Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'armata d'Italia
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L’Armata

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L’Armata

I

Dalla discussione parlamentare su le cose della Marina l’onorevole Brin è uscito avvolto d’un certo luccicor di trionfo. Altri serti verdeggiano alla sua fronte. Egli porta così folto d’alloro e di frasca il nobile capo che, in verità, io non mai vidi più folto e più lusinghevole in su’ dolci colli di Toscana un paretaio. E in quel suo glorioso paretaio l’onorevole Brin fa sfringuellare e svolazzare gli zimbelli della illusione con tanta mai naturalezza che gli uccelletti allettati cascano su le paretelle recando la lor brava pallottolina bianca nel beccuzzo canoro.

La fortuna di questo meraviglioso uccellatore è singolarissima. Egli non ha ancóra trovato un solo uomo che gli sappia dire la verità, in Parlamento. Tutta la discussione su le cose marittime è stata così leggera, così vana, così poco schietta, così poco coraggiosa e così poco generosa che, a volerla riassumere, ben vi si potrebbe mettere sopra, per consolazione di Amleto de Zerbi, una epigrafe shakespeariana: – Words, words, words!

Io non sono un predicatore della decadenza italiana, né faccio professione di publico pessimismo; anzi io ho una incrollabile fede ne’ destini della patria e credo fermamente nel verbo d’un grandissimo poeta nostro la cui voce ha virtù di sollevare ad ogni tratto in tutta Italia un fremito: «Nessuna più o malignità o violenza di cose abbasserà quella bandiera che dall’onta dei patiboli salì alla luce del Campidoglio

Ma quando vedo che in una questione tanto grave e tanto alta il Parlamento italiano porta una competenza tanto meschina e una conscienza tanto disattenta, non so difendermi da un senso di dubbio e di sconforto. Quando vedo un deputato italiano, un piccioletto masticatore di aritmetica finanziaria, sorgere a deplorare gli esorbitanti dispendii dell’armata e consigliare nuove tirchierie e nuovi temporeggiamenti, non so reprimere un moto d’indignazione e insieme di compassione. Da quali mai forze l’Italia trarrà la sua grandezza futura? Dalla agricoltura di Bernardino Grimaldi? Dalle ferrovie del senatore Saracco? Dalle abolizioni dell’onorevole Magliani?

L’Italia o sarà una grande potenza navale o non sarà nulla.

Ora, io domando: – Perché gli uomini di mare, che siedono in Parlamento, hanno taciuto? Perché, parlando, non hanno detto quel che pensavano, quel che dovevano necessariamente pensare, da uomini capaci, onesti, esperti della materia? Perché l’onorevole Turi s’è contentato di suscitare un insignificante applauso sentimentale con qualche frase calda? Perché l’onorevole Canevaro s’è ridotto a eseguire, per conto del Ministro, una furbetta manovra parlamentare e a rimpasticciare ordini del giorno, per conto del Ministro? Deve il vincolo della disciplina legar le conscienze, anche nel libero Parlamento d’una libera nazione? I marinai sono mandati alla Camera per fare atto di sommessione a un ministro o per propugnare onestamente e arditamente il bene dell’armata cui appartengono? Ed è carità di patria tradire il vero? È rispetto alla disciplina la servilità?

Questa imposizione di silenzio, questa specie di tirannia, la guerra instancabile contro chi non piega il capo o non leva incensi al Ministro, la incuranza di tutto ciò che non serve direttamente ad aumentar l’alloro e la frasca sopra mentovati, la ripugnanza a metter bene a dentro nelle piaghe il ferro, la paura della impopolarità: ecco i peccati che macchiano il governo di Benedetto Brin.

Questo altissimo ingegno, questo potentissimo imaginatore di costruzioni meravigliose, questo grande architetto di navi, che s’è coperto di gloria ed ha fatto stupire il mondo, non ama di vero ed utile amore l’armata. Che cosa ha egli fatto, che cosa ha cercato, che cosa ha tentato, che cosa ha voluto, oltre le opere nautiche ove poté rivelare il suo valore personale, espandere la sua ambizione personale, cogliere in abondanza la lode di cui era avido? Non forse è stato sempre il segretario generale a rispondere direttamente delle cose di marina?

L’onorevole Brin, come io diceva, è un uomo amato dalla fortuna. Egli ha sempre raccolto tutte le lodi; e il suo segretario tutti i biasimi. Nel processo contro i fratelli Vecchi, per esempio, fu ancóra il segretario generale dichiarato quasi fellone; e il Ministro, a simiglianza di Pilato, se ne lavò le mani.

Ma egli imita troppo spesso l’atto di Ponzio. Pare che la sua più calda aspirazione sia il portafoglio dei Lavori pubblici. Fuori delle grandi costruzioni, egli non vede nulla, non si cura di vedere. – Qual è il valore dei nostri ammiragli? In quali l’esercito di mare ha maggior fede? Quanti di loro sono indegni dell’ufficio? Quanti hanno una completa conoscenza delle nuove macchine, delle nuove armi, de’ nuovi studii? – Il Ministro non sa e non cerca di sapere; o, sapendo, non ha il coraggio di provvedere.

Egli per comandante all’armata un ammiraglio quasi oscuro. Se dalla pace romperemo d’improvviso alla guerra, in acque lontane, egli spedirà un più valido uomo a surrogare l’inetto; e quell’uomo, infallibilmente, per molti giorni si troverà impreparato, in mezzo a difficoltà d’ogni sorta, perché molti giorni son necessarii a prendere sicura conoscenza di tutte le precedenti disposizioni, di tutti i bisogni del naviglio, di tutte le mancanze, di tutte le qualità, di tutto insomma il complicato organismo d’una flotta che può da un momento all’altro entrare in ordine di battaglia contro un nemico audace.

Ora abbiamo noi (e tutti lo sanno) nell’esercito di mare certi capi i quali tutte le mattine, quando si svegliano, si piantano innanzi a uno specchio bene polito, contemplano lungamente la lor gallonata persona nel cristallo fedele, ed esclamano poi con un suono tra di meraviglia e di compiacimento: – Io sono un ammiraglio! – E lo stesso atto fanno a sera, prima di coricarsi. E questo è tutto.

Perché mai il Ministro della Marina lascia l’armata, di continuo, nelle mani di questi innocenti? Perché mai il Ministro non ascolto alla publica voce che chiede a comandante permanente dell’armata un uomo il quale sappia davvero comandarla e nel quale gli ufficiali e i marinai abbiano fiducia: o l’Acton o il Saint-Bon?

Una regola da lungo tempo invalsa è quella di deprimere e di allontanare dalla Marina gli uomini di maggior virtù, gli uomini che meglio di tanti altri potrebbero o tenere il comando o dirigere le opere di ordinamento o intraprendere riforme e studii. La regola, che certo vien dettata da gelosie o da altri simili sentimenti impuri, è disonesta.

Ciascun singolo membro del nostro «personale» è al suo posto? Un esempio solo, fra innumerevoli: – il più forte stratego che vanti l’Italia marittima, anzi forse l’Europa, il mondo marittimo, lo abbiamo noi nella persona di Domenico Bonamico. Egli è stimato, studiato, discusso all’Estero; in Italia è quasi ignoto. L’han relegato alla Academia, in qualità d’ufficiale istruttore; mentre il suo vero posto sarebbe al Ministero, negli uffici della mobilitazione o della difesa delle coste, dove potrebbe rendere di continuo importantissimi servigi.

L’onorevole Brin è venuto in Parlamento a dichiarare che il nostro «personale» numericamente è bastevole. Dimentica egli o non sa che da oltre due anni le tabelle di armamento (quelle che dànno il numero e la qualità dell’equipaggio necessario ad ogni nave) sono state ridotte per deficienza numerica del «personale»? Non sa che, in navi armate come oggi sono, molte armi resterebbero mute per mancanza di serventi ed altre agirebbero male o con disordine, perché in gran numero dipendenti da un impari numero di persone?

Né basta. Pure ammettendo un servizio così imperfetto, parecchie navi dovrebbero rimanere deserte nei porti; perché l’attual numero e di marinai e di ufficiali non basterebbe ad armarle tutte anche con armamenti ridotti.

basta. Prescindendo pur da questa ruina, avrebbe l’animo il Ministro d’affidare, in tempo di guerra, navi a taluni comandanti cui le affida in tempo di pace? Una metà de’ nostri comandanti, almeno, non conosce le proprie navi né le armi delle proprie navi.

