Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comento meditato a un discorso improvviso

X DE PROFVNDIS CLAMAVI AD TE, PATRIA

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X

DE PROFVNDIS CLAMAVI AD TE, PATRIA

Che è la coscienza? che è la coscienza dell’uomo solitario? e quella civica? e quella nazionale?

Come si forma? come si approfondisce? come si allarga? di quali elementi si nutre e si afforza? di qual luce fissa e di quali baleni s’illumina? quali sono le sue rispondenze palesi e misteriose con l’atto? e in confronto di queste rispondenze non son più facili a definire quelle tra la cieca folgore e l’opaca nube?

Oggi è una grande vigilia.

Or è tre anni ero inchiodato nel letto come oggi; ero crocifisso tra la mia Volontà e la mia Inspirazione. Come oggi, il miserabile mio corpo disteso era una «discordia concorde» di forze oscure governate da leggi indistinte che d’attimo in attimo contrastava o trasformava un irraggiamento di sensibili fibre cariche di spiritualità come le corde della viola o del liuto vivono la melodia a loro impressa dalla mano del maestro pensoso.

Non mangio. Non bevo. Sono ridiventato un fante carsico. Non mi travagliano la fame e la sete. Mi sfamo di fede e mi disseto d’amore. Sono scarnito come uno di quei calvarii che conquistai; sono ossuto come il mio medesimo scheletro. Sono simile all’ossame e simile al pietrame.

Sono un corpo finito. Con quali altri corpi confino? Sono un’anima infinita. Con quali altre anime comunico?

Or è tre anni, tra il mio letto e il cimitero di Ronchi non v’era separazione, non v’era spazio. Lo stesso bagliore febrile ardeva nelle mie occhiaie e in tutte quelle altre occhiaie insonni.

Or è circa un mese, nella notte del 3 agosto, questo corpo era poggiato a una ringhiera insolita e quest’anima era diffusa in mille e mille e mille petti incogniti. Ma io ero un uomo sopra gli uomini, ero un uomo nella profondità degli uomini.

La parola si era fatta carne? Da che parte soffiava lo spirito? Soffiava dalla mia angoscia celata? dalle costellazioni palpitanti come l’attenzione e l’aspettazione umane? dal simulacro di quello spirituale Eroe che pareva fosse in punto di scendere dal suo piedestallo per dipingere un’altra volta in un altro cenacolo la sublimità di Gesù tradito e la solitudine di Giuda con in pugno il sacchetto dei trenta denari?

E disse Egli queste parole:

«Dove io vo, tu non puoi seguirmi

Ebbene, sì, abbandonatemi. Rimango solo, con i miei malleoli annodati, con la mia tibia destra scoperta come se le «nere cagne» di sotterra me l’avessero addentata e squarciata. Non soltanto mi rassegno ma mi godo di lasciarmi rodere fino alle midolle. Mi basta di serbare, oltre la mia anima, le mie midolle e i miei nervi. Tutto il resto io lo do al nulla.

Perché anche quest’anno, nello stesso giorno, altri donatori – i messaggeri italiani d’oltremare – mi portano questa effigie di Dante non attenuata marmoreamente in vindice spirito ma appesantita di vecchiezza pingue?

Eppure io nella prima notte della nostra guerra, nella prima ora del primo sangue, dal silenzio potente di Roma vi scrissi, o Italiani di dall’Oceano: «Un uomo d’Italia vi manda questo silenzio come si manda una lapide non iscolpita, dove una sola parola sia da scolpire: la più grande.»

Se non mi comprendeste allora, se non mi comprendete oggi, mi comprenderete domani. Io non più m’attendo il mio ammaestramento neppure da colui che mise in bocca l’«orazion piccola» al mio progenitore Ulisse. Il solo mio maestro è il Carso guerreggiato. Il mio stile non vuol essere se non il suo stile. Non forse diversamente nella mia giovinezza avventurosa il Deserto con la sua nudità mi diede l’orrore dei campi, dei prati, delle selve, delle riviere.

E tedio mi prese del verde

albero, e il solco del novo

grano mi fu a noia

per la memoria dell’uomo;

e ogni vestigio di piede

umano mi parve lordura.

E l’immensa aridità pura

del Deserto senza vie

e senza òasi, il suo fiore

ineffabile che illude

la sete nudrito di brace,

le sue mammelle nude

e sterili che fanno

di bassura in bassura

ombre d’inganno, il muto

tremar del suo vento focace

quasi battito di febbre,

furono il mio rapimento.

