Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
Lettura del testo

Comento meditato a un discorso improvviso

VI LA SIBILLA SENZA VOLTO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

VI

LA SIBILLA SENZA VOLTO

Non prono ma restar supino per alcuni giorni ancóra m’è imposto da quella severa bontà che talvolta porta la maschera del carnefice. Ritrovo l’attitudine immobile che diedi ai confini del mio corpo nella mia cecità conversa in visione senza confini. L’eterna doglia m’ha ricollocato nella sua matrice, m’ha ristampato nella sua impronta, m’ha di nuovo riconosciuto sua sostanza figliale.

Sono io dunque ricompresso e rioppresso o sono rigenerato? Sono colui che giace o colui che rinasce? Sono una forma del pensiero o sono una parvenza dell’atto?

Nella mia prima giovinezza l’amore delle Sibille michelangiolesche mi salvava dalle passioni vili. Prendetemi il libro. Distendete e leggete il cartiglio sinuoso che il mio angelo custode ha sempre in bocca figurato dal mio frescante improvviso in quella muraglia dove io aprirò la mia porta stretta orientandola secondo il mio istinto, assai prima che l’intonaco di calcina balzana e di rena gracile s’asciughi.

E allora io cercai le Sibille

per desìo d’un’alta compagna.

E dissi alla Libica: «I piedi

tuoi son come le ali

della colomba, poggiàti

sul pollice fiero; e tu sei

per chiudere il vasto volume

e per librarti a volo uscendo

dal tuo vestimento, o Sibilla,

come da un vincolo duro

affinché l’oro e l’azzurro

soli ti cingano come

l’orbita cinge la pupilla

umida di visioni

infinite e la tua bellezza

fatidica pàlpiti

di libertà sopra il vento.

Ignuda le spalle e le braccia

e la nuca, luoghi di gaudio,

ecco, dalla tua cintura

t’involi e dal tuo vestimento.

Ma il tuo seno, che tu mi celi,

non è forse profondo

come un fior numeroso?

E la treccia che sfugge

alla benda delle tue tempie

non ha forse il misterioso

potere del corno sul fronte

di Pan che conduce nei cieli

le melodìe del Mondo?

E il tuo fianco fecondo

non è fatto pel seme

del vincitore? Ah chi mai

saprà il colore degli occhi

tuoi sotto le pàlpebre chine?

Quando mi guarderai?

Orfeo sono, senza ghirlande,

che più non attende alle porte

dell’Ade quella che due volte

perdette! E tu sei troppo grande,

o Libica: sul cor tuo forte

soffocar puoi anche la Morte

No, non ho bisogno che voi mi svolgiate e mi deciferiate il cartiglio. Svolgo io stesso in me e io stesso in me scruto le più nascoste pieghe della mia angoscia. Sprigiono il canto della mia giovinezza, sprigiono il canto della mia maturità. Sprigiono le melodie del mio passato e le melodie del mio futuro. Odo sinfoniare in me le Sibille della mia culla e le Sibille della mia bara.

Orfeo sono, senza ghirlande.

Sono Orfeo senza ghirlande ma bendato.

Non ho più la smania di strapparmi le bende che mi serrano. Sieno bende sacerdotali o sieno bende funerarie, esse biancheggiano come l’osso del mio cranio, esse pulsano come il mio cervello, esse ampliano l’umanità della mia fronte.

In quale sogno della mia poesia affannoso io vidi la figura di Orfeo convertirsi in Lazaro bendato ma risuscitante?

Orfeo sono, senza ghirlande,

che più non attende alle porte

dell’Ade quella che due volte

perdette!

Io sono Orfeo bendato, che alle porte dell’Ade attendo me stesso trasfigurato in Lazaro consapevole di quel mistero verso cui Gesù crocifisso gettò dall’alto del Calvario il suo ultimo grido.

Attendo io dunque me stesso dalla morte e non dal riconoscimento e dal comprendimento degli uomini? Attendo io dunque me stesso alle porte del Buio e non alle porte dell’Avvenire?

