Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comento meditato a un discorso improvviso

XI IL DIARIO DELLA VOLONTÀ DELIRANTE E DELLA MEMORIA PREVEGGENTE

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XI

IL DIARIO DELLA VOLONTÀ DELIRANTE

E DELLA MEMORIA PREVEGGENTE

La sibilla senza volto viene a quando a quando presso il mio capezzale cruccioso; ma i miei due dottori sono presso di me quasi in perpetuo, il Seràfico e il Cherùbico, guardie del Sepolcro, annunziatori della Resurrezione. Noverano i miei palpiti, interrogano il mio pallore, misurano il mio respiro, raccolgono i miei sospiri, lavano le mie piaghe, ungono le mie lividure, fasciano le mie ossa dolenti, raddoppiano i miei vincoli tristi.

Quando dunque m’incamminerò anch’io per la via di Emmaus? Quando li scambierò io per due discepoli in cammino? Quando mi accosterò a loro e mi metterò a camminar con loro?

Uno d’essi nei suoi ragionamenti mi ripete, come in vista del castello: «Tu solo non sai le cose che sono avvenute in questi giorni

È vero. Io solo non so.

Ma questi miei due custodi, se sono guaritori del mio corpo, sono discepoli del mio spirito. Se l’uno si china sul mio petto, l’altro si china su la mia fronte.

L’uno si chiama Francesco d’Agostino, e porta provvidenzialmente nel suo nome i due santi della mia carità e del mio ardore. L’altro si chiama Antonio Duse, e porta provvidenzialmente nel suo nome veneto più nobiltà spirituale che s’egli discendesse dal più insigne sopraccòmito della Guerra di Chioggia.

Entrambi hanno raccolto le mie doglie e i miei pensieri, le mie tristezze e i miei presagi, le mie impazienze e le mie umiliazioni.

Anche qui parlo dal profondo, parlo di dalla coscienza, non so se da un luogo di più gran luce o di più grande oscurità. Non io scelsi, non eglino scelsero. Essi trascrivono. Essi rivelano me a me stesso. Essi convertono il mio dolore in bagliore, la mia carne miserabile in parole ansiose.

Leggete.

Il 17 d’agosto io guardo i dottori e li chiamo «dottori della vita e maestri celestiali».

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Perché rimanete qui? Pensate alle vostre notti, come io penso alla mia notte. Non volete che ci separiamo? Non io vi ho trattenuti. Non io vi trattengo.

«Rimani con noi, perciocché si fa sera e il giorno è già dichinato

Volete e potete ancor leggere in me al crepuscolo? Che è dunque inciso in me? Ditemelo. Rivelatemelo.

Diciotto agosto.

Vedo un poco di luce nelle pieghe della tenda. La lampada è spenta. È già l’alba? E fra poco sarà l’aurora?

S’è svegliata l’Aurora di Michelangelo?

Ho sete; ma io non posso dissetarmi se non a quel seno scolpito.

Sono stanco, sono sazio di tutti questi piccoli vasi agevoli che voi mi cacciate fra le labbra; sono stufo di queste bevande notturne e diurne che voi mi propinate. Il dolore non ha bisogno che gli sia propinata tanto comoda argilla, ma sa esso foggiare l’argilla, ma sa esso imprimerla a similitudine della sua potenza.

Il pollice non mi duole più. Le articolazioni delle dita non mi dolgono più. Il polso m’è restaurato. Sono scultore stamani. Comando che mi sia riaccesa la fornace.

Non voglio spegnere la mia sete se non nella novità dell’Aurora.

Oppure spremetemi il grappolo intatto di Ronchi nella coppa vuota della mia medicina.

E discostate le tende. E apritemi le finestre. Ma non le aprite, se il giardino non sia diventato selva, se il lago non sia diventato mare, se il colle non sia diventato alpe.

Sono vivo? Sono semivivo?

In quest’ora ci sono Compagnie di Lavoratori su i monti della Santa Guerra.

Lavoratori d’Italia, se siete desti all’alba, uditemi. Stamani le mie ossa sono i balaustri della mia ringhiera.

Lassù, nella Marmolada, a più di tremila metri, c’è una Compagnia di Lavoratori, che raccoglie le salme degli eroi ignoti o dimenticati.

