Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comento meditato a un discorso improvviso

IX IL SORRISO D’ITALIA

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IX

IL SORRISO D’ITALIA

Vi fu un tempo in cui la gente sciocca mostrava di credere e piacevasi ripetere che io sorridessi troppo e troppo cortese. E non s’accorgeva come crudelmente io sorridessi di questa sua opinione e di questa sua diceria e di tante altre sue stupidità grosse.

Anche oggi mi avviene di simular frequente il sorriso perché altri non sappia quando io sorrido davvero. Anche oggi dal mio capezzale mi avviene d’insegnare ai miei prossimi il sorriso lieve che vela o ricopre il sorriso profondo, la terribilità annidata negli angoli delle labbra.

Chi conobbe e comprese il sorriso di Michelangelo, lampeggiante nella sua barba di capro? Non Giorgio Vasari. Non Vittoria Colonna. Non Tomaso dei Cavalieri.

Fra tante cose italiane che custodisco e illustro in me, io perpetuo anche il sorriso italiano: quello che andò a rifugiarsi nelle corti col lusso delle arti belle e della poesia cavalleresca o pastorale; quello che doventò pontificio e irritò il gran gozzo pieno di stento e di furore sollevato incontro alla immortalità dei Profeti e delle Sibille.

La nostra «sorella latina» si vanta di possedere tuttora il segreto del sorriso invitto. Ma non è il nostro. È un altro.

Il nostro è inimitabile come l’inflessione delle nostre ali e delle nostre eliche. E non è da credere che si sia rifugiato nel Museo del Louvre o altrove. Non è quello famoso della Gioconda che fu da me restituita per sazietà e per fastidio, come tanti sanno e come tanti temono di approfondire. Non è quello del Precursore. Non è quello del Davide verrocchiesco che sembra il primogenito illegittimo di Leonardo e quasi l’intempestivo riflesso del suo enigma astruso.

Non è da disegnare, non è da colorire, non è da rappresentare con qualsisia materia, non da fingere con qualsisia sottigliezza d’ingegni. Non muove alcuni gruppi muscolari, non fa rilucere una chiostra di denti digiuni, non varia l’incanto delle ombre primaverili e la grazia della lanugine autunnale. Ma solleva, ma contrappone, ma riagita volumi di armonia come quando un nuovo tema entra nell’orchestra e ne esalta o ne allevia la «concordia discorde».

Giova dunque restaurare e riattivare le qualità del sorriso italiano? E in che modo? Lasciamo gli antiquarii restaurare e ridipingere alla meglio le donne e le madonne della specie vinciana. Non v’è nulla di donnesco, né profanosacro, nella mia allusione. E io convengo essere più facile raggrinzare il ferro dell’elmo nel collo di Guidarello Guidarelli che interpretare l’acume d’un certo sorriso mentale.

I miei interlocutori i miei sollecitatori i miei falsificatori i miei lusingatori s’industriano di continuo a piegare e ad articolare l’acciaio che mi fascia. Non mai s’accorgono che il mio sorriso nasce fra le mie due tempie voraci e poi discende alle mie labbra repugnanti.

La timidezza è imberbe? e baffuta e barbuta è la prosunzione?

Ecco che io sono di continuo minacciato dal sistema metrico decimale dei pesi e delle misure. Sono di continuo sospinto verso la bilancia e verso la stadera, verso l’endecasillabo e verso l’ottonario, verso le clausole ciceroniane e verso le cadenze predicatòrie.

Odo vantare la coscienza; odo celebrare l’inspirazione; odo affermare la risoluzione.

Il mio sorriso persiste; e fa rilucere intorno a me le carrucole perpetue e le rotaie inflessibili.

Una voce parmigiana mi grida da una trincea d’Oltretorrente: «Con chi siete? Dichiarate se siete con noi o contro di noi.»

Una voce partigiana dalle scale del Palazzo Marino mi grida la medesima cosa.

In guerra, quando m’avveniva di passare troppo da presso alle sentinelle, io non esitavo a prendere il fuoco dei moschetti sopra di me, pur di non rispondere al grido e di non arrendermi all’intimazione. E sotto il fuoco non abbassavo mai la testa.

Ma i moschetti imprecisi non mi conoscevano, mentre i nuovi intimatori non possono non conoscermi se non sieno mentecatti o ipocriti.

Mi lascerò io misurare? Io non mi son lasciato pazientissimamente misurare se non dall’operaio che doveva ridurre alla esatta misura del mio corpo la sedia incendiaria collocata a proravia del mio velivolo di Vienna. Non c’era altro luogo per me, pel condottiero, se non il serbatoio dell’essenza; e nel serbatoio fui incavato e incastrato, avendo contro l’anca e contro la coscia la lamiera assottigliata così che per tutto il volo in ogni mio più lieve moto dovevo difenderla dalla punta del mio pugnale; e non mi stancai di tenere nelle mie dita contratte la punta del mio pugnale di Caposile tuttora annerita dal grumo del vecchio sangue austriaco.

Chi oggi pretende misurarmi, chieda all’ingegnere Brezzi, all’ardimentoso costruttore, quale fosse il mio viso di prova in prova e quale fosse il mio occhio superstite.

Son certo che la sua risposta scoraggerà tutti quelli i quali guatano verso di me nel contrapporre bottega contro bottega, menzogna contro menzogna, senseria contro senseria, vanità contro vanità, officio contro officio, comando contro comando.

Non posso arrestare su le mie labbra il più incomprensibile dei miei sorrisi vedendo a un tratto saltabeccare a piè del mio letto la figura di Vannoccio Biringuccio escita da uno di quei miei polverosi libri veneziani.

Mi vuol pesare scavare esplorare scrutare determinare.

Non al giacente parla Biringuccio arbitro di tutte le sorti? «Ti voglio mostrare il modo dei pesi, e prima a tutto insegnarvi a partire e ben proporzionare la libra piccola con la commune delle dodici oncie per poter sapere, mediante l’arte metrica, il cento, e ogni altra quantità di miniera o di metallo, quel che tiene d’argento o d’oro...»

Avete udito?

Ma che m’importa del balbettio se questo messer Vannoccio è da Siena e non ripudia il puro accento senese?

O dottori, che registrate oggi nel vostro diario?

Tutto m’è visione e tutto m’è simbolo. Serratemi le bende perché le suture del mio cranio non cedano all’urto iterato del flutto lirico.

Questo senese è l’autore di un libro intitolato La Pirotecnìa.

Il titolo allude con troppo acre arguzia all’Italia di oggi? E i Vannocci Biringucci si sono moltiplicati senza fine? E sono tutti al mio confronto «pratichissimi», come direbbe il Varchi? Spiritus aliunde.


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