Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Laude dell’illaudato

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Laude dell’illaudato

[1897]

Dalle città magnifiche ove la vita si profonde nel lavoro e nel piacere mentre le forme ideali dell’essere si sviluppano dalla profusione della vita, io torno secondo una lunga consuetudine alla mia terra paterna per chiederle il benefizio ch’ella non mi negò pur ne’ più torbidi anni della mia giovinezza, il benefizio che mi pare sempre nuovo come prodigio: la rivelazione subitanea, quasi direi la interior natività di un mondo che, obbedendo al moto di un ordine segreto, sorge dai confusi elementi in me accolti e s’illumina di luce mattutina. Sembra che soltanto la virtù di quest’aria natale possa rendere fecondo il mio spirito e che io non debba ritrovar la mia forza creatrice se non nel riudire il ritmo che regola la vita oscura della mia contrada. Essendomi immerso nello smisurato flutto d’idee, d’imagini, di aspirazioni, di divinazioni, di trasfigurazioni, di perversioni, che ferve presso al termine del secolo come l’impeto della piena alla foce di un gran fiume, tuttavia sembra che io non possa manifestar me stesso per mezzo dell’arte se non associando alle flave spighe, ai pomi vermigli, allo sguardo pacifico dei buoi, all’odore dell’uliva premuta, al ferro dell’aratro, al bombo delle api, alla curva dei lidi le mie passioni. Il brillare del filo di paglia nella polvere mi aiuta a scoprire l’aspetto arduo d’alcuna verità. Luminosi pensieri solleva nella mia mente il gesto dell’uomo che trae dal forno il pane gonfio fumante e biondo rallegrando dell’atteso odore le case. E io sento dalla profondità della mia sostanza vera elevarsi straordinarie apparizioni quando contemplo l’agnello che poppa o ascolto dall’ombra l’alveare sonoro.

Mi sia concesso oggi al vostro conspetto, uomini della mia terra, ornarmi di questa lode. La mia anima, su cui ho versato ogni più robusto vino dell’antica saggezza e ogni più sottile essenza dei sogni nuovi: ella che nelle sue infinite peregrinazioni ha attinto gli estremi limiti imposti all’avidità del conoscere e sorvolato le cime aeree ove il ritmo della vita ideale assume una celerità ignota ai polsi umani: la mia anima è pur sempre rimasta filialmente avvinta alla primitiva genitrice. Ella non ha mai cessato di sentir palpitare in sé il genio della regione. Una freschezza terrestre, segreta e indistruttibile, persiste nel centro del suo più forte bruciore. Così in mezzo alla foresta incendiata la sorgente pullula inesausta sotto le mille lingue del fuoco che la beve.

Perciò io rimango integro, fra tanti deliquii e delirii, in una unità e in una pienezza che sono la mia gioia. «Il segreto dell’equilibrio per l’uomo d’intelletto sta nel saper trasportare gli istinti, i bisogni, le tendenze, i sentimenti fondamentali della propria stirpe in un ordine superiore.» In nessun tempo, in nessun luogo la luce di questa verità s’è ritratta dal mio spirito. Entrando negli intrichi dei labirinti più perigliosi io non ho mai dimenticato quelle vie larghe come fiumane, verdeggianti d’erbe e sparse di macigni, qua e segnate d’orme gigantesche, che discendono per le nostre alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi. Tendendo l’orecchio verso ignote allegrezze ed ignoti dolori che cantano per sentieri nascosti, io non ho mai dimenticato le melopee semplici e gravi, antichissime e immortali, che ondeggiano intorno alle nostre culle e intorno alle nostre bare.

Mi sia concesso oggi, al vostro conspetto, uomini della mia terra, ornarmi di questa lode. Tra le mani aduste e incallite dell’agricoltore uso a leggere il testo sacro sotto la quercia nel riposo domenicale, io vorrei porre quello dei miei libri in cui con più crudel vigore io ho rappresentato il lento perire d’un uomo indegno di vivere e di amare. Io vorrei porre quel libro di triste sapienza tra quelle mani inconsapevoli. E, se la parola scritta potesse per un prodigio assumere le qualità sensibili delle cose ch’ella manifesta in simboli ideali, l’agricoltore attonito crederebbe di reggere nelle sue palme il peso del suo mondo georgico a similitudine di quel globo che l’artefice poneva nella destra dell’imperatore effigiato. Ed a lui reduce nella sua casa di paglia e di argilla gl’istrumenti rustici sembrerebbero divenuti più venerandi, e la sua acqua e il suo pane avere un novello sapore, e i canti della sua donna consacrare le opere e i giorni come inni rituali, e divine purificazioni spandersi su le sue suppellettili, su i suoi utensili, su i difformi segni impressi al suo corpo dalla fatica, su la pietra consunta della sua soglia, su la farina della sua madia, su la cenere del suo focolare. E, se io allora entrassi nella sua casa, egli si leverebbe con reverenza non come dinanzi al suo padrone, ma come dinanzi a colui che sprigionò col suo tocco l’antica virtù dalle cose familiari e le rifece religiose e le rifece indicibilmente belle. Egli, che ignora sé medesimo e i suoi beni, direbbe: «Costui mi conosce, e m’insegna i miei beni