I morti inspirano il prodigio ai vivi. Quella Compagnia è la dodicesima. Trasporta le salme di ghiacciaio in ghiacciaio, supera i ponti aerei di ghiaccio fra cima e cima. Della sua propria fatica e della sua propria carità fa cento ali angeliche. Non soli gli Angeli traslàtano di lido in lido le arche delle sante Vergini e dei Martiri beati. I fanti superstiti traslàtano di vetta in vetta i resti degli eroi.

Sopra le croci del cimitero di Valparola, sopra le croci del cimitero di Fiammes, sopra quelle di Andraz, di Lavarone, di Bressanone, sopra quelle che sono infisse nel nome di Francesco Fadda o nel nome del Generale Cantore, cade la rugiada celeste, cade la rugiada eterna che per l’eternità «pugna col sole».

Lustravitque viros dixitque novissima verba.

L’Aurora michelangiolesca dia mano alla falce e tagli tutti i roseti. Sacrifichi i roseti alle croci.

Non importa che il pastorale fiorisca all’ombra della mitria vescovile. Ma stamani la Patria si sveglia e vede fiorire la croce piantata su la fossa dell’eroe senza figura e senza nome. Insperata floret.

Diciannove agosto.

Io voglio aiutare i morti a esprimersi. Anche se io debba a uno a uno prenderli in me e con la virtù del mio amore rigenerarli e inspirarli, io voglio ch’essi apprendano a esprimersi. Voglio che il soldato ignoto si esprima e ch’egli sforzi il marmo del suo sepolcro e scoperchi il suo monumento e deluda i portatori di aròmati vani.

Per quanti e quanti secoli l’Italia non aveva più potuto esprimersi come nazione intiera e unanime ma soltanto in alcuna voce e in alcun segno?

S’era nazionalmente espressa nel Rinascimento? S’era nazionalmente espressa nel Risorgimento?

Oggi io rinserro nei musei tutti i suoi capolavori per vivificare e per ricelebrare l’incomparabile capolavoro della sua espressione: la sua guerra.

La sua guerra non è se non uno sforzo d’espressione, quale non fu veduto mai in moltitudine d’uomini armati o disarmati.

Per ciò metto il Buonarroto ai massi del Carso, metto l’Alighiero nelle bolge del Carso. Soltanto il Buonarroto è capace di riscolpirmelo. Soltanto l’Alighiero è capace di trasfondermelo in una Cantica anteposta alla sua prima.

Disperatamente, e speranzosamente, dall’ombra di un argine del Piave, ci fu qualcuno che gridò: «Che c’è da gettare alla grande fiamma? Getteremo tutto, se è necessario: anche le tavole più sacre

Ci fu uno che nel medesimo fuoco del pericolo, dinanzi a una giovinezza che non chiedeva se non di sublimarsi nella morte bella, gridò: «Uditemi, Italiani, figli d’Italiani. V’è più valore ideale in un elmetto di ferro liscio che nel morione cesellato da Benvenuto, in due braccia di panno bigio che nel piviale di Enea Silvio, in una mitragliatrice precisa che nella colubrina di Alfonso d’Este lavorata come un pomo di daga

Ci fu uno che arditissimamente gridò, sentenziò, scolpì col ferro del suo pugnale rozzo: «A compiere l’opera che oggi il destino ci commette è necessario un potere più alto di quello che si palesa nelle mura degli Scrovegni e nel gesto del Colleoni

Chi fu quell’uno? Non importa. Fu il coraggio senza nome. Lapidatelo. Vi riscaglierà il sasso, con la fionda: con una buona fionda di Sardegna, che egli ha pur sempre in serbo e sa pur sempre maneggiare.

Credete che io deliri? Credete che la fronte mi bruci e che il cervello mi divampi e che la mia lava contenuta si riversi per le mie suture aperte?

Mi bagnate con l’acqua fredda le bende? Mi spruzzate le tempie e il viso? Ma sono in me; non sono fuori di me. Mi sento asperso da una rugiada che non è quella delle croci e non è quella dei roseti.

È necessario che io sia placato, che io sia moderato. Parlo con troppa veemenza. Rompo i suggelli che mi furono messi alle commettiture della bocca.

Ma anche la mia bocca fu percossa e si gonfiò di dolore inespresso. È gonfio tuttora il mio labbro dal lato destro? O la mia bocca è più profondamente incisa?

