Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comandamenti della patria celestiali e terrestiali, nel culto dell’aspettazione

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Comandamenti della patria
celestiali e terrestiali, nel
culto dell’aspettazione

[1896]

Ieri nel camposanto di San Felice a Ema, in uno di quei piccoli cimiteri toscani intorno a cui gli olivi s’illuminano di santità se posi il vento e gli usignoli nella sera cantino al desiderio immortale la loro ode terribile, laggiù, in prossimità della Certosa, in vista di Arcetri e dell’altre meraviglie, alcuni giovani fedeli convennero alla tomba di un poeta religioso che per tutta la sua vita esercitò il culto della sapienza nell’amore; il quale comprende ogni bene in cielo e in terra.

Il mattino era dolce, i cuori umani erano soffocati dalla potenza delle cose naturali; e un oratore eloquente accomunò la memoria del morto poeta agli aspetti delle colline, degli oliveti, delle vigne, delle erbe, delle rinate messi. La poesia parve una deità sopra tutte venerabile; e i lineamenti del paese natale agli occhi giovenili assunsero un che di sacro, dinanzi all’imagine paterna di colui che li aveva contemplati nelle ore delle sue preghiere e vi aveva letto la certezza delle risurrezioni predestinate di nostro sangue. Sia lode a quei discepoli memori, i quali vollero testimoniare al trapassato maestro la fecondità del seme ch’eglino ricevettero dal suo insegnamento. Lodato sia l’atto di fedeltà e di fervore con cui eglino seppero rimeritare dopo la morte la sua fedeltà e il suo fervore, le due virtù sublimi che lui debole e infermo dimostrarono infaticabile ed ora infiammano in noi la sua memoria senza ombra. Quel gruppo di giovani fiorentini, adunatosi in quella campagna solitaria nella pienezza della primavera per evocare «uno spirito di luce e di fiamma,» ci significa l’ansietà della generazione nuova verso una vita più pura e più larga, verso forme di conoscenza e di azione più libere e più diritte, verso il ritorno necessario delle forze ideali che si dipartirono dal cielo della patria.

Enrico Nencioni – che non vincerà il tempo con la sua opera espressa, inferiore al suo grande animo – sarà moltanni ancóra onorato per una tradizione d’amore, come colui che spese la sua vita in una continua esaltazione della poesia e in una continua commemorazione di ciò che fu la grandezza del popolo d’Italia. Io non conosco oggi l’epigrafe dettata da quell’alto intelletto italiano che è Isidoro del Lungo, incisa sul plinto ond’è sostenuto il busto del poeta effigiato nel bronzo dallo scultore Formilli che in Firenze operando sa come operasse il Verrocchio.

Ma io imaginai un giorno d’autunno, nel camposanto di San Felice a Ema, riguardando intorno le colline che avevano «volontà di dire» e ripensando gli intenti occhi profondi del mio amico scomparso, io imaginai che sul sepolcro di Enrico Nencioni fossero iscritte queste sole parole: Egli condusse i suoi discepoli a leggere nelle linee del paese italiano i comandamenti che vi stampò l’antico genio. E mi parve che molto bene fosse tumulato presso il confluente dei fiumi colui il quale ebbe in sì grande onore le sorgenti. Del cospiratore ligure dalla capace fronte e dalle orbite cave egli aveva ritenuto questi detti: «Noi crediamo religiosamente che l’Italia non ha esaurito la propria vita nel mondo. Essa è chiamata a introdurre ancóra nuovi elementi nello sviluppo progressivo dell’umanità e a vivere d’una terza vita. Noi dobbiamo mirare a iniziarla

E d’un altro nobilissimo amatore di libertà, che morì cieco e veggente, aveva ritenuto questo: «Ogni novità è cosa antica: ogni antica cosa è novità: veder l’una nell’altra è unica via di vero

Così egli credette nella terza vita d’Italia, raffigurandosi una nazione che non soltanto con le sue proprie forze nuove ma con la fede e la volontà di tutti insieme i passati secoli, quasi con piena di grandi acque, si spandesse nell’ignoto avvenire.

Per credere com’egli credeva, per discacciare il dubbio dai loro cuori inquieti, per riaccendersi al soffio dell’ardente spirito, quei giovani fiorentini si adunarono ieri intorno a quel sepolcro remoto e riguardarono la pensierosa valle e ascoltarono la voce del loro suolo, sempre soprana fra tutte le voci del mondo. (Così sia nei secoli!)

E ch’io non fossi con loro è grande il rammarico. Ma, per il legame d’una medesima speranza che ci lega, io sentii pur di lontano la forza della lor malinconia e della loro aspirazione; e li accompagnai col mio pensiero fraterno.

Taluno di loro nel suo discorso aveva lodato il defunto con le parole di Dante e aveva simulato l’incontro di Francesco d’Assisi col poeta che cantò l’estasi selvaggia di San Simeone Stilite. Lungo la via del ritorno, andando verso Firenze, non seguitarono eglino a ragionare dell’Alighieri e del Serafico? E, considerando le figure di quei due uomini che furon generati dalle profonde viscere della nostra terra e fatti a simiglianza della divina madre, non credettero eglino di ricevere dai colli dalle acque dalle pietre dalle glebe dalle radici e dai fiori il messaggio d’una novella apparizione certa?