Come potranno quegli uomini adoperare la forza che han nelle mani? Essi stanno, su quei terribili istrumenti di distruzione, come fanciulli ignari. La nautica è per loro una scienza inutile. Il siluro è per loro un mistero impenetrabile; le mitragliere son congegni inservibili; i cannoni moderni e le macchine son truci enigmi da cui è prudenza star lontano; lo sperone è un orrendo pericolo; le torpediniere sono, per chi v’è sopra, una consecrazione certa alla morte.

Io non esagero; io non affermo fatti malsicuri. Tutto l’esercito di mare, il giovine esercito, sa che questa è la verità.

La maggior parte dei comandanti non conosce il materiale, non ha in esso fiducia, e quindi non sa adoperarlo. I giovini ufficiali, per contro, pieni di spiriti generosi, agitati da magnifiche speranze, freschi di studii su le cose nuove, han fiducia nel materiale, nessunissima nella maggior parte de’ comandanti, immensa in Ferdinando Acton e in Simone di Saint-Bon.

I quali sono, forse, i due soli ammiragli nostri d’alto valore; i soli che saprebbero condurre, anche passando su l’inettitudine e su la turbolenza di molti, gli intrepidi marinai d’Italia a cancellare la prodigiosa sconfitta di Lissa con una vittoria prodigiosa.


II

Corre voce, negli ufficiali dell’esercito di mare, che il dissidio fra il Ministro e l’Ammiraglio di Saint-Bon abbia avuto origine da una disparità di opinioni assai viva su l’aumento degli equipaggi. Il Grande Ammiraglio, da tempo, consiglia e sollecita non solo l’aumento ma una maggior cura ed un migliore ordine nella istruzione e nella educazione scientifica e navale dei singoli Corpi. Il Ministro, invece, non vuol sentir parlare né di aumenti né di riordinamenti né di qualunque altra novità che tocchi le persone. Le navi, bene o mal costruite, bene o mal governate, non parlano; ma le persone gridano, si lagnano, resistono, congiurano, si vendicano. Altra impresa, altro cuore!

Corre voce, inoltre, che il dissidio siasi inasprito singolarmente negli ultimi tempi, perché al Saint-Bon non fu chiesto alcun parere intorno le grandi manovre di quest’anno. Pare che tali esercitazioni sieno state ordinate e disposte per accordo fra il Brin e il Racchia, all’insaputa del Saint-Bon, con una sconvenienza grave. Nella qualità sua di Capo dello Stato Maggiore, il Saint-Bon ha convenevole e necessaria autorità su tutte le questioni che riguardano il lato morale dell’armata. Il suo consiglio doveva quindi, logicamente, essere ricercato prima d’ogni altro.

Può chiunque, io credo, giudicare quanti sieno pericoli in questa disgraziata controversia, e quante minacce di danno per l’avvenire. Se le amarezze della discordia spingessero l’Ammiraglio a ritirarsi nella vita privata, la perdita sarebbe irrimediabile; poiché verrebbe meno al novello edificio la più forte e la più luminosa colonna.

Ma l’onorevole Brin mostra di non preoccuparsi troppo di certe cose. Egli non è il Ministro della Marina, sì bene il Ministro delle Navi; non è il supremo arbitro dell’armata, sì bene il sovrano e principal mastro degli arsenali. Egli ha dell’esercito marittimo un’idea confusa ed oscura: non concepisce la flotta che come una bella torma di bastimenti più o meno vasti, più o meno muniti, ormeggiata nelle acque pacifiche d’un golfo o navigante per l’alto mare in prova di velocità. Gli equipaggi, nel pensiero dell’onorevole Brin, hanno una importanza molto secondaria. Si può quasi dire che, appena varata una nave, il Ministro creda il suo cómpito finito. Tanto si cura egli degli uomini che la governeranno, quanto un architetto si cura della gente che abiterà il palazzo edificato o dei divoti che pregheranno nel tempio già pronto.

Da ciò le dissensioni col Saint-Bon.

L’Ammiraglio ama l’esercito di mare con l’ardore di chi, avendo sentita l’onta della caduta e meditate le cause della sciagura, affretta con tutte le forze il risorgimento da cui attende la gloria sua e della patria; il Ministro ama le navi, con la passione dell’artefice che vede mutate in realità le concezioni laboriose del suo intelletto. L’Ammiraglio è un gran soldato e un sapiente ordinatore; il Ministro è uno scienziato curioso di esperienze. L’Ammiraglio pensa che le piaghe s’han da scoprire e da curar col fuoco; il Ministro pensa che s’han da nascondere e da curar coi fomenti. L’uno guarda lontano, con occhio inquieto, dal suo palco di comando; l’altro guarda da terra, con occhio soddisfatto, le linee della poppa e della prua.

Non bastano a Benedetto Brin, per essere un buon ministro, l’abilità tecnica, l’ingegno vasto, la dottrina. Gli mancano la fermezza dei propositi e il coraggio della responsabilità.

Le navi richiedono uomini che le governino; le armi vogliono uomini che le sappian maneggiare. La scelta, la selection, già operata nel «materiale» con molta energia, dev’essere portata nel «personale» con energia anche maggiore; e non tanto negli inferiori quanto ne’ superiori gradi. Gli ufficiali superiori d’una Marina moderna, i quali tengono in pugno non soltanto mille e mille vite ma le sorti di una grande nave che rappresenta pel suo valore i sacrifici dell’intera nazione, debbono essere in tutto degni del comando e non dar luogo ad alcun dubbio su la perizia loro. Un ammiraglio può essere, in tempo di guerra, il salvatore o il distruggitore della sua patria.

Colpa gravissima di chi regge le cose della Marina è il non aver saputo e voluto comporre uno Stato Maggiore in cui potessero non i marinai soltanto ma tutti gli Italiani metter sicuramente la fiducia e le speranze. Mancavano forse gli uomini da eleggere? Ci sono uomini nel nostro esercito di mare così largamente forniti di qualità personali e di studii nuovi che ben potrebbero venir senza tema al paragone con i più cólti e i più esperimentati capi degli eserciti stranieri. Dunque? Manca la scelta.

Per qual privilegio alcuni, avendo vissuto in tempi d’ignavia ed essendosi inalzati non con fatiche e con imprese di navigazione ma con favor di fortuna, godono oggi magnifici onori; mentre altri, pur lavorando e studiando e navigando senza riposo, rimangono nell’oscurità, ignorati, obliati, disprezzati? È tempo omai che codeste vecchie carcasse non impediscano ai valorosi e ai volonterosi il cammino.

La guerrarisponderà taluno – toglierà di mezzo cotestoro. Il primo colpo di cannone segnerà la fine del loro comando.

È dunque giustizia che goda placidamente i vantaggi della pace chi deve in tempo di pericolo abbandonare il ponte della sua nave ed esser messo in disparte? Ed è giustizia che assuma ad un tratto la terribile responsabilità del comando chi prima doveva ciecamente obbedire?

A formare i buoni comandanti di bordo non basta la dottrina, non basta la perfetta conoscenza di tutti i variissimi congegni onde si compongono le recenti navi; occorrono, sopra ogni cosa, la pratica della navigazione, l’abitudine dell’imperio, l’esperimento della propria autorità. Bisogna avere comandata a lungo una nave in tempo di pace per poterla sicuramente ed efficacemente condurre alla battaglia. Il comandante deve essere (ed avere la convinzione profonda d’essere) la vera anima della sua nave. Nelle guerre marittime, ove la fuga è impossibile senza la volontà del comandante, gli equipaggi non hanno una azione decisiva. L’essenza dei moderni combattimenti navali sta in questo: che scompare la singola virtù d’ogni singolo soldato, e vive soltanto la nave col suo capo che ne è l’anima.

Il tempo delle navi di legno e de’ cuori di ferro è passato per sempre. Tanto più un equipaggio è forte quanto più è calmo ed esatto; tanto più un marinaio è valido quanto più si avvicina alla impeccabile precisione d’una macchina; tanto più il coraggio è ammirabile quanto più è utile. La guerra moderna chiede che ciascuno, sopra una nave, eseguisca l’operazione assegnatagli tranquillamente, senza lasciarsi commuovere dalla morte, senza lasciarsi inebriare dall’ardore della lotta. Se venissero a contrasto due navi d’egual potenza, in cui tutti gli strumenti d’offesa e di difesa si muovessero per sola forza di congegni, certo è che il comandante più abile sarebbe il vincitore. A condizioni pari, dunque, le maggiori probabilità di vittoria sono per quella nave il cui equipaggio, compiendo esattamente i suoi varii offici, più si avvicina, come io diceva, alla precisione d’una macchina.

