Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comento meditato a un discorso improvviso

II IL CEMENTO ROMANO

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II

IL CEMENTO ROMANO

C’era dunque nel tempo un popolo vittorioso ch’era per divenir laborioso? C’era dunque un popolo animoso ch’era per divenire operoso? C’era dunque un popolo del medesimo linguaggio e del medesimo proposito?

Se quel popolo si fosse taciuto e avesse ripreso l’opera in silenzio, la Città sarebbe stata compiuta e avrebbe sola parlato per quel popolo con la sua grandezza ben commessa.

Era il giorno del solstizio; era il giorno della mietitura e della semenza; era il giorno della forza e della giovinezza, il giorno dell’abondanza e del fervore.

Chiesi rude a quella gente alata di guerra e di lontananza: «Che abbiamo noi dunque fatto del nostro cemento romano

Non v’era nelle pareti e nella volta se non l’informe e l’esanime cemento armato: quella nuova materia che attende la forma e l’anima dai creatori della nuova architettura, dagli artefici delle nuove case e dei nuovi templi.

«Che abbiamo dunque noi fatto del nostro cemento romano

Io dico che in quell’attimo i miei prossimi – i miei veri compagni dell’Ermada, di Pola, di Vienna, di Cattaro, del conteso Piavedico che in quell’attimo sentirono la mia durezza di fabbro cementario. Fabroque cementario et fabro ferri...

Ma nessuno fiatò. C’era un gran motore interno che assordava tutti e ammutoliva tutti. Ero costretto a sganciare solo le parole come bombe dalla carlinga librata fra quattro scoppii.

«Sì, siamo in lotta, e bisogna che noi restiamo in lotta. Ma, per creare e per vincere, è necessario che noi solleviamo la lotta nella regione dello spirito


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