Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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La parola di Farsaglia

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La parola di Farsaglia

[1895]

Questa fràtria di scrittori e di pittori accomunati da uno stesso culto sincero e fervente per tutte le più nobili forme dell’Arte, questa giovine fràglia mettendosi a questa impresa di difesa e di offesa, accingendosi a darle il meglio delle sue forze, ha ben considerato le troppe difficoltà opposte e mosse in un tempo che sembra abolire ogni culto delle cose intellettuali. Tuttavia non vogliam noi apparire asceti solitarii che inalzino un loro altare alla Bellezza eterna per officiarvi nella liturgia di Platone, e neppur neofiti occulti che si adunino intorno a una mensa mistica per cibarsi di pane azzimo e per bere nell’unica tazza l’acqua del fonte suggellato. La nostra ambizione è assai più virile. Molto lievito è nel nostro pane cotidiano, per fortuna, e la nostra razza richiede vin mero della più ardente vigna italica.

Uscendo dalle imagini – se bene convenga coltivarne in grande abondanza negli orti latiniuscendo per poco dalle imagini ed entrando nella persona verbale più convenevole alla natura del discorso, noi vogliamo sperare che questo nostro allarme possa raccogliere un vivo fascio di energie militanti le quali valgano a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità che ricopre omai tutta la terra privilegiata dove Leonardo creò le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili.

Sembra, in verità, che ricorrano per l’Italia i tempi oscuri in cui vennero da contrade remotissime i Barbari a travagliare un suolo che pure era cresciuto con la polvere degli estranei e nella corsa ruinosa abbatterono tutti i simulacri della Bellezza e cancellarono tutti i vestigi del Pensiero. Ma la presente barbarie è, secondo noi, peggiore o almen più vile; perché non ha, come l’antica, l’enormità delle rabbie spumanti e sanguinanti. Essa consegue i medesimi effetti: anche abbatte e cancella, ma non come un turbine rapido crinito di fólgori, sì bene come un tardo fiume fangoso ove si scàrichino mille canali putridi. E per colmo di onta questo fiume ha in Roma la sua sorgente massima: in questa terza Roma che doveva rappresentare al conspetto del mondo «l’amore indomato del sangue latino alla terra latina» e raggiare dalle sue sommità la luce di un Ideale novissimo.

Se a noi convenisse un riso faticoso, diremmo che tutte le solenni leggende romane ci sembrano omai concluse in quel codice palatino ove si serba La leggenda di Vergogna.

Or chi fu quegli che sognò dai ruderi inondati di tanto sangue eroico fosse per levarsi robusta di radici e di rami una nuova epopea? Noi che in una sera di settembre fummo risvegliati nei nostri letti infantili dalle fanfare e dalle grida che celebravano la sublime conquista e ricevemmo nella lieve anima sbigottita il nome di Roma tra il rossor delle fiaccole, noi che apprendemmo dai nostri pedagoghi a venerare le cruente imagini dei combattitori e le confondemmo con quelle che coruscavano dalle pagine di Plutarco, noi ci affacciammo alla vita ebri di fede credendo di assistere al mistero di un’Assunzione «septemgemina». E non fummo spettatori se non di una farsa tragica.

Quante insigni giovinezze si sterilirono! Quanti occhi puri si ammalarono e non più sostennero la vista del sole! Quante volontà virili caddero ai piedi d’uomini divenuti inerti e vi rimasero per sempre come le mani tronche da Erodoto vedute ai piedi dei colossi di Sai!