Da qui, pel comandante, l’assoluta necessità di conoscere per lunga prova i suoi uomini e la sua nave, le forze animate e le forze inanimate. Nessun’altra qualità, pel capo d’una nave, può equivalere all’abito del comando.

Invece, come io osservava nel mio precedente capitolo, la maggior parte degli attuali comandanti dovrà essere, in tempo di pericolo, sostituita; e le navi saran condotte alla prossima guerra da ufficiali giovani, coraggiosi e valenti, ma nuovi. Questi giovani, che superano nella virtù e nell’ingegno i vecchi, sono tenuti in tempo di pace continuamente «sott’ordini»; sono lasciati languire lunghi anni oscuri nel grado di Tenente di Vascello, in quell’insormontabile grado ove tante nobili intelligenze vengon meno come sotto il martirio d’una eterna crocifissione. Nessun loro merito, sia pure lucidissimo e indiscutibile, vale a farli andare innanzi. Essi son condannati inesorabilmente a passare per la trafila dell’anzianità ed a piegare il capo sotto la tirannia di uomini mediocri od inetti il cui diritto unico è quello fondato sul maggior numero degli anni.

Dal sistema di reclutamento dei giovani destinati alla carriera navale e dal sistema di avanzamento, appunto, vengono alla nostra Marina i danni più gravi; e in questi due sistemi male intesi e mal praticati è la principal causa dello scontento e della indisciplina, che di tratto in tratto si van manifestando.

Lo Stato Maggiore Generale è una torbida mescolanza di elementi tra loro repugnanti, in fondo a cui ancóra ribollono i germi degli antichi mali: sfrenate ambizioni, cupidigie insaziabili, odii personali e regionali, partigianeria, ignoranza, servilità.

Ora, quegli sarebbe il vero e grande salvatore dell’armata, il quale con civile coraggio imponesse la necessaria riforma, e con una prima avveduta scelta dei giovani atti alla carriera navale e con una successiva selezione o purificazione riuscisse a mutare una inquieta massa d’uomini diversi e scontenti in un mirabile nucleo d’uomini legati dall’eroico vincolo del dovere, esperimentati alle fortune del mare, preparati alle fortune della guerra, consacrati alla gloria o alla morte, liberi, leali, immutabili fratelli nel nome d’Italia.

III

Abbiamo detto che dal sistema di reclutamento dei giovani destinati alla carriera navale e dal sistema di avanzamento, appunto, vengono alla nostra Marina i danni più gravi. Vediamo ora in che consistano questi due male intesi e mal praticati sistemi.

I giovani entrano tutti, indistintamente, nel collegio all’età di tredici anni, ossia ad una età in cui non può ancóra la vocazione essere sincera e non possono essere fermi i propositi. Dopo una disciplina di cinque anni, questi giovani, molto penosamente carichi ma non penetrati di scienza, vengon fuori col grado di Guardia Marina. Quindi sono promossi al grado di Sotto Tenente, e in séguito a quello di Tenente di Vascello. Floridi ancóra della prima giovinezza, navigano in compagnia d’ufficiali di pari grado, ai quali bene spesso jam cycnaeas imitantur tempora plumas.

Qui, inesorabilmente, qualunque loro ardore di corsa è abbattuto e soffocato. Essi devono aspettare, prima d’essere promossi a un superior grado, almeno quindici o venti anni, senza speranza!

Abbiamo dunque nello Stato Maggiore Generale tre distinte classi: – ufficiali giovanissimi, inesperti, ancóra ondeggianti tra la dolcezza de’ primi sogni e la durezza della nuova vita su la nave, ancóra repugnanti alle nuove fatiche, ai nuovi sacrifici, ai nuovi dolori; – ufficiali esperti, rotti alla ventura delle lunghe navigazioni, forti di studii, energici, degni in tutto di comandare, ma incatenati al loro grado, disperati omai di raggiungere la mèta, sfiduciati, pieni di amarezza e di disgusto; – ufficiali, infine, che, avendo raggiunto il grado di Comandante in tempi di fortuna ed essendo ancóra giovani, chiudono a quegli altri la via dell’avanzamento, se bene sieno, per la massima parte, di molto inferiori.

Ora, io domando: – Perché ai giovani che vogliono intraprendere la carriera navale viene stabilita per l’ammissione l’età dei tredici anni? Perché non si il modo di entrare nell’Academia ai giovani che, essendo in una età meno tenera ed avendo più maturo il giudizio, son chiamati alla vita del mare da una sincera e consciente vocazione, non dalla volontà paterna o da una tradizione familiare?

I corsi suppletivi del 1864 e del 1865, frequentati appunto da giovani diciottenni, diedero frutti mirabili. Quei discepoli, già preparati a tutte le discipline, atti per la maturità della mente a vincere ogni più ardua difficoltà della scienza, atti per la robustezza del corpo a sostenere la forte e rude educazione navale, sicuri d’avere eletta la via a cui indubbiamente eran chiamati dalla natura dell’ingegno e dell’animo, riuscirono quasi tutti eccellenti ufficiali e superarono di gran lunga l’aspettazione.

È inutile dare all’armata una Guardia Marina di diciotto anni, quando il giovine medesimo deve poi rimanere immobile per tanto e tanto tempo nel grado di Tenente e a volte non riuscir né anche a raggiungere il grado di Capitano di Corvetta. Ed è poi un danno; perché accade che degli allievi reclutati in età così puerile alcuni si rivelano poi assolutamente disadatti alla carriera e diventano pessimi ufficiali non per cattiva volontà ma per mancanza di qualità nautiche e di attitudini alla vita del mare.

Il nuovo ordinamento dell’Academia reca, in verità, qualche buona cosa. L’istruzione degli ufficiali è resa più vasta e più solida per mezzo di un Corso Superiore di studii, diviso in due periodi; di cui l’uno è obbligatorio per i Sotto Tenenti di Vascello, l’altro è facoltativo e può esser frequentato anche da ufficiali di superior grado.

Il primo corso la idoneità al grado di Tenente; il secondo serve di base per i successivi avanzamenti e per le destinazioni in servizio.

Ma questo Corso Superiore ha un difetto grave. È aperto a tutti gli ufficiali sbarcati, indistintamente, e serve quindi soltanto a ottenere il diploma. Non è, come la Scuola Superiore di Guerra dell’esercito terrestre, una preparazione a conseguire più alti gradi ed a raggiungere in minor tempo il supremo; non è il meritato premio dei pochi, degli eletti, di quei giovani in cui le attitudini, l’ingegno, la volontà sono maggiori; non è, insomma, un vivaio di futuri ammiragli come la Scuola di Guerra è un vivaio di futuri generali. quindi risultati deboli e malsicuri, nel senso della scelta. Aumenta, è vero, l’istruzione degli ufficiali; ma non apre agli eletti la via per raggiungere, nella età virile, l’altezza ambita.

Ora, perché il Ministro, pur lasciando nell’attuale condizione il Corso Superiore, non instituisce una Scuola Superiore di Marina a simiglianza di quella dell’esercito terrestre, aperta soltanto agli ufficiali che dànno prove indiscutibili di ingegno raro, di bene ordinati studii, di volontà nel proseguire?

Con questa instituzione il sistema d’avanzamento, così illogico e crudele, verrebbe a trasformarsi. I buoni e i forti passerebbero innanzi, per diritto di giustizia, a quegli ufficiali che si trovano in alto per favore di fortuna.

Quando incominciò l’incremento dell’armata, costoro salirono per necessità, senza fatica alcuna; poiché non era possibile adoperare a quegli offici i giovani nuovi, gli academici ancor freschi. Oggi invece i giovani studiosi, divenuti Tenenti di Vascello, corron pericolo di invecchiare nella immobilità, per l’ingombro appunto dei fortunati; e corrono pericolo anche d’esser colpiti dalla legge sulla posizione ausiliaria, senza aver fatto un solo passo innanzi!