Una sibilla infaticabile, che per suo luogo ha scelto la navata del mio spirito e non la volta della Sistina, oggi scrive nel suo foglio: «O Gabriele, per voler mio, su la vetta della tua ragione il Sole si è fermato, e risplende; e indora ogni pensiero

Ripudio le creature michelangiolesche? Non rammèmoro quel che dissi all’Eritrea?

Le pieghe del tuo spazioso

vestimento son piene

d’invisibili tesori

e di mistero infinito.

E, se tu volgi col dito

il foglio del libro verace

or che il Genio con la sua face

t’accende la lucerna,

qual tirannide crolla,

nasce qual novo mito,

qual puro eroe s’eterna?

Ogni accento riecheggia, ogni imagine rilampeggia, ogni divinazione si risuggella. Assisto, immobile ma onnipresente, al novo mito che nasce dalla fede e dal dolore di me bendato.

Parlo ai miei nati? Parlo ai nati di ieri o a quelli di domani? Non parlo a nessuno. Non voglio parlare a nessuno. Il nascituro ha il nome simbolico e spaventoso di Nessuno.

Chi ama tutta la Vita, chi interroga tutta la Vita, chi suscita tutto il Sogno, chi non crede alla realità del Presente ma pensa che nessuna creatura viva possa vivere senza creare il suo Passato e il suo Avvenire, può essere dunque accusato d’infedeltà o d’incostanza negli intervalli delle sue creazioni e dei suoi prodigi?

Io ho lodato la Delfica. Io l’ho magnificata nel suo cielo voltato dal Titano di su le travi ch’egli parve di aver riempiuto delle sue proprie midolle.

I rematori dalle cinture di sparto «disser le sue lodi con me». I trevieri dalle lunghe cesoie e le loro donne dai lunghi aghi «disser le sue lodi con me». I costruttori di navi, i mastri d’ascia, i calafati, i cordai, tutte infine le maestranze del mare «disser le sue lodi con me».

Ma io m’ardii sollevare di contro a lei la mia fronte d’uomo, simile a Edipo nel cospetto della Sfinge.

Io ti chiedo: Che guardi?

Iterata fu la dimanda, come il colpo della scure non vale se non sia iterato.

Che guardi? Una cosa fuggente,

o una che giunge dai mari

onde tu stessa venisti?

Scendere su i popoli tristi

le ceneri crepuscolari,

o sorgere l’albe cruente?

Che guardi? Un Liberatore

inchiodato a una quercia

alta mille volte cinquanta

cùbiti, come l’Agageo

Haman figliuol di Hammedata

che laggiù grandeggia in aspetto

di Titano più grande

del Galileo crocifisso?

Una gente nata del suolo

sacro all’Olivo e a Minerva,

che alfin ritrovò la sua gioia

perduta e goder sa nei giorni

la beltà senza fasto

il piacere senza mollezza

e comporre sa le sue feste

divine con lievi corone?

Ma forse l’occhio tuo fisso

contempla l’Ombra di Roma

che regge l’antico timone,

quale effigiata ancor regna

nella medaglia di Nerva.

Sono io che le parlo? o ella è, che mi riparla?

Non mi costringete più a rimaner supino. Rivoltatemi nel mio sepolcro bianco. Mettetemi almen prono, ch’io possa pontare ambo i ginocchi piagati e tentare di sollevarmi. Non avete voi dunque né tanto di forza né tanto di pietà da consentire alla sua voce che mi risuscita?

Andiamo, andiamo! Se ancóra

sonvi nel mondo azioni

da compiere belle

come le più belle promesse

dei sogni virili, se ancóra

sonvi da vincere mostri,

da sciogliere enigmi,

da purificare carnai,

da costringere petti

umani a gridi d’amore

e d’orgoglio verso la Vita,

andiamo, andiamo! Se ancóra

sonvi giardini profondi

ove favellare si possa

co’ i saggi e gli aedi, se fonti

vi sono per tergersi dopo

le lotte, colline silenti

che sostengano anfiteatri

di marmo sacri ai tragèdi,

se inni, se musiche pure,

se ancor vi son lauri, andiamo!


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL