Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Esempio italico del genio vittorioso, esposto ai giovani d’Italia

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Esempio italico
del genio vittorioso,
esposto ai giovani d’Italia

[1901]

Voi siete qui adunati, o Giovani, per assistere a un servizio divino, per celebrare un rito solenne, per inalzare verso una sacra imagine la vostra preghiera unanime, qui nella sede degli studii severi, nell’edificio dedicato al culto dello spirito, nel recinto dove s’insegna e si apprende, nel focolare stesso dove ogni giorno è nutrita dal vostro intelletto e dalla vostra volontà la fiamma che arde ai Penati venerandi del Pensiero italiano.

Io vorrei che l’imagine presente ai vostri occhi fosse quella espressa da un arteficeoggi curvato e fatto miserabile da una sorte crudelissima – il quale vide ed effigiò il creatore in un momento sublime della sua solitudine eroica: lo vide con occhi simili ai vostri, avidi e puri, con la trasfigurante visione dell’adolescenza; lo effigiò nell’argilla con mani violente, quasi terribili, come in una materia infiammata.

Vi parrebbe, in verità, se quel simulacro vi fosse qui posto innanzi, vi parrebbe di veder manifestata in forma sostanziale l’ideal figura che ciascuno di voi nell’ora del lutto ebbe dentro, sorta dal suo dolore e dal suo fervore, animata e ingigantita da quel gran soffio subitaneo che spirò dalle profondità della Patria percossa. E ciascuno di voi penserebbe: «Ecco, sotto la specie dell’eterno, l’umano aspetto di una forza naturale simile alle sorgenti, alle correnti, ai vulcani d’Italia.» Una potenza di azione incalcolabile sembra concentrata in quella immobilità di meditazione. Sotto la fronte del Vecchio inesausto si prepara il prodigio che stupirà la terra.

Lasciate che io vi rappresenti questo mito! Mi sembra che l’ansietà l’impeto e la meraviglia delle vostre anime giovenili vi si esprimano per similitudine, e che l’apparizione delle virtù geniali vi s’illumini d’una poesia grandiosa e semplice. Io non sono dinanzi a voi per disegnare i lineamenti di una vita e di un’opera altissime, che ben conoscete; ma sì per condurre il vostro spirito alla contemplazione religiosa d’un mistero che occupa la sommità della Natura vivente. Io vorrei che la Canzone, ch’io sono per dire, vi sembrasse composta – come fu – in uno stato di preghiera, e che voi al lume della Memoria e della Speranza pregaste con me concordi verso il Passato e verso l’Avvenire.

Il Maestro, già quasi sessantenne, toccava l’apice della gloria terrena. Nell’età in cui l’interno sole impallidisce e tramonta, egli aveva rischiarato il cielo dell’arte con una di quelle illuminazioni repentine che hanno la novità e la magnificenza delle aurore. Nell’età in cui l’anima si volge a riguardare in dietro, quando l’artefice stanco versa nelle usate impronte una materia affievolita, egli aveva dato della sua facoltà di rinnovarsi una stupenda testimonianza in un’opera vasta dove la passione la vittoria la voluttà e la morte si rivelano con un impeto lirico inaudito. A traverso i mari, a traverso i continenti, il delirio delle moltitudini saliva verso di lui come quell’igneo vento libico che si parte dalla terra natale de’ suoi eroi. Egli chinava il capo, solitario e meditabondo.

Ora, a Napoli, dov’egli faceva soggiorno, fioriva un giovinetto meraviglioso che pareva nato veramente d’una di quelle antiche stirpi migranti dall’Ellade alle rive della Campania su navi condotte dal notturno suono dei cembali di bronzo. Il vigore ingenuo della più bella primavera ellenica scorreva nelle sue membra, ardeva nei suoi grandi occhi neri sottilmente venati di sangue come quelli dei cavalli generosi. Tale doveva essere il figliuolo di Carmide, escito di puerizia, quando sotto l’insegnamento di Agelada si preparava a celebrare gli alti fatti delle guerre mediche nel metallo prodotto dalla decima prelevata sul bottino di Maratona.

Sul Golfo, alla presenza perpetua del Mare, in un paese di lineamenti armoniosi, in vista di piccole isole scultorie belle come le più belle delle Cicladi, vivendo all’aria aperta, nell’oro solare come nel nativo elemento, tra un popolo seminudo, il giovinetto aveva appreso a studiare la grazia e la forza del corpo umano come lungo i portici e sotto i platani dei ginnasii. La pelle fosca dei fanciulli balzanti giù per gli scogli, colorata e indurita dal sole e dalla salsedine, aveva dato allo statuario adolescente «il senso del bronzo». L’energia plastica affluiva alle estremità delle sue dita incessantemente per riprodurre. Ed egli, per una specie di affinità elementare, nel foggiar la creta, aspirava al fuoco terribile come al suo cooperatore necessario.

Ponete mente a questo. Io ho significato altrove, con una imagine, la presenza della Natura nelle opere del grande periodo ellenico. Ho detto: «Apritemi il torso di un dio greco; e ne vedremo erompere la nube o la luce, i baleni o i vènti del cielo.» Le statue allora non erano se non miti concretati in materie tangibili; non erano quindi se non figurazioni delle forze elementari, animate d’acque e di raggi, di suoni e di soffi. Fidia che solleva alle fronti del Partenone i suoi gruppi, il Giorno, la Notte, le Stagioni, i Fiumi, le Divinità marine, Selene, Demetra, ha per noi l’aspetto di un Atlante che solleva la Terra intera vivente con le sue arterie cristalline e con le sue vertebre lapidee. Nei templi di Delo eravi l’uso di profumare i marmi santi con un’essenza di rose; ma non erano essi già impregnati d’essenza divina? Le creature dell’infinito spazio, che Prometeo catenato invoca nella tragedia di Eschilo, avevano in quei marmi la lor sede ideale. Il popolo contemplando l’Ilisso o il Cefiso fidiaco udiva, in fondo al marmoreo silenzio, scorrere la santità del fiume padre.

Nel giovinetto campàno riviveva quel sentimento primitivo delle forze naturali. Gli aspetti delle cose apparivano divini alla sua inconsapevolezza. Foggiando la nudità umana nell’argilla dei Campi Flegrei, egli aveva inconsapevolmente l’anima religiosa dello statuario ateniese intento a cogliere le attitudini degli efebi e delle canefore nella processione delle Panatenaiche. La forma espressiva escita dalle sue mani aveva tanta intensità e larghezza di vita perché lo sforzo dell’arte era come avviluppato da un sogno confuso ma palpitante che comprendeva in sé le visioni quasi direi favolose delle potenze ond’è governato l’Universo.

Ora figuratevi questo artefice virgineo che, dallo spettacolo del mare delle valli dei monti dei bei corpi atteggiati, passa d’improvviso allo spettacolo del Genio!

Egli aveva nome Vincenzio Gemito. Era povero, nato del popolo; e all’implacabile fame dei suoi occhi veggenti, aperti su le forme, si aggiungeva talora la fame bruta che torce le viscere. Ma egli, come un Ellèno, poteva nutrirsi con tre olive e con un sorso d’acqua. Un giorno, per intercessione d’un altro artefice, il Maestro lo beneficò senza conoscerlo: pagando un tributo, lo riscattò dalla servitù militare, lo serbò alla libertà dell’arte.

In qual modo era per manifestarsi la riconoscenza del giovinetto oscuro verso il gloriosissimo Vecchio? Con l’atto più nobile e più pronto di cui egli fosse capace: con un atto creativo.

Quel corpo tuttavia robusto, tenuto diritto da una fiera armatura di ossa, irrigato dal buon sangue contadino, coronato da una testa imperiosa, gli apparve come l’involucro umano d’una forza senza limiti, sacra e inconoscibile. Simile al gioco dei vènti era sul mondo il gioco delle sue melodie. Sprigionate da quel cuore profondo esse percorrevano gli spazii, superavano i pelaghi e le montagne, squassavano l’anima dei popoli come i nembi squassano le miriadi frondose, trasfiguravano la vita innumerevole in un attimo come il soffio subitaneo trasmuta il colore degli oliveti, delle ombre, delle praterie, delle acque. Tanta virtù si generava da quella creatura incanutita, solcata dagli anni, raccolta in una tristezza austera, soggetta alla legge del deperimento, piantata su la terra come ogni altra creatura umana! E nondimeno egli non era un uomo ma l’incarnazione di un Elemento.

