Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comento meditato a un discorso improvviso

VIII IL SUGGELLO E LA CICATRICE

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VIII

IL SUGGELLO E LA CICATRICE

Forse mi gioverà imparare a non più sorridere e forse a non più piangere.

Dov’è la perfezione? E dov’è la sufficienza?

Io ebbi un esemplar compagno della mia stirpe, nato in una insigne città degli Abruzzi che fu nominata imperialmente dall’Aquila. L’ebbi nella mia vita di aviatore e di marinaio, ma oggi l’ho tuttora nel cimitero dei marinai a Ca’ Gamba e l’avrò domani all’ombra di Collemaggio e l’avrò per sempre nel mio sacrario interno le cui chiavi non potranno mai essere rinvenute da alcuno.

Si chiamava Andrea Bafile. Nel trigesimo dell’impresa di Buccari, il 11 marzo del 1918, sul Basso Piave, mi dedicò la sua morte sublime.

Questo eroe sobrio e taciturno non fu più veduto sorridere dopo la sciagura di Caporetto. Pareva che il suo dolore virile gli avesse reciso intorno alle labbra tutti i muscoli gioiosi e gli avesse rifatto le strette labbra simili a una cicatrice che per chiudersi non aspettasse se non il gelido suggello.

Quando l’avevo io veduto sorridere per l’ultima volta? Laggiù, nella Puglia piana, nel campo destinato alla mia dipartita per le Bocche di Cattaro, in quella Gioia del Colle che io rinominai Gioia della Vittoria. Vidi il suo ultimo sorriso di fratello minore a fratello maggiore, quando gli diedi il carico di regolare sul campo le bussole dei miei apparecchi e quando per premio lo inscrissi in uno dei miei equipaggi preparati al viaggio senza ritorno.

Ritornò con me. Tutti ritornammo. La pietra del nostro monumento la ritrovammo rotolata. Era la notte di ottobre, era la notte di Santo Francesco. Agli aspettanti il Poverello stesso nell’alba aveva detto, con l’accento di quei due sopravvenuti in vestimenti folgoranti: «Perché cercate i viventi tra i morti

Viventi e ardenti ritornammo e ripartimmo. Per dove ripartimmo?

Ripartimmo verso il Piave che ciascuno di noi a un tratto credette sentire in sé più vivo che la sua propria caròtide e che qualunque altra sua arteria pulsante. Ripartimmo verso quella crudele vittoria venuta all’Italia dopo le sue undici vittorie. Ripartimmo verso quella dodicesima che fu l’«oscura», che fu quella d’Iscarioth, quella che diede all’avversario la terra ma non l’anima, quella che di noi menomò la terra ma ingrandì l’anima.

Andrea Bafile non fu più veduto sorridere, neppur da me, neppure quando gli versai la coppa dell’amicizia e gli profetai l’alta vendetta.

Ma per lui non sorrise la morte? Non si dice che talvolta la morte sorrida riconoscendosi divinamente bella nel volto dell’eroe? Non ella sorrise davanti alla perfezione di quella fine senza parole?

Prima di spirare, l’eroe pensò a me lontano e mi evocò. La sublime cicatrice delle sue labbra fu socchiusa dal mio nome, quasi senza soffio.

Se pur la morte non sorrise, mia madre sorrise.

Per vedermi disegnato da quella cicatrice sommessa anche in sogno, darei tutte le trombe della Fama e quelle del Giudizio Finale. Mi viene in odio ogni clangore, mi viene in odio ogni clamore.

Il mio capezzale s’impietra, e la mia vita si fascia di gelo.


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