Perché il Ministro non pensa ai rimedi? qualcuno ha già suggerito due provvedimenti: primo, la creazione d’un grado intermedio fra il Capitano di Corvetta e il Tenente di Vascello; secondo, una legge che metta nella Riserva tutti quegli ufficiali, anche in età ancóra vegeta, non atti a sostenere degnamente il loro grado, sia per mancanza di scienza, sia per mancanza di energia, sia per mancanza di disciplina.

Ma non basta curare soltanto i mali accennati. Altri mali, e gravissimi, sono nella cosiddetta «bassa forza».

In verità, l’onorevole Brin non si volle mai curare degli equipaggi finché vide che, a furia di restringere il servizio anche oltre i limiti del possibile, le cose alla peggio andavano innanzi. Furono imposti agli equipaggi i più duri, i più atroci sacrifici; ciascun uomo fu sbattuto da una nave all’altra, per anni, senza riposo mai; non furon concesse mai licenze che ritemprassero il vigore e il coraggio e inducessero l’uomo a prender la riferma, dopo compiuto il servizio obbligatorio.

Le conseguenze di tale atrocità sono incalcolabili. Tutti quegli uomini, che il Governo con immenso dispendio muta in cannonieri, in torpedinieri, in fuochisti, in macchinisti, appunto se ne vanno quando incomincerebbe giovevole l’opera loro; e se ne vanno perché stanchi e prostrati e disgustati, e perché li spaventa il pensiero che quella misera vita potrebbe continuare.

Così, naturalmente, non si vien mai a capo di nulla. C’è, di continuo, gente nuova da istruire; manca l’esempio e l’appoggio de’ vecchi; e il sacrifizio sta su tutti, senza profitto per nessuno. Gli animi si accasciano o si ribellano, poiché non vedono alcun lume d’ideale in cima alle fatiche. Quella frenesia di attività morali e fisiche diventa una specie di castigo, nella conscienza dei lavoratori; somiglia alla pena che in alcuni ergastoli si infligge ai prigionieri, consistente nel far trasportare di continuo, da un’estremità all’altra d’un cortile, certe pesantissime palle da cannone. La fatica per la fatica: ecco la regola imposta agli equipaggi delle nostre navi.

Quando la disparità fra il servizio occorrente ed il personale, causata dai non ampliati quadri e dalla legittima fuga, giunse a un punto insostenibile, il Ministro dové finalmente cedere alle lamentazioni che a lui salivano da ogni parte. E allora si intrapresero corsi accelerati e corsi straordinari per tutte le categorie. Questi corsi continuano. S’incalzano, come le onde; e per la gran furia, come le onde, si frangono e si dissolvono presso alla mèta. Da per tutto, ove si può stendere la mano, si strappa un uomo per mutarlo d’un tratto in fuochista, in macchinista, in cannoniere.

I macchinisti, specialmente, difettavano per numero e per istruzione; poiché i valenti trovano più facile vita e più remunerativa fatica nelle industrie private, e lasciano quindi il servizio. E di macchinisti ecco una categoria nuova: quella dei macchinisti-torpedinieri. Ohimè, quale strazio!

Col tempo, a furia di rovinare macchine e caldaie, costoro diventeranno macchinisti eccellenti; ma quanto tempo, quante macchine, quante caldaie occorreranno? Uomini vi sono, che pur ieri vestivano la divisa d’operaio d’arsenale, di marinaio torpediniere o cannoniere e perfino d’infermiere, e che oggi vestono quella di sott’ufficiale macchinista torpediniere, non distinguendo un condensatore da una caldaia, ignorando assolutamente che cosa sia la pressione, non avendo insomma conoscenza e pratica alcuna delle delicatissime macchine moderne.

A bordo, vien completato il personale delle macchine con codesta gente; e, siccome è gente inetta, il peso del servizio cade tutto su le braccia del personale esperimentato che, a sua volta, in quanto a istruzione, è molto vacillante. Imagini ora il lettore quel che succede in quei profondi e cupi abissi della nave! Quanto materiale costoso, nuovissimo, vien portato a rovina senza utilità, senza frutto, senza ragione!

Ogni giorno gran fasci di proteste e di rapporti giungono al Ministero; e dal Ministero partono encicliche fiammeggianti di nobilissima eloquenza, nelle quali s’invoca lo spirito di sacrifizio, il dovere che ne incombe, e una quantità d’altre cose belle e sante ma un poco invecchiate. E i danni e i pericoli e le perdite crescono, ogni giorno.

Era assolutamente inevitabile giungere a un tale estremo, per la necessità delle cose. Ma la colpa ricade tutta quanta sul Ministro che è stato sempre sordo ad ogni voce di saggezza e non ha mai voluto d’aumenti pure sentir parlare.

Lo stato del disordine durerà per molti anni ancóra; perché cresce il numero delle navi ed anche questo assorbimento largo di persone è sempre impari al bisogno. Figuratevi che si passa sopra anche alle costituzioni fisiche. In quella povera Academia navale sono accolti certi piccoletti mostri, sempre malati sofferenti e pericolanti, che fanno pietà; e codesti piccoletti mostri vi sono accolti per esser poi dannati alla più terribile delle vite!

O Taigeto, dove se’ tu mai?


IV

Secondo logica, gli arsenali dovrebbero servire per il naviglio e dipender quindi dal naviglio direttamente. Come mai dunque negli arsenali governativi la lentezza è regola costante e la gente delle navi che vi accorrono per riparazioni è considerata, in genere, come intrusa ed è accolta appunto e trattata, in genere, con sdegnosa incuranza?

Ecco. Gli arsenali marittimi sono stati messi dall’onorevole Brin in una certa posizione d’indipendenza dalla categoria degli ufficiali naviganti, poiché l’onorevole Brin, mastro sovrano, ha sempre con i fatti dimostrato molto favore al Corpo del Genio Navale. È nota la tendenza di questo Corpo alla supremazia morale ed è nota la quasi ostilità continua esistente ne’ rapporti tra gli ufficiali di Vascello e gli ufficiali del Genio Navale. Il Ministro ha sempre dato man forte a questi ultimi. Il loro verbo è santo e la loro opera è perfettissima.

Così, per foga di spirito militare, i favoriti si sono spinti troppo oltre, non serbando misura alcuna nel reprimere e sopprimere la ingerenza dell’altra ufficialità entro gli arsenali. Queste grandi officine sono tutte in lor signoria; sono da loro considerate come istituzioni indipendenti; sono dominio loro assoluto. È necessaria un’armonia piena di propositi e d’intenti tra gli opifici e l’armata; ma i favoriti non vogliono piegarsi alla necessità.

Vani son riusciti tutti gli sforzi fatti dagli ammiragli comandanti dei dipartimenti e degli arsenali per frenar quella bramosìa d’indipendenza e di padronanza.

Son riusciti sempre vani gli sforzi, perché in alcuni di quegli ammiragli la inettitudine a dirigere un arsenale eguagliava la inettitudine a dirigere una squadra e perché di altri non si tollerava l’ingerenza, per gelosia. I tentativi anzi servirono a rincrudir la discordia e a rendere gli opifici sempre più autonomi.

Lo stato degli arsenali marittimi, in verità, non è assai florido. Manca, sopra tutto, una saggia ed energica direzione.

Le singole officine hanno un capo che, a sua volta, si considera libero signore; libero di fare e disfare a suo talento. La sorveglianza su i lavori è negletta. I diversi capi-tecnici e capi-squadra di operai, come tanti minori padroni, fanno eseguire opere chieste per favore dalle navi, indipendentemente dagli ordini che ricevono. Insomma, la disciplina, nel più largo senso della parola, è molto fiacca.

Nessuno, dentro, ha una vera e propria responsabilità qualsiasi. Tutti ne hanno una più o meno grave, di nome; ma all’atto pratico, qualunque cosa avvenga, non si trova mai chi risponda. È una congiura di silenzio impenetrabile. Tutto il popolo che chiudono le cinte degli arsenali vive e lavora borghesemente, alla buona, come in famiglia. Gli arsenali sembrano grandi stabilimenti privati, ove manchi il padrone. Ed il padrone, infatti, manca; poiché, qualunque cosa avvenga, gli stipendii non mutano.

Per tali condizioni d’ordine, naturalmente, si son verificati abusi enormi. E l’Ispettor Generale del Genio Navale, uomo di non vasto intelletto ma lavoratore instancabile, pensando di poter rimediare, ha ridotto l’amministrazione e la burocrazia a una tale inestricabile selva di complicazioni che è uno spavento. Povera quella nave avariata ch’entra nel folto intrico!