I versi della grande Laude mi risonano nella volontà

come le aguzze asticelle

dei dardi a quattro alette

suonano nella faretra.

I ritorni e i ricorsi perpetui non sono fra i più spaventosi misteri della vita?

Sei tu, Guido Keller, compagno che sai parlare all’aquila e sai persuadere il somiero, compagno che sai tener prigione l’aquila e caricare di pazienza il somiero, sei tu venuto al mio capezzale?

Io ti prego che tu ti allontani. Io ti rinnovo nel terzo anniversario la preghiera del secondo anniversario. So che custodisci nel tuo silenzio sapiente le mie parole d’allora. Non anche tu m’avevi portato una imagine di Dante più offensiva d’ogni mio sollecitatore dantesco?

«L’effigie che tu mi porti ha troppo coperta la struttura dell’osso. Rotondeggia.

«Preferisco la maschera di sasso che in quest’ora, laggiù, sotto la rocca di Manerba, sta supina senza guardare la luna. La mia malinconia riempie le cavità e si lacera alle sporgenze.

«Sono tanto scontroso che stasera non mi piace di stare nemmeno con un compagno notturno come te.

«Non so se tu sia il Guido Keller di quella notte. Tutti cambiano intorno a me. E io sono stanco di fare la pietra del paragone.

«Ti ricordi di quella parola che ti mandai nella tua via fiorentina delle Stelle?

«Maestro senza discepoli, capo senza partigiani, condottiero senza seguaci, console senza littori.

«Voglio andare a trovare nuovi compagni nel Deserto: compagni trasparenti, con una testa di cristallo di rocca, come quei busti medicei di pietre dure.

«O Intelligenza!

«L’Intelligenza è in eclissi e Dante è in esilio.

«Gli Italiani lo costringono a rimorire di cruccio.

«Io non vado né a Ravenna né a Fiorenza.

«Di Dante non può parlare oggi se non un professore, un ministro o un imbecille.

«La mia febbre di Ronchi mi torna con un immenso brivido lirico.

«Te lo comunico a distanza.

«Una bella donna di non so più qual secolo, mi disse una sera: “Se volete essere più vicino a me, andatevene.”

«E vorrei avere stasera per unico nutrimento quel grappolo d’uva che in quella casùpola di Ronchi fu messo accanto alla mia branda infocata.

«Te ne ricordi?

«Smaniavo e bruciavo e ripetevo: “I carri! I carri! Voglio i carri! Datemi i carri!”

«Guardavo il grappolo e domavo la mia bramosia. Agonizzavo di arsura, morivo di sete; ma non potevo, ma non dovevo aver sete se non di sacrifizio.

«Te ne ricordi?

«Non distesi mai la mano verso il grappolo. Non ne toccai, non ne mangiai neppure un acino.

«Tu che sei mago, va, ritrovalo e portamelo.

«Ma, se tu lo ritrovi di dal muro del cimitero, se tu lo ritrovi su la bocca d’uno dei quattordicimila morti, non lo prendere. Lascialo.

«Mi disseterò altrimenti.»

Era la sera di settembre, la sera del undici.

C’è qualcosa che supera in bontà il grappolo intatto di Ronchi?

Perché mai a un tratto il mio capezzale riluce come se io posassi il capo bendato sopra la bisaccia del Poverello di Cristo o sopra lo zaino di un fante martire?

Altre visioni risorgono. Non è necessario che io intinga il mio dito nel mio sangue, come Filippo Strozzi, per scrivere nella parete della mia prigione. Leggo nella parete le note di luce che v’inscrivono le stelle come in una plaga di cielo.

«Il cielo s’era avvicinato alla terra nemica, senza timore. Come già sul Golgota, il silenzio del cielo discendeva su quello sfondo di calvarii fragorosi dove dei boschi non restava se non qualche troncone di croce senza braccia. Le granate talvolta avevano un suono chiaro di grandi cimbali percossi. Pareva che anche gli scoppii si dorassero. Erano talvolta come potenti battute di timpano nell’oro. L’assalto aveva l’inizio delle danze vertiginose nei paesi di sogno. Gli assalitori cantavano. Riodo i dieci colpi di gong, l’uno dopo l’altro, martellati dal “Centocinqueaustriaco; e il grido, e il canto.