Di chi la colpa? Se i più si ritrassero a coltivare la loro tristezza come un orto solingo, se taluno si chiuse nella sua cella e il suo pensiero adoperò in guisa di specchio ustorio a disseccare nella sua anima i più freschi germi, se altri cercò d’ingannare il suo tedio con giochi difficili e vani, se altri infine rinnegò il suo dèmone e si mascherò di maschere mutevoli per prostituirsi al popolo grasso, di chi la colpa? Tutti forse in statura soverchiavano la lor sorte; e avrebber potuto forse aggiungere una pietra scolpita all’edifizio inalzato ne’ secoli dall’orgoglio latino. Ma troppo li scorava e li sdegnava la delusione impreveduta. Apparsi al limitare della giovinezza con le mani colme di semi feraci, confidando nella virtù di un suolo irrigato dal più ricco sangue di lor gente, essi non videro di dalla lor tristezza subitanea se non una melma spessa e grigia dove una moltitudine difforme si agitava e trafficava come nel suo elemento natale.

Ebbene, c’è ancor qualcuno che in mezzo a tanta miseria e a tanta abiezione italiana serba la fede nel nume velato della stirpe, nella forza ascendente delle idealità trasmesse a noi dai padri e ridomandate a noi dai futuri. C’è ancor qualcuno che crede nell’infinito potere delle cose belle, nella sovrana dignità dello spirito, nella necessità delle gerarchie intellettuali, in tutti gli alti valori che oggi dall’Italia spuria son tenuti a vile; e specialmente nell’efficacia della parola. «Dopo aver considerato e tentato ogni cosa, io vedo che la parola conduce tutto fra i mortali» dice con maschia sentenza l’Odisseo di Sofocle. Ed Elettra: «Poche parole hanno sovente esaltato o atterrato l’uomo.» Così non l’ala soltanto riconosceva nel verbo il tragedo, ma la spada e la clava, ma il governale e il freno.

Credendo in questa antica e sempre nuova efficacia, noi ci gettiamo con ardore nell’impresa.

Non potrà esser mai impresa del tutto inutile, qualunque sia l’avversità degli eventi. Né paia animata da soverchio orgoglio; perché sempre bisogna – come quelli arcieri prudenti che il Machiavelli in esempiopor la mira assai più alto che il luogo destinato.

In questa Roma ora tanto triste, dove un giorno il Laocoonte dissepolto fu portato in processione per le vie papali dense di popolo religiosamente come la salma di un Protomartire rinvenuta nelle Catacombe, noi vorremmo portare in trionfo un simulacro di quella bellezza chiamata «una vittoria» da Plotino: così che la forza superba della forma – quella vis superba formae celebrata da un poeta umanistasoggiogasse gli animi imbarbariti.

Non è più il tempo del sogno solitario all’ombra del lauro o del mirto. Gli uomini d’intelletto raccogliendo e moltiplicando tutte le loro energie debbono sostenere militarmente la causa dello Spirito contro i Barbari, se in loro non è addormentato o invecchiato o scolorato il sanguigno istinto di vivere e di vincere, di sopravvivere e di stravincere. Lottare debbon essi, affermare e affermarsi di continuo, contro la distruzione la diminuzione la violazione il contagio.

Tutto acceso dallo zelo dell’arte come da una fiamma di collera e di soperchierìa, Benvenuto non si batteva per la statua con più furia che per l’amante? per un modelletto di Andromeda con più «sicura animosità» che per Ruberta o per Caterina?

La nostra Bellezza sia dunque nel tempo medesimo la Venere adorata da Platone e quella di cui Cesare diede il nome per parola d’ordine a’ suoi legionarii sul campo di Farsaglia: venvs victrix.

Non ci verranno meno la fede e il coraggio se avremo contraria la fortuna. L’artefice Nerone, essendoglisi infranta una coppa di cristallo ch’egli prediligeva, elevò un mausoleo ai Mani della cosa bella. Se si versi e infranga la coppa che scegliemmo emblema della nostra comunione coraggiosa, alcuna pagina di noi, alcun segno di noi, alcuna invenzione, alcuna ricerca rimarrà almen per testimone d’un’alta volontà e d’un severo pollice.

Ma ciascun di noi, pur da solo, secondo le sue forze, continuerà a onorare e a difendere contro la barbarie i privilegi intellettuali della sua gente, i Penati dello spirito latino: dii patrii, dii penetrales, custodes genii.


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