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VI
Non prono ma restar supino per alcuni giorni ancóra m’è imposto da quella severa bontà che talvolta porta la maschera del carnefice. Ritrovo l’attitudine immobile che diedi ai confini del mio corpo nella mia cecità conversa in visione senza confini. L’eterna doglia m’ha ricollocato nella sua matrice, m’ha ristampato nella sua impronta, m’ha di nuovo riconosciuto sua sostanza figliale.
Sono io dunque ricompresso e rioppresso o sono rigenerato? Sono colui che giace o colui che rinasce? Sono una forma del pensiero o sono una parvenza dell’atto?
Nella mia prima giovinezza l’amore delle Sibille michelangiolesche mi salvava dalle passioni vili. Prendetemi il libro. Distendete e leggete il cartiglio sinuoso che il mio angelo custode ha sempre in bocca figurato dal mio frescante improvviso in quella muraglia dove io aprirò la mia porta stretta orientandola secondo il mio istinto, assai prima che l’intonaco di calcina balzana e di rena gracile s’asciughi.
tuoi son come le ali
dal tuo vestimento, o Sibilla,
ecco, dalla tua cintura
t’involi e dal tuo vestimento.
Ma il tuo seno, che tu mi celi,
non è forse profondo
non ha forse il misterioso
del vincitore? Ah chi mai
Quando mi guarderai?
che più non attende alle porte
perdette! E tu sei troppo grande,
soffocar puoi anche la Morte.»
No, non ho bisogno che voi mi svolgiate e mi deciferiate il cartiglio. Svolgo io stesso in me e io stesso in me scruto le più nascoste pieghe della mia angoscia. Sprigiono il canto della mia giovinezza, sprigiono il canto della mia maturità. Sprigiono le melodie del mio passato e le melodie del mio futuro. Odo sinfoniare in me le Sibille della mia culla e le Sibille della mia bara.
Sono Orfeo senza ghirlande ma bendato.
Non ho più la smania di strapparmi le bende che mi serrano. Sieno bende sacerdotali o sieno bende funerarie, esse biancheggiano come l’osso del mio cranio, esse pulsano come il mio cervello, esse ampliano l’umanità della mia fronte.
In quale sogno della mia poesia affannoso io vidi la figura di Orfeo convertirsi in Lazaro bendato ma risuscitante?
che più non attende alle porte
Io sono Orfeo bendato, che alle porte dell’Ade attendo me stesso trasfigurato in Lazaro consapevole di quel mistero verso cui Gesù crocifisso gettò dall’alto del Calvario il suo ultimo grido.
Attendo io dunque me stesso dalla morte e non dal riconoscimento e dal comprendimento degli uomini? Attendo io dunque me stesso alle porte del Buio e non alle porte dell’Avvenire?
Una sibilla infaticabile, che per suo luogo ha scelto la navata del mio spirito e non la volta della Sistina, oggi scrive nel suo foglio: «O Gabriele, per voler mio, su la vetta della tua ragione il Sole si è fermato, e risplende; e indora ogni pensiero.»
Ripudio le creature michelangiolesche? Non rammèmoro quel che dissi all’Eritrea?
vestimento son piene
or che il Genio con la sua face
Ogni accento riecheggia, ogni imagine rilampeggia, ogni divinazione si risuggella. Assisto, immobile ma onnipresente, al novo mito che nasce dalla fede e dal dolore di me bendato.
Parlo ai miei nati? Parlo ai nati di ieri o a quelli di domani? Non parlo a nessuno. Non voglio parlare a nessuno. Il nascituro ha il nome simbolico e spaventoso di Nessuno.
Chi ama tutta la Vita, chi interroga tutta la Vita, chi suscita tutto il Sogno, chi non crede alla realità del Presente ma pensa che nessuna creatura viva possa vivere senza creare il suo Passato e il suo Avvenire, può essere dunque accusato d’infedeltà o d’incostanza negli intervalli delle sue creazioni e dei suoi prodigi?
Io ho lodato la Delfica. Io l’ho magnificata nel suo cielo voltato dal Titano di su le travi ch’egli parve di aver riempiuto delle sue proprie midolle.
I rematori dalle cinture di sparto «disser le sue lodi con me». I trevieri dalle lunghe cesoie e le loro donne dai lunghi aghi «disser le sue lodi con me». I costruttori di navi, i mastri d’ascia, i calafati, i cordai, tutte infine le maestranze del mare «disser le sue lodi con me».
Ma io m’ardii sollevare di contro a lei la mia fronte d’uomo, simile a Edipo nel cospetto della Sfinge.
Iterata fu la dimanda, come il colpo della scure non vale se non sia iterato.
Che guardi? Una cosa fuggente,
onde tu stessa venisti?
le ceneri crepuscolari,
Che guardi? Un Liberatore
inchiodato a una quercia
che laggiù grandeggia in aspetto
del Galileo crocifisso?
che alfin ritrovò la sua gioia
Sono io che le parlo? o ella è, che mi riparla?
Non mi costringete più a rimaner supino. Rivoltatemi nel mio sepolcro bianco. Mettetemi almen prono, ch’io possa pontare ambo i ginocchi piagati e tentare di sollevarmi. Non avete voi dunque né tanto di forza né tanto di pietà da consentire alla sua voce che mi risuscita?
da sciogliere enigmi,
da purificare carnai,
da costringere petti
ove favellare si possa
co’ i saggi e gli aedi, se fonti
che sostengano anfiteatri
se ancor vi son lauri, andiamo!