Quando una nave giunge in arsenale per riparazioni o per ricambi di materiale, deve aspettare quattro, cinque, dieci, a volte anche venti giorni, prima che sieno autorizzati i lavori proposti dal Comando; tante sono le prove e controprove che si richiedono, tanti sono i giri che le carte devono compiere prima d’essere approvate. E l’Ispettore, in verità, è riuscito ad aumentare le ragioni e le cause degli abusi. Per la complicazione dei protocolli, le carte giacciono e si sperdono negli uffici. Nessuno conosce perfettamente le vie ch’esse carte devono seguire. Si procede a tentoni, urtando in ostacoli d’ogni sorta; e si finisce quasi sempre col far come si può e anche col non fare.

Il più delle volte, per ottenere le riparazioni e i lavori necessarii o il ricambio dei materiali, bisogna correre in elemosina di favori: dal tal commissario perché amico, dal tale ingegnere per raccomandazione d’un Caio, dai diversi contabili con doni di caffè, dal capo-squadra del tal gruppo d’operai con doni di candele, dal tale operaio con doni di vino, e in genere da tutti coloro che amano si chiuda un occhio su qualche piccola o grande irregolarità. Bisogna, insomma, inchinarsi, piegarsi, strisciare, serpeggiare, avvilirsi, comprimere la dignità propria per fare il proprio dovere!

I comandanti mandano in giro per gli arsenali i loro sott’ufficiali contabili, con queste parole: «È necessaria la tale opera. Ingegnatevi.» E i contabili vanno, girano, trovano i loro amici, gli amici de’ loro amici; e s’ingegnano. E qualche cosa, se non tutto, bene o male ottengono. Certo è che nessun viaggio di carte e nessun ufficiale profano delle consuetudini negli arsenali valgono ad ottener ciò ch’essi ottengono, così presto.

Se le navi poi non si dichiarano pronte, i comandanti dei Dipartimenti e il Ministero battono fieramente su i comandanti di bordo. «Dovevate far eseguire; dovevate essere pronti.» Ecco l’eterno rimprovero ministeriale. Il Ministero fa professione di meravigliarsi in perpetuo.

La mancanza d’una direzione saggia e di una bene intesa disciplina negli stabilimenti marittimi porta il danno in ogni ramo.

Il numero degli operai è scarso, non pari alle esigenze dell’armata; ma pure il lavoro degli operai vien disperso, e l’ozio è veramente in gran fiore. Moltissimi operai sempre vi sono, de’ quali non si sa che cosa facciano in tutta la giornata. Gironzano con una dilettosa placidità, tenendo uno scalpello in mano. I sorveglianti vedono il simbolico scalpello e sono paghi. Gli ingegneri stanno negli uffici, ed anche il men che possano. Dirigono dagli uffici, confidando nei capi-tecnici. I capi-tecnici, confidando ne’ lor dipendenti, non si lascian mai vedere. Si tratta, in fine, d’una bella e dolce associazione di gente che si riposa.

Una prova delle dure verità ch’io affermo mi è offerta ora dalla flotta riunita alla Spezia. I lavori sono continui e ardenti. Una cieca furia ha invaso gli arsenali. Le grandi manovre sono prossime. Per il primo giorno di luglio tutto il naviglio sarà pronto. Ma rivedremo il bel naviglio due mesi dopo.

Se pure una sola nave non avrà bisogno di almeno quindici giorni di porto, io per ammenda mi farò recidere la mano.


V

La tempra del marinaio italiano, è, in verità, così forte e pieghevole ch’io credo non possa al mondo temere alcun paragone. Il nostro marinaio ha virtù di membra e d’animo singolari: la obedienza sua è immancabile; instancabile è la sua resistenza alla fatica; la sua versatilità in tutti i rami del servizio di bordo è felicissima; il suo coraggio è meraviglioso. In ognuno dei nostri uomini è, latente, lo spirito di un eroe. Alti prodigi celebrerà nelle sue pagine il futuro storico della Marina militare italiana.

Però due difetti assai gravi ancóra offuscano tanto splendore di doti naturali: incuranza della pulitezza, mancanza di coltura.

Oggi, più che di marinai militari noi abbiamo bisogno di buoni operai militari. E poiché ogni uomo, in genere, o nativo delle coste o nativo delle province interne, è suscettibile di adattarsi al mare, sarebbe di necessità e di utilità grandi una modificazione del sistema di arruolamento.

Molte sono le cause che concorrono a far de’ nostri marinai un «personale» poco atto alle navi moderne. I più sono pescatori che non hanno mai navigato al largo; altri han navigato su piccoli bastimenti per il cabottaggio o su tartane; pochissimi han compiuto lunghi viaggi su navi a vapore. Alcuni poi han fatto navigare il libretto, per aver modo d’arruolarsi nella leva di mare; e son veri marinai d’acqua dolce.

Tutti costoro, appena venuti al servizio, invece d’essere tenuti qualche tempo nelle caserme per ricevere un’istruzione militare conveniente, sono spediti su le navi. Le caserme sono semplici stazioni di passaggio, per tutti costoro: arrivano, consegnano il biglietto, cambiano abito, prendono un secondo biglietto, e via. Né potrebbe essere altrimenti. Da ogni parte alte voci incessanti chiedono marinai. Convien mandarli; e non bastano.

A bordo non bastano. S’accumula su loro una fatica che dovrebbessere compiuta da un molto maggior numero di persone, e di persone capaci. Essi hanno attitudini bellissime; ma non c’è mai tempo di istruirli, di educarli, d’impratichirli. Lavorano meccanicamente: non rendono che la forza muscolare, poiché la forza intellettuale rimane inerte. Eseguiscono il lavoro per tempi, come l’esercizio del fucile; e si può dire che, tanto nel corso del lavoro quanto alla fine, non han capito nulla. Da una fatica passano a un’altra di diverso genere, con una rapidità straordinaria e con una stoica perseveranza; ma, intellettualmente, restan sempre al punto medesimo. Non sanno mai nulla di nulla.

Tutta la colpa è del metodo. Invece di affidare all’attività di ciascuno una data parte della nave, si pretende che ciascuno abbia tutta quanta la nave per campo della sua attività. Se tra gli ufficiali vi son molti che, dopo aver vissuto un anno a bordo, mal conoscono tutti i luoghi della nave e le cose in essa contenute, com’è possibile che giunga alla piena conoscenza e alla perfetta pratica un semplice pescatore, rimanendo a bordo tre o quattro mesi soltanto? Credo di non sbagliare affermando che i nostri marinai, in media, non rimangono a bordo di un bastimento più di tre o quattro mesi.

In tante peregrinazioni da una nave all’altra, essi trascorrono il periodo di ferma, avendo imparato forse una decima parte di quanto avrebbero dovuto; e, ripeto, non per colpa loro. Poi, stanchi, prostrati, sfiduciati, abbandonano il servizio e ritornano alle reti e al remo. E son felici quelli che sanno almeno leggere e scrivere il loro nome. Molti né pure a questo giungono!

L’uomo ignorante non ha l’istinto della nettezza né quello della emulazione. A bordo, si predica sempre la nettezza della persona e della nave; ma gli ammonimenti riescono vani. Qual cura di sé può avere un uomo, sbalestrato da una estremità all’altra in cento lavori che non finiscono mai, che si moltiplicano di giorno in giorno e che pur bisogna eseguire?

È possibile, con questa regola, ottenere la nettezza della nave, ma non mai della persona. Il mestiere del marinaio moderno, nella nostra Marina, finora compendia quello del facchino e quello del lustratore. L’uomo si spezza la schiena in fatiche erculee, si logora le mani in brunire e in polire metalli.

L’educazione morale manca intieramente. È molto se qualche domenica, per venti minuti, un segretario legge all’equipaggio una pagina del codice: pagina di colore oscuro, non comentata da alcuno. Le scuole elementari sono trascurate assai spesso. Sono, il più delle volte, un vero riposo per i marinai che nessuno ammaestra e nessuno sorveglia. Se ne fa menzione però, regolarmente, nel giornale di bordo, perché abbia corso il supplemento di paga ai sott’ufficiali istruttori.