«Veliki: una battaglia d’oro, la più bionda battaglia del nostro Oriente!

«Veliki: una vittoria che ha la voce d’una musa dal piè leggiero!

«I fanti mordevano l’azzurro. La luce moltiplicava d’attimo in attimo l’impeto. L’impeto era un’ascensione celeste. La forza rimbalzava dalla morte. La morte era trascinata in su, dall’ardore e dal clamore, come una popolana che sia presa dal contagio d’un tumulto e canti anch’essa a squarciagola la canzone furibonda. Non erano un ingombro ma una spinta i caduti. I feriti divenivano gli alfieri dell’insegna vermiglia. La vetta non era se non un sentimento sublime nel petto di chi la voleva raggiungere. Non c’era nulla fuorché macigni scheggiame tronchi tritati spine di ferro schianti fumo cadaveri. Ma c’era la luce italiana, c’era il meriggio d’Italia

Errano dunque i delirii meridiani intorno a questo letto di angoscia? Mi lascio dunque inebriare e rapire dallo splendore?

La sibilla senza volto mi trasporta. Mi passano fra le dita le sue foglie sibilline. «Per l’immortale osanna ho convocato i celesti cori, di cerchio in cerchio: Risorgere, risplendere, trionfare

Faccia la mia anima che la mia umiltà sia tanto forte da respingere la tentazione.

Ma ella non cessa. «Io risuscito stanotte gli Eroi. Con crine d’oro, con infiammata lancia, l’Arcangelo li guida. E la falange gli si piega e gli obbedisce

Mi voglio io piegare e voglio io obbedire. Non gioisco, non m’inalzo. Mi umilio. Cerco il braccio lacero e logoro del più umile tra i miei compagni.

La voce non s’affioca, non si rompe. «Gabriele, Gabriele, dall’esile petto di Beatrice, dal profondo timore di Beatrice tu trarrai il tuo canto; e ne farai un sol coro, ne farai un coro unico per l’eterno

Cancellerò io stesso il mio nome. Lo laverò con l’acqua di un altro battesimo. Levigherò con la pómice le mie ginocchia che sanguinarono contro le pietre del Carso e oggi, per non so che misterioso vóto o comandamento, risanguinano.

L’umiltà mi conduce al capezzale un compagno della santa guerra, che mi fu vicino e non mi si rivelò. Si chiama Michele Giglio. Ha il nome dell’Arcangelo portaspada e ha il fiore di Colui che annunzia! È infermiere a Napoli. Cura gli infermi, e viene presso di me infermo con la metà della sua anima divisa dal taglio dell’angoscia. La carità non taglia per mezzo il mantello soltanto ma anche l’anima, anche i precordii.

Egli dice: «Tu non mi conosci; certo non mi conosci. Ma io ti conosco. T’ho veduto da vicino tre volte. Ti sono stato vicino tre volte. So quel che hai fatto, so com’era il tuo viso nella battaglia, so come l’occhio vivo ti rifiammeggiava accanto all’occhio perduto. Ti ho visto da vicino nel Vallone. Ti ho visto nella vittoria che la tua anima condusse dal 1 al 3 novembre del 1916. T’ho visto al Veliki, t’ho visto al Faiti, ma t’ho visto anche altrove: nelle zone battute incessantemente dall’artiglieria austriaca, quando tu non ti gettavi mai a terra, quando tu ti esponevi in piedi sul parapetto della trincea, protetto da non so che incanto ma forse dal solo amore dei tuoi soldati. E io dicevo in me, e ogni soldato diceva in sé: Se la nostra Italia avesse cento di questi uomini, potrebbe conquistare non le pietre disperate del Carso ma il mondo intiero e le speranze umane e divine del mondo intiero...»

