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II
C’era dunque nel tempo un popolo vittorioso ch’era per divenir laborioso? C’era dunque un popolo animoso ch’era per divenire operoso? C’era dunque un popolo del medesimo linguaggio e del medesimo proposito?
Se quel popolo si fosse taciuto e avesse ripreso l’opera in silenzio, la Città sarebbe stata compiuta e avrebbe sola parlato per quel popolo con la sua grandezza ben commessa.
Era il giorno del solstizio; era il giorno della mietitura e della semenza; era il giorno della forza e della giovinezza, il giorno dell’abondanza e del fervore.
Chiesi rude a quella gente alata di guerra e di lontananza: «Che abbiamo noi dunque fatto del nostro cemento romano?»
Non v’era nelle pareti e nella volta se non l’informe e l’esanime cemento armato: quella nuova materia che attende la forma e l’anima dai creatori della nuova architettura, dagli artefici delle nuove case e dei nuovi templi.
«Che abbiamo dunque noi fatto del nostro cemento romano?»
Io dico che in quell’attimo i miei prossimi – i miei veri compagni dell’Ermada, di Pola, di Vienna, di Cattaro, del conteso Piave – dico che in quell’attimo sentirono la mia durezza di fabbro cementario. Fabroque cementario et fabro ferri...
Ma nessuno fiatò. C’era un gran motore interno che assordava tutti e ammutoliva tutti. Ero costretto a sganciare solo le parole come bombe dalla carlinga librata fra quattro scoppii.
«Sì, siamo in lotta, e bisogna che noi restiamo in lotta. Ma, per creare e per vincere, è necessario che noi solleviamo la lotta nella regione dello spirito.»