Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
La Leda senza cigno
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182. Questo dramma sottomarino è d’una brevità e d’una novità non eguagliate da alcun’altra delle tragedie navali conosciute. Le persone del dramma sono vestite d’acqua sino al collo. I corpi sono già ingoiati dall’abisso; ma le sei maschere umane respirano ancóra allo stesso livello, nell’aria che comprime la massa irrompente e le impedisce di invadere tutto lo spazio chiuso. La mia imaginazione vede quei sei respiranti teschi decapitati dal filo dell’acqua, e non riesce a rilevare i loro lineamenti né a rischiararli di quel chiarore incognito. Li cerco invano nel tranquillo occhio nero del superstite che forse ne serba l’imagine ma non l’esprime. Non so che avida violenza è nel mio sguardo, come per sforzare quel taciturno a rievocare il momento indicibile, come per comunicare l’acuità dei miei sensi a quel sobrio narratore. Che accadde quando il portello di prua fu aperto e il primo uomo balzò fuori e gli altri lo seguirono risalendo dal profondo verso la luce che a mano a mano cresceva? Vietri fu l’ultimo ad abbandonare lo scafo squarciato. La vita non v’era del tutto spenta. Pochi attimi innanzi, il comandante era stato intraveduto ancóra in piedi. Il resto dell’equipaggio non aveva dato gridosegno, ma forse laggiù nella tenebra qualche gola palpitava tuttavia. E v’era tuttavia l’ultimo dolore delle cose, l’aspetto estremo delle cose che non hanno più potere, che non servono più, che non indicano più nulla, che non misurano più nulla: il portavoce, il tubo del periscopio, i cinque tubi della pompa, i tre segnali rossi, la lampadina della bussola, i quadranti degli indicatori, le ruote dei timoni, la bandiera avvolta… Il manometro grande aveva segnato i metri di profondità? aveva misurato di metro in metro la discesa del sepolcro? V’era , in quegli ultimi attimi, un odore, un rumore, un silenzio, un’ombra, una figura finale, una faccia della sorte, un’estremità inimaginabile che questi giovani occhi videro e che nessun altro mai videvedrà mai. La poesia in me trema e si vela.

Ora le cinque teste umane, l’una dopo l’altra, emergono a fiore del mare deserto. Si contano. Una chiazza oleosa li ha preceduti. Ecco Vietri a galla: respira; si netta il viso con una mano; sente nel torace i suoi polmoni e il suo cuore; sente sotto il cranio il suo cervello maschio. Tutto in lui è sano e pronto. Sùbito le sue forze si equilibrano, la sua mente s’aguzza, la sua bontà si offre. E tutto il suo coraggio si quadra nella disciplina.

Aiuta Guido Cavalieri a togliersi le scarpe e gli accomoda il materasso di gomma (ve n’erano otto a bordo) che gli serve a meglio sostenersi. una mano agli altri per liberarli dagli impedimenti. Sveste il torpediniere Motolese, che pare il men vigoroso. Poi pensa a sé medesimo. Sa che non ha grand’arte nel nuoto e che gli conviene adoperare ogni accorgimento per risparmiarsi. Il mare è mosso da scirocco. Quando egli s’allontana dal luogo del naufragio, dove pullula la nafta mista alle bolle d’aria, quasi rantolo e sangue della nave uccisa, un gran dolore gli fende il petto. Fa tre volte il segno della croce, raccomanda a Dio le anime dei sepolti, promette di recare il messaggio alla patria. Poco dopo, ode dietro di sé il grido soffocato del torpediniere che già pericola; ode l’ultima voce di Ciro che annega; vede davanti a sé il gruppo degli altri tre nuotare più veloce verso ponente. Rimane solo.


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