Un tempo a questo profondato disegno mi riconoscevo figlio di non so qual musa laurìgera e vocale. E guardavo mia madre, e mi confrontavo a mia madre pensierosa e dolorosa; e le dicevo: «La mia Musa sei tu. Tu mi hai portato. Tu mi hai allattato. Non in Elicona, non in Pindo, non in Parnasso, non in alcun altro monte canoro tu m’hai nutrito; ma nella tua Maiella, che non è per noi se non una grande preghiera solitaria sopra tutte le preghiere dei suoi Solitarii. Tu mi hai abbeverato nelle acque della Pescara e non nel Fonte Castalio. Ma tutta la tua vita, ma tutta la tua forza e tutta la tua melodia tu le hai raccolte nel mio lato sinistro, le hai adunate dalla parte del cuore, dalla parte della pupilla che tuttora vede e pènetra...»

No, non mi turbate. Non mia madre piange. Il pianto di mia madre non può più essere versato in questa terra. Ogni sua stilla è più preziosa agli Angeli del Cielo che non fosse a quegli uomini del Carso una gocciola d’acqua piovana nella coppa di sasso. Si metterebbero carponi, si colcherebbero, si stenderebbero, per raccoglierla, per cattarla.

C’è qui certo un’altra creatura, che piange e col pianto si vela.

L’Aurora s’è levata dalla tomba e s’è adagiata su la nuvola. Non posso più raggiungerla.

Ecco che sento tutti i cimiteri di guerra, nell’altura e nella pianura, scrollarsi e spostarsi.

È disceso dalla volta della Sistina il Profeta che più amo e più ammiro e più leggo? Imparo da lui che la fede smuove le montagne e suscita i sepolcreti?

Non imparo. Ricordo e so.

Sul più glorioso calvario del Carso ho infisso un aratro? L’ho io stesso condotto sino alla cima, con l’arte dei miei padri aratori. Con la mano valida, col polso fermo, sollevavo il coltro di dalle ossa dei morti, di sopra alle ossa dei morti.

Questo polso mi s’è slogato? Questa mano mi s’è stronca?

M’imponete di tacere? Sapete che, quando parlo, soffro? Sapete che, quando respiro, soffro?

Ho il costato destro contuso. Ho la grande lividura dolente come la piaga.

O Francesco, tu mi rinchiodi? Ti ricordi quando riconducesti, attraverso la laguna insensibile, il mio occhio perduto? Ti ricordi quando la sentenza fece impallidire tutti intorno a me e non me?

Ora il colpo è iterato? Ora la sentenza è rinnovata? Ora i ceppi sono ribaditi?

Allora i miei ginocchi e i miei piedi erano congiunti e serrati e fatti immoti dalla mia volontà. Ora me li serrano le fasce. Ora me li costringono le bende di Lazaro.

Tu sai la cosa orribile. Io la so. Sul limite della battaglia, per moltiplicare il numero dei cadaveri, per aumentare le mercedi pattuite contro le casse funebri, i provveditori segavano per lo mezzo le salme e d’ogni salma facevano due e bilanciavano il peso della metà con altro peso immondo: talvolta con carogne di bestie, talvolta con zolle, talvolta con ghiaia.

Il mio lato destro è spento, è sanguinante, è piagato, è fasciato, è tormentato.

Francesco, Francesco, so la tua pietà d’uomo. So la tua fermezza di sapiente, nell’incisione e nella recisione.

Non credere che io deliri. Sono in me. Attanaglio tutto me con la mia volontà d’acciaio. E la tenaglia da taluno fu anche chiamata cane. E io ho un nero cane che s’accovaccia ai miei piedi ogni notte.

Può esso nell’abete bilanciare il peso della mia metà.

Francesco, dottor seràfico, Antonio, dottor cherùbico, conviene che tutto questo lato destro estinto e inutile mi sia risecato.

Il sinistro mi basta. Il cuore continuerà a vivere e il pensiero continuerà a creare.

Con un sol piede, con un solo vestigio, camminerò nel cammino di Emmaus.

Uno dei discepoli ripete al viandante misterioso: «Tu solo non sai le cose che sono avvenute in questi giorni

Saperle mi vale?

Non meglio mi vale sapere le cose che avverranno domani? Saperle ed esprimerle, e dominarle.