Io sobbalzo sfidando il dolore delle mie ossa, spremendo da me il sangue e la sànie, fremendo di non poter infrangere e di non poter sollevare la mia immobilità sepolcrale. Gli interrompo la parola immeritata, la lode che mi fa soffrire più d’ogni altra lode. «Che dici? che dici? Perché mi vuoi percuotere anche tu? perché mi vuoi ferire? L’Italia, quando tu pensavi questo di me nella trincea, ne aveva migliori di me centomila, ne aveva cinquecentomila, e più ancóra. Intendi? E tu mi domandi perché dunque non abbia conquistato il mondo. Credi tu che il mondo si conquisti col ferro e col fuoco? Credi tu che le conquiste sieno fulminee e che a noi valgano tuttora le tre parole di Cesare? Ma dove sono i vecchi conquistatori? dov’è la loro opera? Torna essa con le stagioni? i suoi fiori i suoi frutti i suoi pensieri le sue allegrezze le sue tristezze ogni anno? C’è, dopo le quattro stagioni, una quinta stagione? Non por mente a quel che ora dico, e lascia che il mio soffio stesso me lo rapisca dalla gola. C’erano centomila, c’erano cinquecentomila, c’erano seicentomila migliori di me. Sono allineati nei cimiteri di guerra. Credi tu che sieno supini come tu mi vedi supino? Sono in piedi, camminano, marciano. C’è una marcia di sotterra, c’è un passo di sotterra; c’è una volontà sotterranea, come nel Carso ci sono i fiumi nascosti e forse per sempre vermigli. Intendi? Io voglio che tu m’intenda, voglio che tu mi sia vicino come nel Vallone del Sangue, come nell’inferno del Carso. Voglio sentire il tuo braccio. Voglio sentire il tuo gomito. Voglio tu mi dica che questa stanza di malato è una dolina, che siamo in fondo a una dolina, che tu m’hai coricato su una tavola marcita fra le croci d’abete grezzo. Voglio che tu mi risponda a questa domanda. Sai tu che è il Carso? Noi già avevamo in antico qualcosa che somigliava immortalmente al Carso: ed era l’Inferno di Dante. La sublimazione dello Spirito è nell’Inferno o nel Paradiso? Non mi rispondere, se non sai. Sappi che oggi in Italia c’è un luogo dello Spirito, c’è un luogo inviolabile dello Spirito, c’è uno spazio spirituale dell’Eroismo, c’è una grande ara ideale del Sacrifizio, c’è un monumento della Madre Patria, che non ha bisogno di altare perché è una preghiera impietrata e un’offerta inesausta e un’aspirazione sempiterna. M’ascolti? Piega la tua guancia sul mio petto affannato, mettimi l’orecchio contro il cuore e cerca di distinguere le parole che non son morte e che non possono morire. Te ne ricordi? Te ne ricordi? Ci ravvisiamo, ci colleghiamo, ci giuriamo insieme anche una volta come facevamo nelle caverne e nelle doline del Carso ancor nostro e sempre nostro per quella grazia che concede a tutti i fedeli il possesso del Sepolcro e a tutti i credenti il possesso della prima Cantica. Intendi? Dopo secoli e secoli Dante è tuttora in esilio, e l’Italia ha la sua prima Cantica di nazione vittoriosa. V’è la prima Cantica di Dante, che è l’Inferno; e v’è la prima Cantica del Fante, che è il Carso. Non odi il mio cuore? Non odi il rombo che il mio respiro fa nelle doline e nelle foibe del mio petto? Non distingui le parole che non possono morire? Ritroveremo l’amore che ci legò a quei sassi, che domò quell’asprezza, che fecondò quella sterilità: un amore d’inferno, un amore di dannazione, ma non senza speranza, ma non senza melodia. Sei tu contadino? O hai abbandonato, infermiere, la sostanza terrestre per la sostanza umana? O non più tratti il solco ma la piaga, non più la semenza ma la salute? Il Carso è la rivelazione sovrumana del contadino. Il Carso è la creazione ideale del contadino. L’uomo della gleba è strappato alla gleba e connesso alla pietra. Intendi? Dov’è il campo fecondo, dov’è il solco diritto, dov’è la siepe robusta, dov’è il fossato colmo d’acqua piovana, dov’è il fiato del bove e dov’è il fiato del cavallo commisti alla fumèa mattutina, dov’è l’agio offerto al lavoro, dov’è il sollievo largito all’ànsito e al sudore, quivi è il benefizio della Patria, quivi le ginocchia si piegano alla salutazione angelica della Patria. Ma l’aratore, il vangatore, il seminatore, il bifolco non ha più gli arnesi della sua fatica, sì bene ha in pugno le armi del combattimento senza tregua. Non più ha da conquistare la terra grassa, non più ha da proteggere il solco seminato. Ha da conquistare il sasso ostile, ha da insanguinare la fenditura sitibonda. Pone tutta la sua vita gonfia di vene contro la petraia senz’acqua, contro la dolina che non contiene un pugno di terriccio buono. Le schegge del sasso gli si conficcano nel corpo come le schegge dei proietti. La trincea non gli è rifugio, il camminamento non gli è rifugio, la caverna non gli è rifugio. Egli combatte senza riposo. Non vede innanzi al suo sforzo perpetuo se non deserto contro deserto, calvario contro calvario, sterpeto contro sterpeto. Egli vince, e la vittoria non gli vale. Vince dieci volte, vince undici volte; e le vittorie non gli valgono. Dov’è la Patria? Che è la Patria? È dietro di lui? È davanti a lui? È qui la Patria. È questa la Patria. Ci vuol sangue per fecondarla. La semenza non più è nel pugno; la semenza è nel cuore. E in ognuno di questi macigni c’è una statua italiana da sbozzare. E nella punta di ogni baionetta c’è il taglio dello scarpello.

