Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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180. Sono le due del pomeriggio. Il mare è deserto e raggiante. Sonnecchiano le piccole città bianche intorno al golfo dove svaria la grana del vento. Un pescatore dorme supino su le tavole fracide del suo vecchio topo, laggiù, nella pace della laguna, alla proda d’una barena fiorita di santònico.

Vietri smonta di guardia al periscopio; e dalla camera di manovra si ritira nella camera dei tubi di lancio a prua. Ode la voce del comandante che ordina l’accostata per invertire la rotta. Un tuono improvviso lo stordisce, uno scroscio biancastro lo percuote. L’acqua gli si precipita addosso, lo fascia sino all’altezza delle spalle. Non ode nessun grido. La gente perduta non mette un grido né un lagno. Egli è tuttavia in piedi, con l’acqua alla gola. Percepisce nettamente lo scoppio degli accumulatori. Si tappa la bocca e il naso per non essere soffocato dal cloro che si sviluppa. Si avvicina alla paratia che lo separa dalla contigua camera degli ufficiali; ma presso la porta stagna trova ancor vivo il tenente di vascello Guido Cavalieri che gli grida: «È inutile andare a poppa. Cerchiamo di salvarci dal portello di prua».

Egli getta lo sguardo e l’anima verso poppa. Non ode nessun grido, nessun gemito. Il comandante Ernesto Giovannini è caduto al suo posto di comando. S’è coricato per dormire il suo sonno eroico tra il lido gradense e l’Istria sua. Portava sempre in cuore la vecchia cittadella della sua gente, l’imagine di Capodistria severa e soave, come la rappresentò per amore nella tavola dell’Ingresso Benedetto Carpaccio. Sempre vedeva nel cielo della sua speranza le code di rondine che fanno corona ghibellina al Palagio del Podestà, e la Cibele romana armata e alzata tra i due merli, e la porta della Muda aperta a un altro Ingresso, e i balaustri della fonte arcuata che sembra debba crescere e decrescere come la marea sotto un ponte di Venezia.

«Capodistria, succiso adriaco fiore

Pochi giorni innanzi, avendo a bordo come pilota il fuoruscito Nazario Sauro nato all’ombra della colonna di Santa Giustina, avvistava dalla torretta del Jalea emerso la città dei cinque Dogi, e la salutava prima d’immergersi; quindi, posato sul fondo di quei paraggi rimasto republicano e veneto come la Piazza Grande, si stendeva a fianco del pilota fraterno, beati entrambi in un medesimo sogno come se fossero per dormire sotto il voltone della scala comunale e per essere risvegliati all’alba dalle campane dell’arengo.

Ora egli dorme un poco più in su, più a tramontana, più a ponente. Col comandante, tutto l’equipaggio s’è coricato silenziosamente nella bara d’acciaio. Se l’acqua penetra per la falla d’una nave d’Italia, non mai vi penetra la paura, comunque lo squarcio sia largo.

Il silenzio è già sepolcrale, ma il sepolcro è ancora sospeso nel gorgo. Ciascuno dei sei viventi ha inciso nel cuore l’attimo in cui lo scafo tocca il fondo.

La volontà di vivere tien luogo di respiro. Vietri s’aggrappa alla scaletta per aprire il portello. Ma Ciro Armellino, il capo torpediniere, sopraggiunto, prima di lui riesce ad aprirlo e ad escire. Guido Cavalieri, il sottocapo Biagio di Tullio, un torpediniere, un marinaio salgono ed escono. Vietri, con la bocca chiusa, col naso tappato, aspetta che gli altri sieno scomparsi su per la colonna gorgogliante. Tanto è più tardo il tempo quanto è più rapido il cuore dell’uomo. Se il palpito si accelera, l’attimo si allunga. L’antichissima parola eroica, nata nel Mediterraneo, ecco che ha forza anche sottomare. «O cuore, sopporta Colui che è l’ultimo, è il primo. Egli solo è pari all’evento e all’elemento.


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