L’istruzione militare, anche, si fa quando si può e come si può. Né, in vero, è sufficiente al bisogno. Ecco un esempio. – Tutti gli uomini d’una nave, dal fuochista al marinaio, dal cannoniere al furiere, dal caporale al sott’ufficiale, dal sott’ufficiale al comandante, dovrebbero saper maneggiare la carabina. Or bene, mettete in riga tutti gli uomini che sono a bordo della attuale squadra, e comandate loro di caricare a ripetizione la carabina. Due terzi non sapranno; e in questi due terzi saranno uomini di ogni categoria.

Delle altre armi, degli altri istrumenti di bordo è inutile parlare. Non i marinai propriamente detti dovrebbero maneggiare quelle armi e quegli istrumenti; sì bene gli uomini delle categorie speciali, coadiuvati da marinai. Per difetto di quegli uomini, i marinai fan tutto. Cosicché a parole i marinai nostri sono sapientissimi e variissimi operatori; a fatti sono una forza cui è necessaria una guida vigile e costante. Ma i capi o non ci sono o non si lascian vedere o per numero non bastano; e quindi alla forza manca la guida.

Ne’ tempi scorsi, una certa severità regolava le promozioni di basso grado. Erano necessarii, per fare un passo innanzi, serii requisiti di capacità. Ora, invece, le promozioni si concedono con facilità grande; poiché coloro i quali son giunti a un qualche grado, terminato il periodo di ferma, se ne vanno, e convien riempire il posto vuoto. Il semplice criterio dei comandanti è legge alle promozioni.

Nelle Americhe spagnuole vi sono eserciti composti di colonnelli e di generali; nella nostra Marina, equipaggi composti di caporali e di sott’ufficiali. Ma pur troppo fra quegli eserciti e questi equipaggi v’è qualche altra simiglianza.

Ho detto già che sarebbe di necessità e di utilità grandi una modificazione del sistema di arruolamento. Aggiungo ch’è di prima necessità l’ampliazione della leva di mare.

La leva di mare si va già allargando; ed è bene. Ma i criteri che la governano non mi paiono giusti ed esatti.

L’Italia è nazione essenzialmente marittima. Le terre interne producono marinai ammirabili. Il grande alito del mare giunge insino a’ fianchi delle Alpi e si propaga lungo l’Appennino. Tutti gli Italiani sono marinai, poiché sentono che nel mare è la grandezza eterna. Prendiamo dunque i nostri uomini non su le coste ma su tutto il territorio peninsulare.

Le nostre navi sono certo i più difficili congegni della guerra moderna. A ben governarle ci vuol gente che, prima di venire al servizio, abbia una certa istruzione, o almeno una intelligenza già aperta. Sarebbe quindi opportuno, io penso, eseguire una scelta annua fra il contingente totale della leva di terra e di mare.

Negli arsenali militari marittimi e terrestri, nei cantieri privati, nelle officine industriali, v’è una moltitudine di giovani operai a bastanza cólti, conoscitori già di attrezzi marinareschi, di macchine, di armi. Il contingente annuo fornito da questi giovani dovrebbe essere dato tutto alla Marina.

E dovrebbessere abolita la vecchia usanza della estrazione e soppressa la seconda categoria.

Avremmo così una forza media di ventimila uomini, in tempo di pace. Avremmo, in tempo di guerra, più del doppio. Avremmo (e questo è il meglio) equipaggi veramente degni di navi moderne.

Oggi la guerra marittima vuole anche pronti intelletti. Non bastano a navi d’acciaio cuori d’acciaio.


VI

Fino a questi ultimi tempi, la più terribile arma contro le grandi navi corazzate e la più agevole pareva il cannone da cento tonnellate. Nell’anno in cui fu messo in mare il Duilio, nell’anno primo del rinascimento, il siluro era ancóra un’arma imperfetta, incerta, costretta a un raggio di azione assai breve; né poteva ancóra esser lanciato da un naviglio in corsa a tutta velocità. La torpediniera, prima di lanciare, doveva fermarsi o almeno rallentare la corsa, per aver preciso il tiro e per fuggire il pericolo d’andar sopra al siluro e di saltar in aria. Inoltre, la torpediniera mancava di solidità nel reggere il mare e mancava di esattezza nell’obbedire al timone.

Oggi, invece, il siluro ha raggiunto uno straordinario grado di perfezione; e nella costruzione della torpediniera il progresso è mirabile.

Il progresso è continuo. Dalla casa Yarrow e C. di Poplar, appena tre mesi fa, uscì un nuovo tipo di torpediniera di seconda classe, al quale le autorità dell’Ammiragliato inglese tributarono altissimi elogi. Questa nuova barca, solidissima, veloce, resistente al mare, potentemente armata, a bastanza comoda per l’equipaggio, l’ultimo crollo al vecchio tipo. Porta a poppa, in coperta, un tubo di lancio che può esser puntato in qualunque direzione, e che può anche, nel caso, essere rimosso e sostituito da un cannone Hotchkiss a tiro rapido da tre libbre.

Il lancio dei siluri vien fatto per forza di polvere invece che per forza d’aria compressa. Una garitta d’acciaio protegge l’apparecchio di governo e le trasmissioni d’ordini alla macchina e al tubo di lancio; cosicché, se la torpediniera dovesse entrare in combattimento, nessuno degli otto o nove uomini d’equipaggio sarebbe scorto dal nemico. La macchina è a tripla espansione. Tale è la facilità di manovra, nella nuova barca, che ella può girare descrivendo un circolo di quaranta metri, mentre è lunga più di diciotto.

Non minore è il progresso nelle torpediniere d’alto mare. La casa Yarrow e C., infatti, è giunta a un tipo eccellente, che unisce a una singolare potenza d’armamento una singolarissima resistenza contro ogni fortuna di mare e una comodità di alloggi insperata. Una descrizione minuta di questo massimo tipo sarebbe qui fuor di luogo. Basti sapere che, come armi d’offesa, principalmente, la barca porta a prua due tubi lancia-siluri ed a poppa un terzo tubo montato su piattaforma girante, che può lanciare da due lati e in qualunque direzione. Porta inoltre tre cannoni a tiro rapido e quattro mitragliere Gatling a sei canne. È lunga trentanove metri, e può fare una evoluzione su la dritta e su la sinistra in un circolo del diametro di circa due volte la lunghezza. Può raggiungere una velocità di circa ventiquattro nodi, in completo armamento ed in assetto di navigazione.

È fuor di dubbio omai che oggi il siluro, nella guerra marittima, sia l’arma suprema e che le torpediniere nella difesa delle nostre coste abbiano il primo luogo.

Le torpediniere possono oggi essere d’efficacia grandissima contro le offese nemiche, in ispecie contro gli sbarchi; purché – come osserva il Maldini nel suo recente scritto intorno La difesa marittima d’Italia – «nel concepire il piano di difesa delle coste siasi tenuta presente la necessità di preparare a codesto naviglio speciale gli opportuni punti di rifugio e d’appoggio lungo il litorale e più specialmente in prossimità di quelle posizioni le quali si prestano meglio per una operazione di sbarco».

Nella futura guerra, dunque, una parte delle torpediniere sarà aggregata alle squadre; ed un’altra, la maggiore, sarà disseminata a gruppi su i diversi punti più accessibili del litorale e delle isole, formando come una lunga catena di vigilanza.

Del nostro esercito di mare, molti, specialmente i giovani, hanno nella torpediniera una fede profonda; più forse che nelle navi, considerando la straordinaria potenza di quelle piccole barche rapide al paragone de’ colossi. – Dopo l’apparizione di questi istrumentidiceva Sir William Armstrong, sei anni fa, in un’assemblea d’ingegneri britanni – le più forti corazzate non sono, rispetto al naviglio più debolmente armato, in condizioni di sicurtà migliori. Essendo stata lungo tempo viva la speranza di giungere ad ottenere la invulnerabilità assoluta, non è meraviglia che a questo intento si sian fatti i più gravi sacrifici; ma, appunto per la esperienza nostra di oggi, sarà a noi permesso d’esprimere qui la convinzione che la tanto cercata invulnerabilità è una chimera. Non soltanto è dimostrata l’inefficacia della corazza contro l’esplosione delle torpedini e l’urto dello sperone; ma noi abbiamo ragioni plausibilissime per affermare a priori che qualunque progresso nella via d’accrescere la resistenza delle corazze contro l’effetto dei proiettili sarà sùbito seguìto da un corrispondente progresso nella potenza dell’artiglieria.