Premi la tua guancia sul mio petto. Ascolta il mio cuore. Non riodi quel che udisti già? Non sei tu rimorso da quel che già ti morse? Non riconosci i colpi incessanti di un “rozzo martello in duri sassi”? E di chi è quel martello? E chi è mai quel liberatore che sprigiona dall’ossatura del contadino, dall’avarizia del contadino, dalla tardezza del contadino l’idealità eroica?

Intendi ora? Intendi? Il Carso è la più ardua creazione di tutta la guerra. Il Carso è la trasfigurazione ideale del contadino italiano. Che faccio io in questo letto di pena? Io idealizzo la mia vita penosa; ma qui non faccio se non secondare la consuetudine del mio spirito. Il contadino mal nutrito e mal calzato ha avuto la virtù d’idealizzare la guerra carsica; ha avuto la pazienza attiva d’idealizzare la sua pena muta, il suo martirio oscuro. Ha considerato e accettato la gloria di morire per una bellezza e per una grandezza senza confini nomata dal nome della Patria. Coi legni del suo aratro ha fatto la sua croce, e col ferro del suo vomere ha fatto la costanza del suo patimento e del suo combattimento. Ha portato la sua croce di calvario in calvario. Ha lasciato nel sudario la sua imagine. Ha chiamato Veronica la sua Vittoria velata e ansante.

Ricercami nel cuore le parole che non morranno. Ecco. La pietra non soffre gradina e scarpello; ma il centurione accosciato sopra un’asse traversa, taciturno sotto l’elmetto bigio, in una bolgia dell’inferno carsico, intento da dieci ore a reggere con le due pugna il pistoletto percosso in ritmo dalla mazza di ferro che l’introna o a togliere col nettamine la polvere bianca dal calcare forato, dove non è se non aridità e periglio, dove non è se non maledizione e sete, par magnanimo come il Buonarroto che combatte contro il masso per liberare la creatura bella del suo dolore e della sua vendetta.

Non mi ricorre se non la sublimità del Buonarroto, non mi ricorre se non la sublimità dell’Alighiero, nel ricordare a te, nel ricordare agli Italiani il Golgota sublimissimo di tutta la grande guerra.

Ma non è da elevare una croce su quel vertice. Su quel vertice è da elevare un aratro. Il soldato ignoto è crocifisso all’aratro. Crocifisso all’aratro, egli attende la resurrezione.

Victoriae testis et divini pignus amoris.

L’amore, il sacrifizio, la vittoria, le più grandi cose dell’uomo e del dio, non hanno bisogno di solco fertile per germinare; ma esse medesime fecondano il più ignudo deserto, la biancana più arsa.

Ho sete, fratello. Io non merito se non il fiele.

Te ne ricordi tu? M’eri tu ancóra vicino? Non hai in mente quella caverna buia, nella dolina che fu poi nominata dalla mia bandiera, non hai in mente quella caverna dove tenemmo consiglio?

Eravamo nel chiuso; ma la volontà di tutti soffiava verso l’altra cima, batteva già il Faiti come un vento implacabile. Eravamo accosciati sul sasso di quella cripta selvaggia, tenendo la bandiera spiegata su le nostre ginocchia come se fossimo per ricucire gli orli col filo intriso nel sangue del cuore devoto. Un solo mozzicone di candela ardeva a terra; e si consumava rapidamente come l’ultimo cero sul triangolo di ferro che sta nell’ufficio delle Tenebre. Si consumava per affrettare la deliberazione tremenda, per sollecitare il sacrificio divino. Vacillava; e non v’era animo che vacillasse. Tremolava; e non v’era animo che tremolasse. Ma coi guizzi e con le ombre serviva a rendere più crudo, fra mento e fronte, l’intaglio del proposito in quei volti ossuti. Quando si spense, ciascuno ebbe la sua luce in sé. Tutti balzammo in piedi, primo Giovanni Randaccio. Nessuno lasciò il lembo della bandiera. Com’egli s’incamminò primo verso l’uscita, trasse ciascuno pel lembo che ciascuno teneva stretto nel pugno.

