IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
A nostra madre l’Italia
a nostra donna l’intelligenza
La Patria è una costante creazione, è una costante apparizione, è una costante dedizione. Non la possiede se non chi la crea, non la merita se non chi la vede, non la serve se non chi abnega sé stesso.
Il nuovo coraggio consiste nel compiere con fermo e lucido animo cómpiti disperati. La nuova prodezza consiste nel forzare il dolore a farsi operaio luminoso, artefice raggiante. Or è molt’anni io scrissi: «Il pericolo è l’asse della vita sublime.»
L’eroismo – ordine di vita fervida e creatrice – giunge a questa ultima scoperta, più chiara che per il confessore l’aureola, più santa che per il martire la palma: «Soltanto nel sacrifizio è la libertà.»
L’arte è un sacrifizio, il più insigne dei sacrifizii. È un sacrifizio ed è un presagio, se l’opera rivela agli uomini quel che non avean essi veduto né intraveduto. Per ciò a me fu dato questo dono dell’espressione che, nella storia dello spirito, nella storia di tutte le epoche e di tutti i linguaggi, nessuno ebbe eguale. Per ciò ho saputo io trarre da me l’uomo che si travagliava in me e il dio che balenava al sommo di me. Ai giovani fertili, più che insegnamento, io sono esempio: esempio, meglio che parola.
«L’Imitazione del Lebbroso» forse potrebbe sibilare la mia ironia di franteso e di vilipeso, se non la strangolassi.
Ora i giovani Italiani reduci dalla trincea son meravigliati di sopravvivere ma non più temono di patire. Superarono nel patimento gli efebi di Atene, e anche quelli di Lacedemone. Non si risparmiarono mai, non mai si sottrassero ad alcuno sforzo pur inumano e pur sovrumano, non chiesero alcun sollievo, non ebbero alcuna tregua. Ora è giusto che duramente vogliano essi conoscere il significato e il valore della prova tremenda: nel senso ascetico, il prezzo del mondo.
E a nessun di loro importi che la vittoria, piegata sopra la sua spalla o serrata contro il suo gomito come una compagna fedele, si trasmuti in povertà. Né il vecchio gusto della stravecchia anarchia impedisca ad alcun di loro l’attenzione: virtù dello spirito suprema, scopritrice di nuove terre di nuovi mari di nuovi cieli.
I giovani fertili, che la guerra spietata e poi la pace fraudolenta costrinsero a rinunziare i giorni studiosi, certo avran caro questo libro che figura per le loro anime la vita segreta d’un’altra anima sempre giovenile.
Dolce nella memoria. Dopo avere ansato nell’odore dei corpi sudici, delle lane calde, del sacco di pelo, del cuoio marcio, del sangue rappreso, del sudore rappreso, del cadavere, della carogna: dopo aver fiutato la morte atra senza ottenere la morte bella: talvolta dentro una stalla di Cervignano m’avveniva di provare non so che soavità, non so che incognita e infinita soavità, nel palpare il muso del mio cavallo Vaivai, nel lasciargli prendere l’avena dalla mia palma, nel provocare il soffio delle froge lievi, nel respirare l’odore dell’arnica.
V’è talvolta in questo libro qualcosa di quell’indugio, di quella sosta.
La morte raffina la vita. Nell’ottobre del 1916, quando le petraie carsiche divampavano e si scheggiavano, io fante orbo, fante bendato, ero giunto per ordini al posto del Generale Sani; che anch’egli, già capo di cavalieri, era disceso di sella portando seco le due pistole d’arcione: compita prodezza, sprezzatura schietta. L’occhio superstite scorse sopra la tavola rozza il libro di Alcyone aperto; che parve mi si fosse riaperto nell’occhio spento. Un «trecentocinque» austriaco in quel punto colpì la baracca. «Con che miracolo lo fai?» fu scritto da Imperiale Oldrado sotto l’impresa del fuoco. Sì, nel tuono, nello scroscio, nel crollo, nello sfasciume, ci sentimmo annientati; ci sentimmo polvere e gloria. Sì, ci rialzammo vivi, oltre la distruzione, nello sprazzo d’italiano sole gettato dal libro indistruttibile. Così nulla somiglia all’impeto della mia ascensione lirica quanto (o mio Luigi Garrone, chiuso poeta, eroe di baleni!) quanto «quella grande impennata repentina contro il sole, nel cielo del Grappa, fra le quattro granate esplodenti in capo in coda e alle ali del mio sparviero».
Ma rari sono tuttavia quelli che riconoscono come la poesia di un insigne popolo sia il presagio del suo estremo destino.
Il lago è oggi simile al braccio reciso d’un vasto fiume regale. Dove andava? a qual foce? a quale oceano?
Un velo copre il Garda, un velo il Baldo. Tutto è molle, e immemore. Cilestrino è il primo cerchio, il secondo è rosato; e il restante cielo è tutto eguale di perla. Nel folto dell’arengo, alle colonne e ai tronchi gli uccelli ripetono il coro del mattino. Rinnovano alla luce làbile il commiato eternale di Antigone. Fuso è il canto, negli alberi di magnolia, come se le voci e le frondi si compenetrassero. Le campane sembran quelle della cattedrale sommersa. I pensieri sembran fluire dalle tempie col sangue delle arterie incise.
Tutto è languido, fuorché il promontorio di Manerba, fuorché l’effigie petrosa di quel Dante che disdegna i languori della vita crepuscolare.
E sul sasso di Manerba ecco una lunga nuvola di fuoco roseo: una immane colonna riversa, immota nella linea dell’orizzonte. Abbattuta è quivi dunque la colonna di fuoco indicatrice? non segna più, non indica più?
Ma forse interpreta, o compagni fedeli, il mio gesto: quel d’allora e quel di ora. Forse è orientata verso quell’oriente a cui son fiso dalla prua d’una esule nave che serba il rombo del suo mare, del mio mare.
Quamobrem, Itali, vigilabo pro vobis.
Oggi undecimo giorno anniversario, posso io trovar grazia nel cospetto della mia nazione?
Dal Vittoriale degli Italiani,