Ciò posto, nella ricostituzione della nostra armata, le torpediniere ed i loro equipaggi dovrebbero essere oggetto di cure speciali.

Ma accade oggi il contrario; e la ragione della incuranza deve forse ricercarsi in questo: che non tutti gli ufficiali credono nella efficacia guerresca delle torpediniere e che i men fervidi fautori sono, in genere, i capi; i quali non le hanno conosciute intimamente ma solo vedute e studiate da lontano.

Le torpediniere disarmate o in posizione di riserva, negli arsenali, sono in mano di un numero di persone così scarso che deperiscono rapidamente. Dovrebbero, per regola, essere pronte a partire in assetto di guerra nel tempo massimo di ventiquattro ore; invece non s’è ancor dato il caso che una abbia potuto lasciare il porto, completamente armata, prima di quattordici o quindici giorni.

Quei fragili e delicatissimi e terribilissimi istrumenti moderni vogliono equipaggi esperimentati; i quali sappiano, con eguale abilità, compire tutti i necessarii servigi e quindi abbiano unicamente l’ufficio d’armar torpediniere e in quello si provino di continuo. Se bene vi sieno ancóra molti dubbii circa l’azione delle torpediniere in tempo di guerradice uno scrittore del Daily News, in proposito del nuovo tipo yarrowiano di cui abbiam parlato sopra – è almeno certo che solo gli equipaggi perfettamente pratici delle torpediniere a loro affidate avranno una ragionevole probabilità di condurre a termine le perigliose imprese. Il modo di manovrare una torpediniera moderna non s’impara né in un giorno né in una settimana.

È dunque per noi necessario instituire una Direzione speciale, incaricata unicamente delle torpediniere, e d’un Corpo che fornisca equipaggi unicamente alle medesime.

Accade oggi, per lo più, che in un periodo di tre o quattro mesi tutto l’equipaggio di una torpediniera venga ricambiato con un equipaggio novizio, anzi novizio non soltanto del naviglio ma bene spesso anche del mare. Un marinaio, o un fuochista, o un caporale, o un sott’ufficiale, è promosso. Poiché la tabella d’armamento non porta quel grado a bordo, il promosso viene sbarcato e inviato su una nave. Ogni buon frutto della fatica e del tempo spesi a istruirlo è perduto!

Bisogna allora ricominciar da capo con la gente che viene in sostituzione; e sempre con pregiudizio grave del materiale che nell’assiduo attrito si consuma e si guasta. Il materiale, per conservarsi sempre in ottimo stato, ha bisogno di regolari riposi, quando l’equipaggio sia giunto a conoscerlo e a maneggiarlo.

Una prova incredibile della insipienza o della leggerezza di chi sta in alto, eccola. Furono una volta spediti all’Estero, per prendere alcune torpediniere e condurle in patria, equipaggi allora allora esciti dalla leva, che non sapevano stare al timone, che chiusi nella camera della caldaia non potevan reggere o mal reggevano, e che al più piccolo moto del mare restavano prostrati e abbandonavano il servizio di bordo.

Ma a bordo di un tal naviglio hanno da stare uomini provati a tutte le più fiere fortune, vere tempre incorruttibili e inflessibili. Su la torpediniera si vedono gli eroi.

Il servizio è diviso in due turni. Secondo la regola teorica, una parte dell’equipaggio dovrebbe vegliare e operare, l’altra dovrebbe riposare. Nella pratica però succede (e così sarà anche per l’avvenire) che, quando la torpediniera cammina, tutti lavorano, di giorno e di notte, e nessuno riposa.

Le macchine di queste minime navi sono assai diverse dalle macchine delle navi massime: l’elice acquista la rapidità vertiginosa di trecento e quattrocento giri al minuto; la pressione, nelle caldaie sottili, monta a dodici e a quattordici atmosfere.

La sicurezza della mano dev’essere infallibile, la leggerezza del tocco dev’essere tenuissima. Il più abile e il più intrepido macchinista d’una corazzata si sente smarrito sopra una torpediniera. Se egli lascia fuggire un filo di vapore, la pressione cade e con la pressione la velocità, d’un tratto. Ma, sotto le ineguaglianze improvvise, i più delicati congegni si guastano; la caldaia, dilatata dalla gran pressione, si contrae subitamente: le commessure dei compartimenti e de’ fornelli si piegano. E ne segue, per ultimo, una trasformazione nello stato molecolare del metallo e quindi una diminuzione nella forza di resistenza: la rovina.

Né il macchinista soltanto è il martire, dentro. Tutti, dentro, sono martiri. Non la fatica indefessa, non lo scotimento della barca, non l’ardore delle macchine e delle caldaie, non la spruzzaglia incessante e i colpi di mare, non la soffocazione nelle torri chiuse e nelle camere interne, nulla deve abbattere la volontà. La forza non ha da scemare, l’energia non ha da vacillare, la serenità della mente non ha da mutare.

La virtù de’ nostri marinai ha già dato gran lume, su le torpediniere. Vi furono nelle passate manovre interi equipaggi che per quattro o cinque giorni di séguito non dormirono. Finché la necessità è sopra, finché è viva l’emulazione, le membra obediscono. Appena cessano per un momento gli stimoli, le membra si piegano e non si risollevano che dopo lungo riposo.

Per ciò gli equipaggi delle torpediniere dovrebbero sempre essere i medesimi. Tre o quattro anni di vita in quegli eroici inferni formerebbero uomini prodigiosi, capaci di vegliare e di lavorare per settimane intere fra i più duri cimenti.

Convien ricordarsi che nella futura guerra l’officio delle torpediniere sarà simile a quello della sentinella con il fucile armato pronta a far fuoco. Chi sa per quanti giorni e per quante notti gli equipaggi dovranno vegliare, prima di scorgere all’estremo orizzonte un pennacchio di fumo nemico! E sia di giorno o sia di notte, e sia presto o sia tardi, essi dovranno esser preparati sempre ad assalire, senza turbamento alcuno.

Il coraggio dei marinai torpedinieri, in faccia al pericolo, dovrà essere gelido; la chiarezza del loro intelletto dovrà essere immutabile; l’azione delle loro membra dovrà essere regolare come quella di un istrumento esatto.

S’avvicineranno essi alla gran nave nemica sotto la grandine incessante delle mitragliatrici e dei cannoni a tiro continuo, capaci di dare più che seicento colpi al minuto con incredibile sicurezza. S’avvicineranno a quattrocento metri; a men di quattrocento, se sarà possibile. Lanceranno il primo siluro; lanceranno il secondo. E nessuna gioia umana eguaglierà la loro, se potran vedere la mostruosa corazzata nemica inclinarsi in sul fianco, volgere al cielo le inutili bocche de’ suoi cannoni da cento, e rapidamente scomparire, con le sue torri e con le sue batterie, in un gorgo smisurato.


VII

Ed eccoci alla disciplina. L’argomento è arduo. Nella discussione parlamentare sul bilancio della Marina la questione ebbe una parte importante. Qualcuno ci fu, che osò mettere in dubbio la rigidità della disciplina su le navi dello Stato. Il Ministro allora ebbe un impeto di nobile sdegno; l’onorevole Canevaro fece il resto amabilmente; e dinanzi a tanto calore di eloquenza i dubbii si disciolsero come nebbie dinanzi al primo sole.

Confesso che, mentre negli altri miei capitoli ho parlato con apertissima franchezza senza badare né alle ironie degli sciocchi né alle meraviglie degli ingenui né alle indignazioncelle dei farisei, provo in questo un po’ di esitazione e quasi di timore.

La disciplina è sempre stata e sarà pur sempre l’essenziale spirito di tutte le milizie. Mettere in dubbio la bontà della disciplina in una milizia equivale a negare ad una milizia la principalissima delle virtù militari. Come la coesione è una forza fisica inerente alla materia, così la disciplina è una forza morale inerente all’esercito. Ambedue le forze sono assolutamente necessarie per costituire l’una cosa e l’altra. Come non è possibile concepire un corpo organizzato senza coesione, così non è possibile concepire un esercito senza disciplina.

Ora, che cosa intendiamo noi per disciplina? Una assoluta e cieca obedienza alle insegne del comando o una perfetta armonia di fede e di intenti fra superiori ed inferiori? Insomma, una azione fisica o un fenomeno di conscienza?

Nel primo caso, il Ministro della Marina ebbe ragione affermando quel che affermò; nel secondo caso, ebbe torto.