Che mai nella vita può valere quel brivido di compagni giurati? E, se in quel punto io fossi stato colpito, non sarei morto nella più pura grazia?

La granata non mi colpì; mi coperse di schegge. Potei scrollarmi e seguitare illeso pel mio cammino. E tutti i fanti carsici sanno quel che di me disse e quel che per me fece di poi Giovanni Randaccio; e quel che di poi m’avvenne e gli avvenne.

Su per le groppe del Veliki nettato, l’Austriaco tirava all’uomo. Te ne ricordi?

A un tratto scorsi due uomini coricati sul sasso.

Ritrovami nei precordii quel che dissi dei fanti. Dissi che non erano carne.

E altro dissi. Io medesimo, nel guardarvi, ero distrutto dalla passione, ero un soffio. M’apparivate una forma del volere sovrumano, un impeto senza peso, una offerta saliente come un pugno d’incenso gettato nella bragia. Voi, gente dei campi, gente dei mestieri, gente d’officina e d’officio, villani, operai, borghesi d’ogni parte e d’ogni arte inselvatichiti come appostatori da spelonche, voi che addentate la pagnotta e tracannate il fiasco, voi che vi accovacciate nella tana sudicia che sa di fogna e di sepolcro, voi che non potete lavarvi il muso se non col vostro sudore o nel rigagnolo, voi gente lorda e greve di sotterra, voi in quel punto non eravate se non fiamma celere, non eravate se non anima splendida, come in un Resurressi.

Ritrovami nei precordii l’inno senza corde e senza organi.

I due fanti proni erano due assetati. Erano arsi dalla sete inestinguibile come sono arso io ora. Ma io avevo in me l’anima di quell’uomo dalla mano secca sanato da Gesù contro il divieto del sabato. Io credevo avere nella mia mano risanata il filo di fraternità filato dagli angeli. E anche avevo nella mia imaginazione commossa la mano di Giotto, che sembrava dipingere in me e intorno a me i miracoli di Assisi. Quei due uomini, così parchi di disegno e sobrii di colore e quasi santificati dalla linea dell’infinito, non erano creatura dell’arte assisiate?

Distesi entrambi sul ventre, intentissimi come se fossero in punto di rapire l’ultima stilla della salute eterna da una pila d’acqua benedetta, cercavano nel cavo della pietra sublime alcune gocciole d’acqua piovana rimaste. Cercavano di non perderne alcuna, di non dissiparne alcuna. Si sforzavano di suggerle attraverso un filo di paglia; e le loro ciglia palpitavano su quell’avidità delusa e agguatata dalle occhiaie lapidee della morte.

Lo scoppio prossimo di un’altra granata coprì il suono del mio passo. Le schegge di metallo e le schegge di pietra si moltiplicarono intorno e s’irradiarono. Vidi i due uomini abbracciarsi strettamente e imprimersi nel suolo mortifero, a cuore a cuore, a faccia a faccia, a sete a sete, a commiato a commiato, a speranza a speranza.

Ebbi la riprova della mia interna verità mistica. Lo spazio tra me e quei miei fratelli fu abolito. Non i miei piedi lo percorsero ma lo superò il mio spirito senza peso. “Nessuno di voi è ferito?” chiesi. Erano tuttora abbracciati. E, come mi videro in piedi e tranquillo, balzarono. Uno s’accorse che il mio sguardo era fisso allo scarso luccichìo delle gocciole; e mi porse il filo di paglia perché io cercassi di cattarne qualcuna.

Vuol bere?”

Una fonte subitanea mi s’aprì alla cima del cuore e m’inondò la gola. Era l’acqua generosa della pietà e della grazia? Era il fiotto del pianto umile e onnipotente?

Tesi la mano. L’uomo dalla mano secca tese la mano sanata, non per accettare ma per donare. Baciai quei due uomini, e li avviai verso la salvezza, e andai verso il mio cómpito.