Imaginatevi quegli avidi occhi giovenili spalancati sul Genio, avidi del miracolo, in attesa della grande epifanìa. Non v’è dunque similitudine tra lo spirito di quell’aspettante e lo spirito dello statuario antico in atto di dar effigie a un mito solare o a un mito oceanico? Egli aveva pronta la materia fittile, la massa informe e neutra che i suoi pollici impazienti non osavan premere, aspettando l’attimo in cui da quella fronte, da quelle sopracciglia, da quella bocca fatte sovrumane doveva irradiarsi una rivelazione fulminea.

E l’attimo giunse. Il giovinetto aveva seguìto il Maestro come un mendicante, nel tempo medesimo audace e timido, talora a piedi scalzi, facendosi leggero e tacito come una larva. Ne aveva spiato i passi le attitudini i gesti, i guizzi dei muscoli, i battiti delle palpebre, i baleni dello sguardo. Ma un giorno alfine poté penetrare all’improvviso nella stanza dove il Maestro meditava solo; e lo vide seduto, con la faccia china nell’ombra, con la fronte formidabile nella luce, con la barba sul petto respirante: aspro respiro d’un mondo in travaglio, silenziosa massa di vita generante, formazione lenta e inarrestabile d’una verità nuova organata come un essere.

Lo vedete voi , nell’ombra, il fecondo padre? Non trattenne il grido colui che lo aveva veduto; e, d’improvviso, egli sentì in sé la forza stessa del miracolo che gli si era rivelato; sentì in sé la stessa urgenza che pareva sollevare quella fronte come la crosta terrestre che s’inarca in altura. E la necessità di perpetuare in una forma sostanziale l’apparizione fuggitiva si presentò a lui come un comando cui bisognasse obbedire senza indugio. Egli scomparve, fuggì, attraversò le vie come in un rapimento, salì la collina in corsa, giunse ansante dinanzi al cumulo dell’argilla, con rapidi colpi comunicò la sua febbre alla materia inerte, la maneggiò, la sconvolse, la infiammò, ne fece una cosa viva che parve formarsi a simiglianza di un’anima entro anelante, come se allo sforzo delle sue mani corrispondesse un interno lavoro misterioso. Ed egli era all’aperto, aveva dinanzi a sé le acque, l’arco del Golfo, l’orizzonte marino, la declinazione del sole. E, nell’ora labile, tutte queste grandi cose operavano con lui su la poca argilla e v’imprimevano i lineamenti della lor grandezza. Ed egli palpitava e anelava, calando il sole, diminuendo il giorno, perché sentiva l’impossibilità d’interrompere l’opera e di ritrovare quell’impeto. E tutte le cose lo aiutarono; l’ansietà del suo cuore accelerò il ritmo del mondo. L’ombra cadde sul mare, sul vulcano, su la città strepitosa, su la gran fronte del simulacro carica di melodìa ignota, su quel monte di volontà e di pensiero, cui le ciocche dei capelli salde e ricurve sono come quelle insegne della potenza che gli Orfici diedero alla fronte del dio Pan.

Son io riuscito a rappresentarvi con la parola quell’ora sacra ed a significarvi per via d’imagini la terribilità degli spiriti geniali, la reverenza religiosa e lo sbigottimento ch’eglino suscitano in chi è degno di mirarli? Tanto non è dato al nostro linguaggio. Ma voi certo comprendete ora per qual ragione, avendo la ventura di parlare a una bella corona di giovani, io abbia osato di evocare incontro all’ombra del creatore un’ardente imagine giovenile.