Oh, se io fossi stato con loro, avrei lor ricordato un detto del caro maestro disparito, ch’egli mi disse quando nella mia prima giovinezza mi conduceva alla campagna di Roma come a una patria ideale dell’anima nostra.

Eravamo presso il Ponte Nomentano, sopra una altura che dominava l’Aniene ricco di salci. Da poco era tramontato il sole; e nei meandri della fiumana e nelle acque intorno dilagate si rispecchiava l’ultimo chiarore occidentale tra le praterie verdi, così che la vastità dell’Agro pareva aumentarsi della vastità aerea e aprirsi a più misteriose lontananze, quasi mondo attratto in altro mondo, mentre il ritmo d’un canto ampliava all’infinito quegli spazii non popolati se non da alti invisibili pensieri. Come nelle solitudini imperiali di Ravenna, un coro innumerevole di rane diffondevasi nel silenzio degli elementi pacificati. Era come una grande palpitazione sonora delle erbe, delle acque e della luce, crescente con una forza senza fine. Tale l’ansia nel cuore dell’uomo che attenda una divina risposta alla sua domanda iterata. E, salendo l’ombra per gradi, il coro ascendeva con quella, finché il firmamento concesse i suoi astri alla implorazione terrestre e la notte s’accinse a coronare l’Urbe vivente in fondo alla muta via secolare. Solo rimase il bagliore diurno nella zona di ponente, come una soglia luminosa.

Allora la mia guida mi disse, volgendo con la sua parola tutta l’anima mia verso quella parte: «Guarda un orizzonte profetico! Chi dubiterà della nostra terza vita

Non io dubiterò: non voi dubiterete, o amici, o giovani conosciuti e sconosciuti, che lavorate in silenzio con la speranza per lampada inestinguibile, avendo dinanzi agli occhi della mente l’imagine dell’Italia, l’aspetto delle sue membra belle da cui nacquero le messi gli artefici e gli eroi.

Veramente nessuna altra terra ha una rispondenza tanto perfetta con la struttura morale e mentale dei suoi grandi uomini. Tutta la sua forza e tutta la sua bellezza sembrano tendere di continuo verso una suprema espressione umana.

Vi fu un’ora della sua storia, in cui l’armonia tra la sua sostanza e la sua progenie parve meravigliosamente piena, così che in un equilibrio indicibile si composero le sue potenze naturali e le viventi opere dei suoi figli. La durezza dei suoi monti, il corso dei suoi fiumi, la foggia delle sue valli si riconobbero nelle pulsazioni della sua vita civile.

Se oggi quest’armonia è rotta, non sarà dato a noi di ricrearla? Non a noi, ma certo ai venturi; non forse agli uomini del domani, ma certo a quelli d’un più remoto avvenire.

Così credono i giovani fiorentini che ieri portarono ghirlande al sepolcro del poeta religioso, per celebrare la sua umiltà sapiente e il suo infaticabile amore. così credono mille e mille altri giovani italiani, che sentono la vergogna del presente stato e il bisogno di trovare nel cotidiano sforzo una ragione eroica di vivere.

La fede di Enrico Nencioni non era cieca, non vana, non nutrita solo dall’orgoglio di stirpe; sorgeva anzi dalla sua larga conoscenza, era afforzata dalla sua profonda cultura, poiché egli fu in Italia il rivelatore dei più grandi poeti stranieri. Ma avveniva al suo spirito quel che avviene a noi ogni volta che, tornando da un lungo viaggio, rivalichiamo il confine e rivediamo la faccia della patria sorridente nel dolce lume. Nulla di tutto quel che vedemmo è più bello. Quid melius Roma? Con questo sentimento egli riprendeva il volume di Dante e diceva: «Ecco il Libro

Perciò egli seppe parlarmi un giorno, con tanta eloquenza, della gioia che gonfiava il cuore del navigante elleno quando a un tratto la lancia di Pallade splendeva ai suoi occhi dai propilei del Partenone nell’aria trasparente onde si nutrivano su i platani dell’Attica le cicale melodiose.

Credendo immortale l’anima sua nella speranza, egli diede l’esempio che bisogna seguire: contro le angustie e le tristezze della vita comune, senza aspettarsi dagli uomini conforto alcuno né lode, egli compì su gli spiriti prossimi il suo ufficio d’incitatore: ogni giorno egli si sforzò di comunicare una scintilla alle creature che incontrava nel suo cammino.

A me stanco e triste d’una veglia faticosa e senza frutto egli disse un mattino: «Non ti stancare, figliuolo, di ripetere alla tua arte le parole del pescatore: – Tutta notte abbiam lavorato, e indarno; nel nome tuo gitterò di nuovo le reti

Per questo porteremo sul suo sepolcro altre ghirlande.

E una sera mi disse: «Tutta la nostra vita deve essere omai un culto d’aspettazione

E per questo vorremo portargli altre ghirlande ancóra.


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