O fratello, fratello, l’uomo dunque non medita, l’uomo non pesa se non il valore del bacio di Giuda? E non conosce dunque il valore di nessun altro bacio d’uomo a uomo, e di nessun altro sguardo d’uomo a uomo

Il mio fratello mi annienta.

Michele Giglio si lascia cadere in ginocchio, e contiene i singhiozzi ma non le lacrime. «Perdóno! Non so esprimere quello che sento. Non so dire quel che ti debbo. Ti amo tanto. Ti amo tanto. Ti amo come amo la Patria mia cara...»

Che dici? Che dici? Non hai pietà di questo povero occhio infiammato, percosso un’altra volta, un’altra volta pesto, dove il pianto acre non può più passare senza che io urli di spasimo?

Dopo aver udito quel che hai detto, non giova più vivere. Conviene voltarsi verso il muro e spirare.

Me come la Patria cara! Sei un contadino, sei un marinaio, sei un operaio, sei un poverello di Cristo, sei un poverello d’Italia, sei un uomo di ieri, sei un uomo di domani, sei la creatura nuova della nuova Italia?

Non rimanere in ginocchio, ché non riesco a ritrovare in me la forza di snodare i miei piedi piagati e le mie ginocchia piagate per inginocchiarmi con te, davanti a te.

Ho potuto io credere che l’amore non sia amato?

Non io, non io; ma l’amore.

La mia gente pietosa m’ha detto che l’altra notte un legionario fedele, calato dall’alpe di Trento, fu sorpreso nel gran piangere davanti alla soglia ch’egli non aveva osato varcare. Rialzato e consolato, egli non chiese nulla, non volle nulla. Confessò che, non visto, era venuto a pregare per colui che soffriva. E soggiunse: «Non mi vergogno, perché do tutto quello che ho. Non mi vergogno, perché offro tutto quello che posso offrire. Non mi vergogno, perché la mia offerta non può non essere accetta a colui che amo e che voglio servire

Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà. Ora posso dissetare l’amore del mondo con stille molto più numerose di quelle rimaste nel cavo della pietra carsica.

C’è chi piange e prega nella mia casa abbandonata, nelle mie capanne d’Abruzzo, nei rifugi della mia montagna, nelle chiese, negli ospedali, nelle officine, dove sono combattenti ridivenuti agricoltori, mutilati ridivenuti artieri, volontarii ridivenuti servitori d’ogni bella causa fraterna.

Non amate me, non me. Amate l’amore; amate l’Italia bella, piangete per l’Italia triste e invitta.

O infermiere d’un infermo che non dorme, se mi guardi nel viso, mi riconosci come nel Vallone del Sangue, come nel Calvario della Sete, come nella Trincea dell’Aspettazione?

Non senti che a un tratto le mie ossa grandeggiano e le mie vene rumoreggiano? Di nuovo la stirpe intiera si commuove in me, come quando – te ne ricordi? – mi bastava entrare nel duomo di Cividale e intendere il ritmo di Pietro Lombardo per sentire tutta la nobiltà della mia origine.

E più mi umilio in me e più la mia gente s’ingigantisce in me.

Ci sono soldati della mia terra d’Abruzzo, ci sono mutilati del mio popolo, ci sono contadini miei usciti non dai santuarii delle litanie ma dal santuario del Carso? Vogliono entrare? vogliono guardarmi? vogliono riconoscermi? Vogliono compire in me la nostra antica tradizione, la nostra superstizione antica e salutare? Vogliono cogliere un filo della mia anima come nella prateria d’Abruzzo il viandante coglie un rametto di menta selvaggia e lo fiuta «per vedere la Madonna in punto di morte»?

Lasciali entrare. Accompagnali al mio capezzale.

Vieni, fatti vicino. Il miracolo mi snoda. Posso tenderti la mano. Accòstati, Pietro Delloso. Sei contadino di Guardiagrele? Mi porti la prima neve della Maiella? Mi porti da baciare la croce processionale?

Non mi rispondi? Ah! Sei mutilato di tutto il braccio destro e della mano sinistra, Pietro Delloso. Fosti ferito a San Martino del Carso il 18 luglio 1916? Io non avevo più quest’occhio. Io avevo su quest’occhio una benda nera. Ma, di nascosto, cercavo già di ricostruire la mia ala. E lo seppero le tettoie austriache di Parenzo.