A bordo delle nostre navi la disciplina, che io chiamerò fisica perché fondata su leggi di constrizione, è veramente rigidissima. Negli equipaggi gli atti d’insubordinazione e di rivolta sono assai rari. Il marinaio obedisce ciecamente; è umile, sottomesso, quasi servile.

L’ufficiale, in genere, fa della sua autorità largo uso. I costumi dell’antico militarismo sono ancor vivi nell’armata. Il comando ha da essere aspro e superbo perché sia efficace; la correzione ha da essere improntata d’ira e di violenza perché sia intesa. La calma e la compostezza non sono virtù militari. Tanto più vien predicato energico un comandante quanto più terribili e sonori sono gli scoppi della sua collera, quanto più rudi sono le sue parole.

Queste fiere affermazioni dell’autorità materiale si propagano di grado in grado. In ciascun ufficiale, per lo più, son due diversi animi: quello umile, deferente, rispettoso, verso il superiore; quello aspro, superbo, arrogante, verso l’inferiore. Chi ha ricevuta una umiliazione cerca, quasi per rappresaglia, d’infliggerla ad altri. E così la disciplina non è più fondata su l’inalzamento morale del più degno ma sull’abbassamento dell’altrui dignità.

Il Ministero ha, in questa degenerazione, la maggior colpa. Nel Ministero e negli alti Comandi è invalso l’uso di favorire, contro giustizia, questi e quegli senza ragione di meriti personali. Una specie di regionalismo divide l’armata in due parti. Una parte milita per Ferdinando Acton, un’altra per Benedetto Brin e per Simone di Saint-Bon.

Una quantità di ufficiali, che sotto il governo dell’Acton era in favore, è oggi direi quasi in disgrazia. Un’altra quantità, ignorata un tempo, è oggi levata al cielo. In ambedue i campi sono uomini d’alto valore e uomini inetti; ma il fato è comune. Non vale la gioventù, non vale l’astenersi dal parteggiare. Per perdere la fiducia del Ministero e per essere confuso nella volgare schiera de’ mediocri, basta aver avuto al tempo dell’Acton un qualunque ufficio, una qualunque missione, una qualunque promozione.

Appena l’onorevole Racchia occupò il posto di segretario, molti abusi, specialmente di favore, furono troncati con una certa violenza. Ufficiali che da anni godevano la comodità del vivere in famiglia, stando alla direzione degli arsenali, furono d’improvviso sbalzati e mandati a navigare. Già saliva il plauso alla nobile impresa di rinnovamento; e una circolare terribilissima dichiarava che si sarebbero prese molto severe misure contro chiunque avesse osato servirsi di raccomandazioni per ottenere incarichi speciali. Pareva che alfine risorgesse lo spirito della moralità troppo a lungo abbattuto.

Ma la bella fiamma durò poco. Il più energico uomo che abbia oggi la Marina d’Italia, l’uomo che più d’ogni altro ama l’armata, piegò il capo e s’acconciò alla consuetudine. E molti credono, non a torto, che codesta deplorevole sottomissione sia opera del Ministro.

La gran circolare restò lettera morta. E nell’amministrazione militare della Marina seguitò a regnar l’intrigo delle femmine e dei deputati, come in tutti gli altri Ministeri. E le sottili reti dell’intrigo son pur così vaste che non solo abbracciano i superiori gradi ma tutte anche le gerarchie della bassa forza.

Vengono dal Ministero ordini per il tale o per il tal altro marinaio o caporale o sott’ufficiale. Una raccomandazione efficace trionfa di qualunque misura presa, su quel dato uomo, dai comandanti. L’ampio scudo ministeriale protegge, qualche volta, una illegalità. Nessuno, dal primo degli ammiragli all’ultimo de’ marinai, ignora queste cose. Chi ha una femmina compiacente o un amico potente, se ne vale.

Questa, di grazia, è disciplina?

A bordo i regolamenti sono variamente interpretati. Ogni comandante ha una diversa interpretazione, secondo la comodità. Da ciò nascono dissapori; e dai dissapori le mancanze: mancanze talvolta gravi.

La vita a bordo è già dura, per sé stessa. La disciplina (non quella fondata su la brutalità dei ferri ma quella fondata su la saggezza, su la fermezza e su la ragionevolezza) dovrebbe sopra tutto mantener la concordia. Per contro, la vita a bordo si fa talvolta intollerabile, per gli odii e per i litigi.

Il comandante dovrebbe essere la superiore intelligenza e l’anima della sua nave, e dovrebbe portar su ogni cosa la sua vigilanza costante e ad ogni cosa provvedere ed in ogni cosa far sentire la sua azione. Molti comandanti, invece, non comandano la nave che per uscire e per entrare ne’ porti. Quando hanno fatto questo, credono compiuto il dover loro.

Chi mai si preoccupa delle complicate questioni interne? V’è un ufficiale per le artiglierie, un altro per la navigazione, un altro per le torpedini, altri vi sono per altri offici; i quali operano, fanno i rapporti e li sottopongono alla firma del comandante. E tutti lesti. Qualche comandante, per esempio, lascia guidar la nave dal suo ufficiale di rotta; e, sappia o non sappia legger le carte, non ci guarda neppure.

Anzi, in proposito, è da notarsi un fatto importante riguardo alla disciplina.

L’ufficiale di rotta, per tutto ciò che concerne la condotta nautica della nave, spartisce col comandante la responsabilità. Egli ha l’obbligo d’avvertire il comandante su i pericoli che, a parer suo, la nave può incontrare in una data manovra o in una data rotta; e non rimane scagionato delle conseguenze d’una falsa manovra o d’una rotta erronea, se alle prime rimostranze il comandante non dichiara formalmente d’assumere tutta quanta la responsabilità.

Per tali ragioni l’ufficiale di rotta vien considerato come la persona più importante, a bordo, dopo il comandante e dopo il secondo.

Ora, per uso antico, il comandante sceglie nel suo Stato Maggiore l’ufficiale di rotta; e lo sceglie astrazion facendo dall’anzianità e spesso dal grado. Questa preferenza, naturalmente, offende l’amor proprio degli ufficiali più anziani ed è causa talvolta di gravi discordie e di gravi mancanze disciplinari; poiché l’ufficiale di rotta può esigere dall’ufficiale di guardia una data manovra, e non è certo dolce l’obedienza all’ordine d’un inferiore.

L’ufficiale di guardia, su la sua responsabilità, può tenere o non tener conto dell’ordine ricevuto; ma nell’un caso e nell’altro sorge evidente dissapore tra i due ufficiali.

Quest’uso, che di pieno diritto viene a ledere la prerogativa de’ gradi e la regola della disciplina, dovrebbe essere abbandonato. Ogni ufficiale ha l’obbligo di saper navigare. Non vi è quindi ragione per cui si debba dar la preferenza all’uno piuttosto che all’altro. Se qualcuno prova di non saper fare l’ufficiale di rotta, quegli sia espulso dal Corpo, come inetto. Ma il più importante officio di bordo dev’essere affidato al più anziano degli ufficiali.

Tutti questi difetti generano, per necessità, infrazioni alla disciplina. La regola non s’infrange soltanto con una ribellione d’equipaggi; basta l’atto irriverente d’un ufficiale verso la principale autorità, o un dissidio tra colleghi, o una trascuratezza nel servizio generale di bordo, o una discussione acre, o una critica ostile dell’operato altrui, o una mormorazione, o un segno di malcontento.

Il marinaio, in mezzo a queste ineguaglianze, è quasi sempre eguale. Obedisce e si lascia gravar di fatiche anche inutili, senza lamentarsi; ma conta i giorni e, pensando alla fine del suo duro servizio, si consola dell’indifferenza che han per lui i capi. Il marinaio non può, naturalmente, amare e stimare i suoi capi, quando non si sentestimatoamato da loro. La disciplina diventa per lui una specie di schiavitù, a cui egli piega il collo con la pazienza del giumento che sta sotto il giogo. Compie il dover suo, aspettando la liberazione.

Tuttavia, per la tenace fierezza del buon sangue italico, per la nativa generosità della razza, per la santità delle tradizioni, egli si farà serenamente uccidere, quando verrà l’ora, anche sapendo d’esser condotto alla morte senza utilità e senza speranza. E se la sua nave andrà a picco, avrà certo, come quel glorioso Re d’Italia, tutte le bandiere inalberate.



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