Quanto diversi i due destini! Vincenzio Gemito, questo postremo figlio dell’Ellade che nel suo nome stesso portava la vittoria e il dolore, al colmo della sua virilità feconda, fu colpito dal male, abbattuto, avvilito, fatto carne vegetante. Senza morire, egli è rientrato nel mistero: nel mistero della follia che è più cupo della tenebra sepolcrale. Spento, infranto fu colui che seppe darci un’effigie così viva e solenne del Vecchio inesausto, colta nel tempo in cui questi era all’inizio del silenzio trilustre donde doveva poi irrompere con un volo inatteso.

Una tal volontà operanteoperante nell’ora in cui l’uomo suole inchinarsi verso il sepolcropone Giuseppe Verdi nel concilio dei più alti eroi. L’opera sua potrà forse oscurarsi nei secoli, se bene talune delle sue melodie abbiano il carattere eterno della Natura dal cui grembo furon tratte. «Non v’è arte» dice un esegete delle moderne musiche «non v’è arte che come questa innovi con tanta rapidità le sue forme

E già un nostro quattrocentista, quasi sconosciuto, Giovanni Spataro, aveva scritto «che essendo la musica arte liberale è da credere che li suoi termini sono senza fine e che quello che oggidì sanno li musici e compositori è la superficie di quello che si può sapere». Ma per sempre sarà celebrato nei Fasti umani l’eroismo intellettuale di colui che, nell’estrema vecchiaia, volle e poté ancor salire verso forme di bellezza più complesse, con un ardore che sarà per sempre ai giovani magnifico esempio.

Quando io medito gli ultimi anni di quella vita venerabile, mi sento accendere dall’entusiasmo medesimo che mi produce il racconto di Ulisse nel canto vigesimo sesto dell’Inferno.

Chi di voi non ne fu incitato come i compagni del navigatore dalla «orazion picciola»?

Ma misi me per l’alto mare aperto!

Il coraggio indomabile, la volontà di operare, il desiderio di tentare l’ignoto non ebber mai una espressione più virile.

Io e i compagni eravam vecchi e tardi,

Quando venimmo a quella foce stretta

OvErcole segnò li suoi riguardi,

Acciò che l’uom più oltre non si metta.

«Più oltre!» grida per contro il coraggio dell’uomo che si solleva eroe.

Considerate la vostra semenza.

Consideratela, o Giovani! Il Grande, che oggi noi qui celebriamo, escì dalla stessa semenza ond’escirono Dante, Leonardo, Michelangelo: Dante che nella tragica Ravenna, ingombra dal naufragio di tanti superbi destini, tenne fino all’ultimo la fronte reclinata sul sacro lavoro e l’anima eretta contro l’imperversare dei mali; Leonardo che sul limite della tomba, non cessando di scrutare il vero e di dominar con gli ingegni le forze naturali, dipinse quell’ignudo Battista che fuori dell’ombra fa un gesto così luminosamente indicatore; Michelangelo che decrepito fece il modello della cupola vaticana, della «sì bella e terribil machina» voltata per scalare il Cielo, e disegnò templi sepolcri porte, sempre più grandiose figure della sua propria magnanimità, sino all’agonìa.

Considerate la vostra semenza.

Io vi dirò la Canzone che rammemora e che spera. Non siete voi forse oggi tutta un’adunazione di speranze? Forse tra voi è già l’uomo di domani, colui che ci recherà la buona novella, colui che saprà conciliare, nella suprema delle nostre idealità italiche, le grandi azioni ed i grandi pensieri. Forse alle mie parole il cuore di taluno di voi ha un palpito impetuoso e contiene il suo ardore con una gioia segreta che è una promessa ed un vóto. Forse taluna delle vostre fronti è già segnata per la gloria e, alle mie parole, un’onda di sangue l’accende come una fiamma che la incoroni. Forse un giorno taluno di voi, avendo già fornita un’opera gloriosa, ripeterà: «Più oltre!»; e si accingerà a uno sforzo più duro.

Oh, se io potessi tendere a ciascuno la mia mano fraterna e leggere nei limpidi occhi il proposito certo!

Voi siete, o Giovani, la imminente primavera d’Italia. La mia fede la mia costanza la mia aspettazione mi fanno degno di essere l’annunziatore della vostra volontà vittoriosa.




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