Ero sopra Parenzo il 13 settembre, tre giorni prima che tu fossi ferito sul Dosso Faiti, o Serafino Tancredi, o contadino di Teramo, tu che non puoi più seminare con la mano sinistra ma che puoi sempre seminare con la destra e gettare la semenza sempre più lontano, perché sento che t’è cresciuto l’animo nel polso nella palma e nelle dita.

Avvicìnati, Berardino Peccina, appròssimati anche tu, vieni a toccarmi. Se tu mi tocchi, o contadino d’Arischia, o agricoltore dell’Aquilano, se tu mi tocchi tu mi benedici. Hai perduto la gamba destra sul monte dei Sei Busi? Scoprimi. Guardami questa mia gamba destra. La rotella del ginocchio esce fuori dalla piaga. Ti viene in bocca il nome di San Rocco? Credi che m’abbia morso un cane? M’ha morso nell’ombra, a tradimento, il nero cane rabbioso del Destino. Vedi che ho il fùsolo scoperto? Vedi che questa noce mi sanguina e mi arrossa tuttora le fasce? Ma se tu mi tocchi e mi benedici, rifaccio l’osso, guarisco, cammino. Non è il monte dei miracoli il monte de’ Sei Busi?

Vedo il monte tremendo o vedo la montagna materna? La Maiella mi riprende e mi riserra e mi riallatta. Sono anch’io contadino. Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento.

C’è chi apre i miei libri? C’è chi consulta le mie pagine?

O la mia aspirazione risorge dal profondo? O la mia orazione ritorna dal passato?

Madre, Madre, da che oscurità debbo io rinascere?

Non temete, fratelli della mia terra. Non vi discostate dal mio letto dove omai non posso più se non rinascere o rimorire. Ho udito anch’io il grido, ma non so se sia sfuggito dalle mie piaghe.

Sono alla foce del mio fiume, sono con mezzo corpo nel sabbione del mio fiume; e mia madre è , accosciata, che pare vi prenda radice, che pare vi si abbàrbichi per sostenere tutta la sventura della sua gente e della sua contrada. I suoi occhi immobili sono senza risposta. La sua fronte china è remota come l’ultima neve della Maiella che sporge laggiù in forma di mamma...

Non temete, fratelli. So che deliro, e domino il mio delirio.

Ho sete, ma non domando, ma non voglio se non una gocciola di quell’acqua piovana ricercata lassù, nel mio calvario, dalla paglia di quei due uomini sperduti, dalla pazienza di quei due uomini ritrovati.

Dal profondo! Dal profondo! De profundis! Tutto ritorna dall’abisso vivente, dall’abisso ardente.

Se io, leso come un qualunque altro combattente, col mio occhio spento che non si ricorda d’aver goduto un privilegio nel guardare il mondo e non si presume più prezioso dell’occhio d’un qualunque fante contadino, se io soffro d’aver dato così poco e voglio dare di più e mi metto la mia tunica di pelle e la mia cuffia di cuoio e salgo nella mia carlinga coi miei compagni e vado a mitragliare da vicino il nemico e sparo tutte le mie cartucce, e neppure per un attimo nel rischio ho il pensiero che il mio cervello valga più di quello del mio pilota e che la mia vita a prua valga più di quella del piccolo soldato ritto nella torretta a poppa, se io mi anniento nel coraggio senza nome, se io faccio l’abnegazione di tutto me nella volontà della battaglia, se io mi umilio nella patria e mi esalto nella patria dismemorato e ignaro, io sono un figlio dell’Italia nuova, io piglio la croce dell’Italia nuova, io servo la causa della mia anima vera...

Chi parlò così? Chi parla così?

Non ha nome. È senza nome. Non ha figura. È senza figura.

Dove sei, Michele Giglio? Dove siete, o miei ceppi e dentali e nervi d’aratro sementino, fratelli miei d’Abruzzo potati e fruttiferi?

Siamo tutti senza nome. Siamo tutti senza figura. E se siamo nell’ombra, e se siamo nella notte, e se siamo nell’ora folta che precede l’alba, non possiamo chiamarci a nomescrutarci nel volto. Ma ci ritroviamo. Ma ci ritroveremo. Ma ci riconosceremo. Ma, anche nel crepuscolo del Giudizio Finale, riconosceremo e italianamente rimescoleremo le nostre ossa logore o stronche.


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