua, a fior d’acqua, nel cieco splendore, hanno non so che aspetto avernale.

I pioppi sembrano consumarsi nel tremito dell’aria, le tamerici vanire nella loro pallidità, i grandi erbai di color gridellino inclinarsi al soffio di non so che transito.

Nulla più ci tocca, fuorché l’imagine della tomba d’acciaio che sta in un fondo ignoto del mare. La cercheremo, la scopriremo. La nostra sosta è accompagnata da non so che funebre melodia marina.


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