Quando Lazaro solleva il ginocchio fuor del sepolcro, egli si esprime più che se gettasse il grido immortale della sua resurrezione.

A me voi comandate l’immobilità. A me raccomandate il sonno, e la quiete dei pensieri.

Io vi dicevo dianzi: «Voglio aiutare i morti a esprimersi

Questo ginocchio ferito, quest’osso di fùsolo messo a nudo, questo malleolo schiacciato, tutto questo dolore che si scarnisce e s’impoverisce, ecco, io lo sollevo con la mia volontà.

Non v’è cagione d’inorridire. Così mi esprimo. Questa è la forza, questo è il rilievo della mia espressione. Io medesimo mi faccio risuscitatore del mio Lazaro.

Ora taccio. Non parlo più. Non disubbidisco più.

Mi basta che il dolore mi obbedisca. Mi basta che le mie ossa mi sieno sottomesse.

Fide et patientia.

Venti agosto.

Dunque l’Italia sa che io sono di nuovo piagato e inchiodato?

E anche l’Italia sa in che modo e in che luogo e in che tempo, come i miei dottori?

L’alba è nata? Il nuovo giorno è nato?

La fronte mi riarde? Mi togliete la corona di spine e mi cingete una corona di foglie?

Non ho dormito. Il sonno che non chiude le palpebre è come la morte che non affila la sua falce.

Il nuovo giorno lenisce la mia sete e culla la mia tristezza.

Ora anch’io so. Tutti sapevano e io non sapevo? Tutti si ricordavano e io non mi ricordavo?

Oso raccontare, oso rivelare.

Stanotte l’insonne era accusato. Era accusato d’un delitto inumano. Era accusato d’aver voluto imporre al suo grande popolo, alla sua grande Patria «la legge di creazione e la volontà di espressione»!

L’Italia ha creato la sua guerra. L’Italia s’è espressa nella sua guerra. L’Italia ha raggiunto il più alto calvario di tutta la guerra terrena. L’Italia ha attinto il vertice della bellezza eroica e con quel vertice ha superato tutti i vertici dei suoi secoli.

Il verbo non è dunque per me fatto sangue, non è fatto carne, non è fatto ossa?

Chinatevi. Mettetevi a origliare, ad ascoltare.

«Quei fanti che stampavano la creta fulva di Oslavia, e quelli che pestarono la poltiglia grumosa del Podgora, e quelli che si invescarono nel mastice rossastro del Carso, tutti – dal San Michele al Montenero, dal Vodice all’Ermada, da Tolmino al Pecinca, da Sagrado a Plezzo, da Plava a Doberdò, e i nomi vittoriosi soverchiano la misura del clipeo di Brescia – tutti, dai ghiacciai del Cevedale alle fonti del Timavo, dai primi che cincischiarono i reticolati con le pinze e con le forbici sino agli ultimi che straboccarono pei varchi aperti dalle bombarde schiaccianti, tutti sono gli eroi della più travagliosa battaglia che su la “fronte unica” si sia combattuta per la causa dell’uomo libero

Stanotte l’insonne era accusato di aver risvegliato l’Alighiero presso il San Michele, di aver risvegliato il Buonarroto presso il Faiti, di aver scambiato l’aratro con la croce, di aver rivendicato la sublimità di un eroismo oscuro fra tutti gli eroismi illustri, di aver ricollocato sopra i popoli ricchi il popolo povero che non soltanto ha patito ma ha superato la legge di tutti i sacrifizii redentori in terra.

No, non m’interrompete. Se io deliro, il mio delirio mi sale dalle fenditure della mia terra non conosciute neppure dalle bisce e dalle vipere.

Mi lamento io forse? Insorgo io forse contro il castigo?

Non potete più illudermi. Non potete più ingannarmi. Non potete più velarmi l’orrore della mia caduta.

Voi dite che c’è nella notte chi s’inginocchia davanti alla mia soglia, e chi prega per me, e chi piange per me senza nominare il mio nome?

Non sono caduto come un arcangelo folle né come un angelo stanco. L’Italia m’ha gettato dalla rupe tarpea, m’ha precipitato dal monte della cieca giustizia. M’ha sospinto dalla parte del costato sinistro perché io urtassi il suolo col costato destro, con l’anca destra, con la spalla destra, con la gota destra, con l’occhio spento, con il sopracciglio che sostenne la durezza della mitragliatrice di prua, con l’orbita che la sperimentò, con la spina dorsale che irrigidita fu calcata dal colpo contro l’osso del cranio.

Le campane del Campidoglio non hanno sonato. Il bronzo di maggio non ha vibrato.

Vi sembra che mi basti aver cambiate le fasce, aver medicate le piaghe, aver rinnovata la medicina amara?

Strappatemi le bende e strappate le tende. Spalancate le finestre. Non mi contrastate la mia alba. Mostratemi il mio nuovo giorno; e mostrate me stesso al mio giorno stesso. Ut valeam.

Non chiedo altro. Non chiedo null’altro. Non chiedo neppure un fiore scempio.

Ho allontanato da me qualunque bagliore di gloria. Non più amo la gloria; e m’è cruccio e m’è vergogna averla amata, averla seguitata. L’ho troppe volte veduta esporsi a mal uso; troppe volte l’ho veduta concedersi ai vili o ai falsi; troppe volte l’ho veduta incoronarsi di fieno da stabbio in luogo di fronda casta; e troppe volte l’ho veduta agitare sceniche palme verso colui che stava per essere tradito e condotto al supplizio.

Non più amo le mie venture di capitano. Le chiavi delle città e le chiavi dei cuori mi son più fide quando io le abbia gettate in fondo al mare che so fendere.

Non ho nessuna ambizione di signoria, né di lode, né di favore, né di ricchezza. Escito povero da Fiume, tagliai per lo mezzo con la mia spada il mantello che il memore soccorritore delle mie fatiche interrotte m’aveva gettato su le spalle non curve. Lo tagliai per dividerlo coi miei ultimi compagni. E, se io m’ebbi la parte più scarsa, non fu errore dell’elsa e della lama; fu volere della mia bontà coperta.

E nello stesso modo io taglio e taglierò ogni mio mantello di verno come di state. Né io lasciolascerò io cadere dall’alto dell’arcione il lembo donato, ma l’umilierò nell’umiltà e l’infoscherò nell’oscurità; ché io ho venduti a gente d’aratro i miei cavalli d’arme.

Ventuno agosto.

È condannato alla notte colui che non incomincia a sentir rivivere le sue vene se non col primo brivido dell’alba?

Toglietemi le bende dal capo, e serratemi le tempie con una corda perché non mi scòppino. Siatemi per una volta «dottori di gladiatori» come vi chiamerebbe Valerio Massimo. Non mi soffocate quest’ansia di combattere, e non mi nascondete le mie ferite.

La pena del mio insonnio stanotte è stata vegliata con me dal mio giovine pilota di San Nicolò, da Alberto Barberis, dal pilota del mio SIA 9 B risuscitato anch’egli come Lazaro, ma non dalla sua arca scoperta, sì bene dalla sua ala infranta.

È il 21 d’agosto? Siamo soli, nel nostro Adriatico. Dirizziamo la prua verso il cielo di Pola. Non abbiamo scorta. Siamo soli con le nostre ali, con le nostre mitragliatrici, con le nostre bombe e con la nostra beffa. Andiamo a sfidare il nemico, andiamo a sfidare la nostra sorte. Siamo due cuori sicuri, e abbiamo lasciato dietro di noi tanti cuori ansiosi.

O compagno, non sei venuto a liberarmi? Non sei venuto a risollevarmi? Il più vasto spazio non è quello della morte?

Sei più pallido. Siamo più pallidi d’allora. Rinasciamo dalla nostra solitudine di allora o dalla pallidezza di quest’alba senza diana?

Respiro il mistero. Mastico il mistero. Rumino il mistero.

Se io potessi dire una parola che commovesse un vecchio millenario, se io potessi dire una parola che commovesse un giovinetto sedicenne, quale vorrei dire?

O Francesco, tu mi riconficchi nella mia croce. Ma tu mi inchiodasti e ribadisti non so più quanti secoli fa. Dieci secoli? Venti secoli? E sembra che tu abbia appena trent’anni.

Veramente credi di avermi condannato a rimanere immobile come quando non ero se non uno «scriba egizio» nelle mie tenebre?

Io viaggio, io veleggio come Ulisse. La mia nave è nera ma ben costrutta.

Il lago stanotte dev’esser alfine divenuto mare. La mia ansia beve la salsedine a lunghi sorsi. Ho in mano la scotta. Faccio io la manovra, come nelle acque di Corinto, come nelle acque del Monte Cònero.

La pietà di mia madre mi ha ripreso non su le ginocchia ma nelle sue braccia infaticabili. Per rinfrescare la mia anima e le mie vene, ella imita nel cullarmi – come soleva – il movimento della prima onda marina.

Si ricorda che nessuna branda mai mi piacque come un mucchio di bandiere marine? come un fascio di fiamme da pavesata?

Ma non sei tu, non sei tu che mi rimetti sopra le ginocchia rotte il sacco funebre dove sono raccolti i brandelli della bandiera lacerata e maciullata dal «trecentocinque» nella dolina, ai primi d’ottobre del 1916?

E chi dunque?

I brandelli del drappo, le schegge e i chiodi dell’asta, la lancia contorta sono omai separati dal tritume della carne e delle ossa.

C’è una lettrice mattutina qui? O è una figlia melodiosa di Mnemosina?

Ritremo. La mascella mi batte, e l’orbita mi duole.

«Se avessi tenuto su le mie braccia il corpo esangue di mia madre, se avessi tenuto su le mie ginocchia il corpo straziato di mio figlio, avrei forse potuto domare il tremito della mia vita. Ma di quel tragitto dalla dolina al vallone, con quel fardello più sensibile del sangue che ribolle e riarde a miracolo nelle teche dei martiri, me ne ricorderò fino alla morte, oltre la morte

Non posso fare omai altro tragitto che dalla morte alla vita, dalla notte all’alba.

Ma le ho anche stamani, fra la luce e le tenebre, ben le ho confitte nel cuore le schegge, confitti ho i chiodi nel cuore, i brandelli profondati nella carne come quei pezzi di grigioverde che restavano nelle ferite; e ho la lancia nel costato, a manca.

Madre mia, sei tu che mi sollevi, sei tu che mi liberi? Sei tu che mi ricopri con la bandiera nuova?

Nondimeno tu sai che, prima di me, ricoprì più d’uno.

Tremo sempre. Mi dissanguo nell’alba. Tingo l’alba. Ne faccio l’aurora.

Mia madre mi parla? per la bocca della sibilla velata?

«L’Ave – che viene da te – sia quello delle altezze, non quello delle pianure

Madre mia, madre mia, quanto sei bella,

se tu non ridi!

E come bella sei,

o madre, se tu ridi

celando la tua stella

nel tremolio dell’alba sopra i lidi

ove ti bei

col Figliuol tuo, del suo Dolore ancella!

Non io vivo. La mia madre in me vive.

Non io soffro. La mia Patria in me soffre.

Dottor seràfico, dottor cherùbico, spiegatemi voi questo, se potete. Ecco i miei tre anelli. E le mie dita sono diventate scarne.

Perché questi due anelli, donati in vita, mi sono larghi e sul punto di abbandonarmi?

Perché questo anello – che è una «fede», che è la sua «fede» – passato al mio dito di vivente dal suo dito di morta immortale, perché mi serra ogni giorno più? perché sembra cercare attraverso la carne lo scheletro, e stringerlo nel più segreto patto spirituale al conspetto dell’eternità?

Spiegatemi voi questo, miei dottori.

Lo spirito mi balza. La vita mi si allarga fino agli orizzonti che non ho mai toccato. Una potenza apollìnea mi rapisce. Tutti i miei vincoli sono spezzati. Tutte le mie piaghe sono cicatrici che splendono.

Fate le vostre prove. Scopritemi. Esaminatemi.

Dico il vero.

C’è chi mi uccide, e c’è chi mi rigenera.

La stirpe non è per me una figura informe e innumerevole. La mia stirpe ha una faccia che io riconosco, una voce che io distinguo, un gesto che io interpreto.

Eravamo su per il Veliki, all’assalto. I fanti mordevano l’azzurro. Ma l’azzurro mi rosseggiava. Mi pareva che tutti avessero il mio cuore per insegna vermiglia.

Ed ecco, odo alla mia sinistra un accento d’Abruzzo, un suono di terra natale. Il linguaggio natale mi riaffluisce alla gola, alle labbra. Chiamo, grido, interrogo. M’è risposto. M’è dato il rude e fiero «tu» paesano e romano.

E tu chi si’? e tu chi sei?

I’ so’ D’Annunzie.

Tu si’ D’Annunzie! Gabbriele!

Lo stupore spalancava la bocca del piccolo fante.

E chi stifa’ a ècche? Vàttene! Vàttene! Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te muore, chi t’arrefà?

Non fui dunque sempre rifatto da mia madre, col medesimo viso, col medesimo cuore, cento volte? Non fui cento volte ritagliato e rifoggiato nella sostanza della stirpe? Cento volte, chi mi vide partire non fu certo di non rivedermi più? Tutti i miei ritorni non sono rinascite? La più tremenda delle mie carlinghe – quella che nel cielo dell’Ermada, nel cielo d’agosto che oggi voi mi contendete, somigliava a uno spaventoso crivello – non mi fu poi culla che cullò il rinato?

Mia madre m’ha raccolto a piè della rupe tarpea; m’ha stagnato il sangue; m’ha inspirato nella gola il soffio; m’ha baciato le ferite; m’ha medicato.

E ora mi riscolpisce in un macigno della Maiella; nel sasso della mia montagna, nella pietra del mio eremo visitato dall’aquila.

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Tre settembre.

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I miei arditi conoscono il mio passo. Veloci erano prima di aver me per capo e per guida; ma sul Carnaro ciascuno meritò l’epiteto omerico destinato ad Achille.

Nulla aveva ed ha della eguale disciplina alemanna il mio passo di combattente e di assalitore, così come un disegno del mio Pisanello non somiglia a uno di Hans Holbein. Non imita l’automa ligneo e metallico; ma rivaleggia colla pantera e col leopardo. Non imprime nel cammino il duro tacco, ma sfiora lievissimamente il suolo. La sua celerità pieghevole si accomuna all’aria piuttosto che alla terra. Risparmia la terra e fende l’aria. È simile al passo che precede lo spiccare del volo. Fa divinare l’ala segreta.

Ho tuttora le pastoie stamani? Ho le mie gambe di leopardo saldate l’una contro l’altra? Sono un povero dio umiliato e prigioniero?

Ma c’è stamani in tutto il mio corpo non so qual rimembranza che sembra quasi aerarlo e alleviarlo e renderlo immune dal peso.

Dottore, che è mai il tempo? che è mai lo spazio?

Io dico il vero «tempo» esser quello che coincide con quella specie di tempo agguagliato alla fluidità stessa della nostra vita interiore.

Non è oggi il trigesimo della mia riapparizione alla ringhiera civica?

Era la notte del tre agosto. Era per me l’anniversario della prima incursione sopra la piazzaforte di Pola. Non rievocavo l’inferno dei proiettori, delle batterie e dei razzi fumìgeni che a prua mi avevano rasentato la faccia e mi avevano permesso di fiutarli. Rievocavo il mio ritorno estatico lungh’esse le coste dell’Istria. Rievocavo l’atrocità della guerra, rievocavo la cerchia orrenda, rievocavo il rossore e il tuono, la volontà di distruzione e l’ebrezza d’abnegazione, divenuti a un tratto uno spazio spirituale come quello che soltanto possono valicare il sogno e l’ode.

C’erano compagni, c’erano seguaci ; e c’erano sollecitatori, c’erano incitatori, c’erano imploratori , intorno a una mensa fraterna che mi ricordava alcuna mensa di guerra. E, non so perché, mentre era seduto di contro a me una delle mie giovani aquile dal lungo volo, non so perché io riudissi il singhiozzo straziante di Gino Allegri: quel singhiozzo subitaneo che tutti ci aveva turbati, nell’altro convito d’agosto, quando io avevo accennato al passaggio del Piave, al nostro passaggio sopra le linee e alla visione dei nostri luoghi santi, alla visione aerea di tutti i nostri carnai, di tutti i nostri cimiteri, di tutti i nostri calvarii, di tutti i nostri santuarii profanati dal nemico...

La coscienza è determinata come un torace d’uomo? come questo mio povero torace maculoso?

La coscienza umana è un mistero profondo, è un labirinto difficile, che comporta ogni più acuto e più ostinato sforzo d’interpretazione e di penetrazione. La coscienza non può essere stimolata da necessità o da vanità umane; non può essere governata se non da regole sovrumane.