Questa è la mia lode. Come l’acqua e come il pane, le figure del mio stile contribuiscono a perpetuare la vita di nostra gente. Pur se a ciascuno di voi la mia opera fosse ignota, pur se nessuno di voi avesse compreso il mio linguaggio, la mia poesia non sarebbe men vivamente mescolata alla sostanza dell’anima vostra. Pur se io vi sembrassi parlare oggi come uno straniero sopraggiunto da una contrada incognita, la mia parola non esprimerebbe men lucidamente il pensiero che è in voi oscuro, la verità di cui voi siete inconsapevoli. Pur se oggi voi disconosceste in me l’interprete delle eterne aspirazioni che sollevano la stirpe verso il suo destino, il significato della mia presenza non sarebbe meno alto e men benefico.

La vostra vita vera è ben più augusta e più armoniosa di quella che compongono i giochi delle contingenze cotidiane e le vicende delle azioni volgari. Il vostro desiderio vero è ben più forte e più costante di quello che conduce nel contrasto delle necessità comuni i moti della vostra energia intermessi. Le profonde cose che dice in voi l’antico sangue ereditario, io le ho udite nel mio silenzio; e ho restituito ad elle, esprimendole, un senso che poteva per lungo tempo rimanere oscurato o perdersi per sempre. Meditando sul fato della stirpe, io ho veduto talvolta nella confusa massa umana e terrestre disegnarsi un simulacro che mi pareva avere io medesimo scolpito con le mie mani caduche, come quello statuario che scolpì nello smisurato monte la figura eroica di Alessandro cui dalla destra sorgeva una città e dalla sinistra scaturiva un fiume. Tutta la nobiltà della patria risplendeva in quell’apparizione silenziosa.

È presente nel mio spirito quell’apparizione, mentre parlo. E sopra gli innumerevoli volti adunati io vedo quell’unico volto esemplare su cui le impronte della stirpe compongono un’austera bellezza che evoca in una maniera misteriosa, in un modo lirico, i lineamenti dei lidi e delle cime. Perciò l’anima mi trema nel cuore, mentre parlo; e la reverenza modera il ritmo delle mie parole.

V’è nella moltitudine una bellezza riposta, donde il poeta e l’eroe soltanto possono trarre baleni. Quando quella bellezza si rivela per l’improvviso clamore che scoppia nell’anfiteatro o sulla piazza publica o nella trincea, allora un torrente di gioia gonfia il cuore di colui che seppe suscitarla col verso, con l’arringa, col segno della spada. Un atto è la parola del poeta comunicata alla folla, un atto come il gesto dell’eroe. È un atto che crea dall’oscurità dell’anima innumerevole un’istantanea bellezza. Non altrimenti un artefice inspirato potrebbe da una mole d’argilla trarre con un sol tocco del suo pollice plastico una statua divina. Cessa allora il silenzio che pende, come una cortina sacra, sul poema compiuto. La materia della vita non è più evocata dai simboli immateriali; ma la vita si manifesta nel poeta integra, il verbo si fa carne, il ritmo si accelera in una forza respirante e palpitante, l’idea si enuncia nella pienezza della forza e della libertà.

Ecco infine l’azione: quell’azione virile a cui aspiriamo – talvolta con dolorosa frenesia nascosta – noi tutti che vedemmo tramontare su la ruina della patria la nostra gioventù delusa.

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In una contrada rovente e atroce, laggiù, oltremare, un pugno di prodi devoto alla morte combatteva non alimentato se non dall’ebrietà della gloria entro un cerchio di pietre bianche. Come il fonditore che getta il bronzo infiammato nell’impronta cava donde escirà la statua perfetta, così m’appare ansioso il capitano consapevole d’esser per compiere un’opera bella con la fiamma di quelle anime ebre. Egualmente grandi, l’una da lungi, l’altra da presso, la Patria e la Morte erano testimoni. Accoglievano con un medesimo palpito il repente dono funebre. Ma una bassa parola attraversò il mare, interruppe la gesta. La Patria e la Morte furono deluse, in Macallé. La Bellezza fu violata, in quel cerchio di pietre bianche. Non impunemente, non impunemente! Anche per tali delitti v’è l’Erinni. E da allora il danno e la vergogna durano.

