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VII
Non c’è dunque chi mi risusciti? Non c’è chi mi riannodi le ginocchia? Non c’è chi mi disgiunga i malleoli dolorosi e tuttora sanguinosi? Non c’è chi mi rimetta sotto le calcagna la terra feconda, la mia terra natale? Non sono io dunque Orfeo bendato come Lazaro? Non dunque mi leverò e camminerò mondato dagli unguenti e vestito di lino? Se la mia destra è appiccata al mio lato spento e infranto, se la mia destra obbedisce al mio spirito, se la mia destra scrive col vigore della mano che incide, io sono tuttora il verbo fatto carne.
Perché scrivo? Scrivo per essere sempre più robusto. Scrivo per conquistar me medesimo sempre più fieramente sopra i miei sensi turbati o menomati. Scrivo per riconoscere i margini di ogni mia azione, i termini di ogni mia azione, che troppo è arduo definire operando, così come gli orli della bandiera vibranti variano di continuo e pure di continuo ci toccano la cima del cuore mentre l’asta rimane inflessibile nel pugno dell’eroe trasognato.
Ma la mano convulsa cessa di scrivere per allungarsi verso i miei malleoli dolenti e congiunti, verso il castigo del «piè veloce», verso la mia oscura pena.
Non c’è chi sappia sanarmeli e disgiungermeli e avviarli di nuovo a una mèta che sembri fuori di me e invece sia nel più profondo di me?
C’erano simulacri primitivi d’iddii, che non avevano l’aspetto divino ma arboreo, chiamati zòani, con giunte le gambe l’una all’altra e con giunte le braccia lungo i fianchi sino ai ginocchi annodati.
Sono io uno di quegli zòani negletto? Sono di legno? sono di sasso? Ma pur vige in me qualcosa di divino e d’inconoscibile.
Penso a quella sùbita inspirazione che folgorò l’arte rude e la religione sorda. Penso al dio di pietra, al dio di tronco, che primo simulò il passo e primo simulò il gesto verso l’uomo attonito.
Or è dieci anni, a un giovane soverchiato dal suo stesso zelo io ricordai come il simulacro di Amore custodito in Tespia fosse un sasso greggio, e gli domandai s’egli si sentisse capace di tagliarlo e di riscolpirlo in perfezione divina o umana.
Non ebbi risposta se non di pallidezza e di tremito.
Chi, dei tanti che sono chiamati miei discepoli, chi mi risponde?
E chi mi toglie di mano la penna e mi dà uno scarpello affinché io stesso recida col taglio i miei legami e mi riscolpisca a imagine della mia volontà e della mia prodezza?
Ahi, ahi! Una fitta crudele mi attraversa tutto questo braccio che volenteroso e prode m’esce da questo lato spento. Il polso mi duole. Le nocche dell’osso articolato mi scricchiolano. La mano si fiacca. Mi si comincia forse a disseccare? Comincia forse a divenir secca come la destra di quell’uomo che stava nella sinagoga quando Gesù vi entrò di sabato?
«Disse a quell’uomo: – Distendi la tua mano. – Ed egli fece così. E la sua mano fu renduta sana come l’altra.»
Lasciate entrare il dottore di Galilea, innanzi agli altri.
Io vi rivelerò un dolce segreto, o fratelli, che a me fu rivelato da una povera donna in lutto.
Mi gemette quella povera donna, che come la cristiana Pietà reggeva su le ginocchia il corpo del figlio atterrato nella fazione recente, mi singhiozzò: «Sentii dire una volta da un consolatore come gli Angeli, nell’ora che seguì l’ultimo gran grido di Gesù crocifisso, avessero filato un filo tratto dalla cortina del tempio che s’era fenduta per lo mezzo. Ed era il filo della fraternità umana, se non di quella distante, almeno della prossima. E rimase impigliato e attorcigliato alle braccia della croce, quando Giuseppe d’Arimatea trasse il santo corpo e l’involse nel lenzuolo per collocarlo nel monumento tagliato dentro la roccia.»
Soggiunse la lacrimosa: «Pare che di continuo qualcuno cerchi di ritrovare quel filo e di districarlo e di svolgerlo e di tirarlo, in quel modo che io poverella m’affanno a ritrovare il bandolo della matassa. Ma quel bandolo è smarrito, mio buon signore, e non c’è ancóra chi sappia scoprirlo e ravviarlo. Chi è destinato?»
Ella mi guardava, con l’anima che pareva sgorgarle fuori del pianto come accade che una scaturigine più potente si sollevi e ferva sul filo di tutta l’acqua sorgiva.
E riscosse il capo canuto che doveva somigliare a quello d’una delle Marie nell’officio degli olii e degli aròmati. E ripetette, guardandomi: «Chi è destinato?»
«L’uomo dalla mano secca, l’uomo la cui man destra era secca, l’infermo che fu guarito da Gesù in un sabato» io le risposi senza aver cuore di sorridere né di piangere.
E non potei sapere chi mi avesse dispiccato quelle parole subitanee dalla cima dell’anima o chi senza labbra avesse di sùbito parlato in me. Né di poi lo seppi, o fratelli. Né pure oggi lo so.