Comprendetemi, accogliete la mia parola serena, o cittadini, o consanguinei. La verità che si esprime per le mie labbra è già inscritta nelle radici della vostra sostanza primordiale. Ella è autoctona; ella è connessa alla struttura del paese e della gente. Il concetto ch’io ho della vita non è generato se non dalle testimonianze di una vita anteriore più bella e più forte; le quali io riconosco nel paese e nella gente. Indistruttibile è in noi l’anima degli avi; e pur sempre le nostre energie si dirigono secondo i moti degli istinti originarii. Alla prodigiosa massa di figure ideali e alla potenza entusiastica che suscita in me il nome d’Italia, è forse estraneo quel mirabile furore che trasse le primitive tribù sabelliche su gli altipiani d’Abruzzo a collegarsi in quel nome contro la Lupa romulea? Al sentimento vivace e profondo che oggi mi solleva contro i dispregiatori e i disperditori della grande coltura latina è forse estranea la virtù conservatrice che contro l’ingiuria barbarica accumulò nei nostri conventi e nei nostri vescovadi le reliquie della civiltà romana e delle tradizioni provinciali? Ben fu un pontefice escito dal ceppo di nostra gente, Bonifacio quarto (il suo nome sia celebrato in eterno!), colui che conservò alla gioia e all’orgoglio degli uomini il più insigne monumento di Roma, il Pantheon di Agrippa, il puro tempio corintio già votato dall’Imperatore Foca alla ruina. Questa virtù conservatrice, che è la più forte prova d’indipendenza, m’appare appunto come il carattere dominante della nostra stirpe nei secoli fino ad oggi, – dalla confederazione italica, che rifiutò così fieramente l’impronta di Roma, fino a questa lega di volontà concordi risoluta a mantenere integro il genio regionale contro il tentativo ambiguo di pochi sovvertitori.

Una virtù conservatrice e ordinatrice si manifesta costante in tutte le forme della nostra vita civile. Quando i municipii abruzzesi periscono sotto le oppressure barbariche e i conti goti i castaldi longobardi i re normanni sostituiscono alla legge romana la legge delle loro nazioni, le forze vive e inabolibili della stirpe si concentrano in un organismo politico e religioso di straordinario vigore, che sopravvive ad ogni altro statuto. Ben fu la Chiesa abruzzese, già fondata nel primo secolo del Cristianesimo, la custode vigilante del nostro patrimonio ideale. Nelle sue basiliche e nelle sue abazie ella non conservò soltanto le ossa dei Martiri ma puranco le testimonianze della nostra nobiltà, i vestigi dell’opera secolare compiuta dal nostro genio; e fu promotrice e propagatrice delle nostre arti belle. Lo splendore della bellezza s’irradiava dalla basilica che il magnifico Leonate edificò in un’isola fertile abbracciata e nutrita dal nostro fiume paterno. I marmorarii i figuli gli orafi i tessitori formavano una specie di corporazione ornativa intenta all’ornamento del tempio clementino che, crescendo in potenza spirituale e temporale, era divenuto il centro d’una vita vasta e fervida. Il sentimento della potenza aveva quivi il suo posto d’onore: quel sentimento medesimo che voi, o cittadini di Guardiagrele, voi discesi dalla città di pietra che alza le sue torri millenarie sul fianco della Montagna madre, voi riconoscete ogni giorno sotto il vostro portico aperto in vista delle convalli fertili e dell’Adriatico lontano, sotto il portico superbo il cui accesso un tempo era riserbato ai Cavalieri.

O uomini della mia terra, io sono un uomo della mia terra. Sono un uomo ben nato, ben costrutto: uno e diverso, semplice e molteplice.

È tempo che ogni falsa imagine di me cada, insieme con quelle favole puerili che sembran tanto dilettare la stupidità dei beoti.

Uomo di gleba e di rupe, uomo contadino, o uomini contadini, io per me non voglio riconoscere nulla di estraneo, essendo disposto dalla natura e dall’arte a esperimentar tutto, a conquistar tutto, ad assorbir tutto, a vivere in perpetua plenitudine, con la maggior possibile abondanza di armonie; perocché io credo tanto un uomo più virtuoso quanto più egli si sforza di accrescere l’esser suo.

Or voi vedete dunque che io non traggo la mia espressione se non dai caratteri essenziali della mia schiatta; i quali non sono se non un istinto di conservazione e un istinto di predominio vigorosi. L’istinto di conservazione c’induce ad affermare e a difendere l’integrità della nostra persona e del nostro bene; l’istinto di predominio c’induce ad aumentare la nostra conquista sviluppando le nostre energie fino al grado supremo.

Ecco i due naturali fattori d’ogni più alta civiltà terrestre, emersi dalla profondità stessa della vita; ecco i due naturali fattori delle ineguaglianze, delle gerarchie, delle infinite subordinazioni che – secondo la prova di tutte le scienze – sono necessarie al progresso delle società umane come allo sviluppo delle specie inferiori.

Ora una dottrina che si dice novella – ed è antica quanto l’apparita dell’uomo sull’umida crosta planetareafferma che soltanto sotto il regime della comunità le società umane potranno attingere l’ultimo punto di lor perfezione! Spogliata della sua fronda copiosa e opaca, questa dottrina si riduce a illustrare un carattere di vita sociale che, apparso su gli altipiani erbosi dell’Asia ove i pastori aborigeni pascolavano le vaste greggi comuni, si propagò quindi verso l’Occidente portato dalle tribù nomadi migranti per le vie solitarie cui il presentimento delle belle fontane indicava al loro bisogno dell’acqua.

Quelli s’ingannano dunque di voi, miseramente, i quali professando tal dottrina credono di porsi tra gli spiriti che avanzano, tra gli illuminati, tra gli audaci, tra i precursori. Io vi dico in verità che quando un uomo afferma: «Questo bene è mio, preso da me, e mi giova, e voglio proteggerlo e difenderlo contro tutti» costui ha un concetto della sua dignità e della sua potenza assai più alto di quello che abita il capo umile dell’uomo rassegnato a ricevere il suo bene dallo Stato come in antico l’Egizio era pago di riceverlo dal Faraone. – Nella storia delle stirpi umane come in quella delle specie animali è manifesto che la condizione prima d’ogni ascesa verso le superiori forme della vita è la lotta per lo sviluppo dell’individuo, è lo sforzo veemente dell’individuo per mantenere la sua indipendenza e i suoi attributi. Ora, quanto più l’uomo sa di poter fare assegnamento sul concorso altrui, tanto più egli repugna alla lotta, allo sforzo; tanto meno egli prova la necessità di elevarsi per mezzo di un’opera singolare. Le sue energie si affievoliscono, la sua volontà si snerva, la sua dignità si abbandona: egli è diminuito come lo schiavo alla macina. Che diversità, in fatti, tra gli operai futuri – quali possiamo rappresentarceli secondo i dati della dottrina – e gli antichi schiavi? Di generazione in generazione essi andranno acquistando le qualità degli utensili esatti. E io già li imagino a simiglianza di quei prigionieri acciecati che gli Sciti disponevano con buon ordine intorno ai vasi di legno colmi perché durante il giorno vi agitassero il latte delle giumente con moto eguale.

Glorifichiamo la vita che ascende! Celebriamo le verità liberatrici! Non v’è salute e non v’è bellezza fuor dello sforzo che l’uomo compie in sua piena libertà sprigionando dalla sua sostanza tutte le energie e volgendole nelle direzioni che gli indica il genio della stirpe, infallibile. Come quel cavaliere della gesta carlovingia, il quale ereditava il vigore di tutti i nemici abbattuti dalla sua lancia, l’uomo degno di vivere si sente accresciuto da ogni ostacolo ch’egli sormonta.

Giova dunque, o uomini altieri, o uomini rudi, o compagni di pensiero, o compagni di solco, giova ripetere anche una volta le verità liberatrici, con alta e sicura voce.

Tanto l’uomo è più virtuoso quanto più egli si sforza di aumentare l’esser suo.

La fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre nei secoli dei secoli plasticatrice.

Lo spirito latino non potrà riprendere la sua egemonia nel mondo se non a patto di ristabilire il culto della Volontà Una e di ritener per sacro il sentimento che nell’antico Lazio inspirava le Feste terminali.

A voi certo è sacro quel sentimento, o agricoltori della mia terra, che educate con cura sollecita e assidua sul limite del campo la siepe tenace. Io vi dico, o agricoltori, che non mai abbastanza tenace e folta e spinosa e viva è la siepe ond’è precluso il suolo fecondo cui il vostro ferro dirompe e il vostro sudore irriga. Afforzatela ancóra; fate ch’emetta radici più robuste, aculei più fieri; perocché taluno minacci di profanarla, di abbatterla, di raderla, di non lasciarne segno, non temendo d’esser votato agli dei infernali.

Bella e protetta dai Cieli è la siepe che limita il campo lavorato, o agricoltori. Voi l’amate ed io l’amo, se fiorisca di bianchi fiori, se risplenda di rosse bacche. Ma forse voi medesimi non sapete, come io so, quanto ella sia viva. Poche cose nel mondo sono vive e inviolabili come la siepe che limita il campo lavorato, o agricoltori.

E voi, che leggete nei miei occhi il mio amore per quella cosa viva e santa, mi sorridete di dai fiori e dalle bacche quando io passo nel sentiere. E più d’una volta mi sono soffermato per lodare la bellezza della vostra siepe. E voi eravate contenti, pur ignorando l’aspetto in cui quella m’appariva e il senso divino ch’era nella mia lode.

E voi rendetemi la lode che da me vi piacque.

Voi siete contenti quando io passo dinanzi al vostro lavoro. Ogni volta il vostro saluto viene a me con letizia. Se bene contro gli stipiti delle vostre porte manchino le erme di Esiodo e di Vergilio, è in voi una reverenza naturale per il poeta che ama le cose della terra, tocca con puro fervore il timone dell’aratro, ammira la saggezza dei proverbii, è umile innanzi alla piccola foglia novella involuta di cera.

Poiché voi mi avete accolto come un amico nelle vostre case e mi avete offerto i frutti e il pane sul vostro desco, io vi ho ripetuto il consiglio che un antichissimo poeta nominato Esiodo dava a un antichissimo agricoltore nominato Perse: «O Perse, custodisci questo nel tuo spirito. L’invidia, che si rallegra dei mali, non ti distragga dal lavoro facendoti tender l’orecchio al vocìo della piazza...» E anche soggiungeva Esiodo: «Insensati coloro che non sanno come talvolta la metà valga meglio del tutto, e come la malva e l’asfodelo sieno un grande bene...» E voi mi avete compreso; e uno di voi mi ha offerto, sorridendo con bianchi denti, il ramo dell’oleandro che è un lauro fiorito di rose.

Comprendetemi anche voi, accogliete così la mia parola sincera, o cittadini. Riconoscete la verità che io sembro portarvi come il messaggio di uno straniero, la verità che a taluno di voi – io lo sosembra opaca e inerte come una pietra, ma che pure ciascuno di voi già possiede riposta nell’oscurità della sua inconsapevolezza. La mia solitudine è apparente. La mia parola non è solitaria: è l’eco di un coro che voi non udite e che pure si compone di vostre intime voci. Avete dinanzi a voi, rivelata, la vostra essenza. Voi credete che io trasformi tutto in mia poesia, mentre non altro io fo se non obbedire al genio cui voi medesimi siete soggetti. Voi mi giudicate dissimile, mentre io vi somiglio come un fratello purificato.

Accoglietemi dunque. Io vi dico che voi mi avete atteso. Che importa l’oltraggio che taluno di voi mi getta perché non ancóra può riconoscermi? Che importa l’odio che riluce nelle pupille di taluno? Un giorno – forse oggi, forse prima del tramonto – io entrerò nella casa di colui, ed egli si leverà sorridendo per venire incontro alla mia dolcezza. Io accenderò la sua lampada. Egli si ricorderà di me fanciullo. Io gli dirò la parola ch’egli non saprebbe proferire.

Comprendetemi, accoglietemi dunque, o cittadini, o consanguinei. Accoglietemi come si accoglie un fratello più puro e più lucido. Per un giorno almeno, lasciate risplendere su voi la veste di luce ch’io vi ho tessuta. Pensate, o lavoratori, che non vi è discordo fra le opere in cui si esercita la vostra forza e le divine speranze a cui io vo foggiando le ali.

Or anche a voi io porterò una figura dell’antica saggezza.

Uscendo il rude fabbro etneo dalla sua fucina con le braccia nere di ferro, col volto lordo di fuliggine e di sudore, indossava una tunica bianca; e s’avanzava appoggiandosi a due vergini d’oro che incedevano al suo fianco nel ritmo delle Muse e ritmicamente sostenevano il suo passo ineguale.

Uditemi, o uomini.

Dal profondo mito io traggo oggi l’augurio che il vostro lavoro, o uomini volenterosi, cinto della luce novella e sostenuto dalle novelle speranze, ascenda verso quella Festa ove il più duro sforzo è coronato dalla più fiera gioia.




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