Mi comprendete? Se non volete che io parli di voi, se non volete che io parli dei prossimi, parlerò di me. Vi lascerò entrare nel mio petto attraverso questa lividura che sembra un varco azzurro.

Le forme della mia mente e i moti del mio sentimento non si manifestano mai in un ordine preveduto, in un ordine prestabilito, né secondo un ritmo fatidico o dedotto, né secondo una scala di valori. La veemenza consueta della mia vera vita non può essere accelerata se non dalle invenzioni fulminee del mio spirito, se non dalle novità subitanee dei miei pensieri.

Restavano intorno alla mensa attoniti i miei compagni, e taluni afflitti e quasi piangenti, dinanzi al mio volto chiuso e severo.

In me tutto era fatto silenzio. Il mio stesso cuore aveva un battito silenzioso. Il mio stesso fiato non disserrava i miei denti.

«Uomini mi aspettano? Uomini mi chiamano? Uomini invocano la mia verità? Io ho bisogno di rimaner solo. Io ho bisogno d’interrogare il mio dèmone. Io ho bisogno di provare il mio passo. Uomo non posso andare verso uomini, per un officio di fraternità, per un’opera d’amore, se non varcando un puro spazio spirituale. Serpere nescit

Comprendete? Chi può mai pensare che il messaggero di Maratona sia morto di fatica? Egli non aveva se non uno spazio spirituale da percorrere. La sua via non poteva essere se non dentro di lui. La sua via era la sua lena.

Questo divinano gli eroi. Questo gli eroi sanno.

Riapparvi allora. Senza parlare, presi la via ch’era dentro di me.

Mi guardate. Nei vostri occhi scorgo quasi sempre il riflesso del delirio temuto, dell’impeto aborrito.

Se oggi voi mi giudicate infermo, ero infermo anche allora. E non ero infermo in me ma in tutta la mia gente. La mia ansia era respirata dal popolo, la mia arsura era patita dal popolo, la mia umiltà era secondata dal popolo. I segni del mio male si propagavano all’aspettazione della creatura innumerevole e unanime: signa aegritudinis Patriae.

, nella guerra, una sera, alla vigilia di una grande azione, vennero a chiamarmi perché io andassi ad arringare la Brigata Sassari già in assetto di battaglia, già destinata alle nuove trincee. Mi chiamava un eroe del mio sangue, un compagno della mia infanzia, un conterraneo del parentado di mia madre, Gabriele Berardi, già promesso alla morte gloriosa; e m’avvertiva come io fossi per parlare a isolani che forse non avrebbero interamente compreso il mio linguaggio. «Che dici? Se parlo a gente mia di Sardegna, per loro salgo alla Barbagia e per loro dalla Barbagia discendo. Ma uomo parlo a uomini. E tra l’isola e il continente più non v’è il mare. E il modo della mia voce è il dorico, sempre inteso dal coraggio virile

Andai a piedi. Il mio passo era quello che precede lo spiccare del volo. Il cammino era in me, come la spina del mio dorso.

E un’altra volta fui chiamato ma da una voce irriconoscibile, nell’ora della rugiada, in quell’ora quando l’anima non è contaminata da alcuna grassezza di carne, secondo il detto del Beato.

Era di settembre. Era un’alba di settembre incoronata come un’alba d’aprile. Mi levai con un sussulto simile a uno squillo. Fiume era divenuta la mia Patria vera, la mia sola Patria; e non aveva umile muro che non mi paresse costrutto dalla melodia di Anfione come la città di Pindaro e difeso dalle trombe come in Gerico. E imaginavo che Dante non avesse profuso in nessun luogo della sua terza Cantica tanta luce quanta nel suo Carnaro.

La solitudine del Lazzaretto, la collina di Peclin, era la più luminosa delle cime, la più gloriosa delle mète.

Che valeva la vigilanza contro la volontà? Che mai valsero le guardie contro il Risorto?

Solo escii dalla mia soglia. Solo raggiunsi la chiostra lontana.

C’era una strada? c’era un’erta? c’era un cancello?

Non c’era più spazio; non c’era più celerità di passo; non c’era divieto; non c’era periglio. Tutto era agevole; tutto era aereo; tutto era mondato.

Tutto era come nella leggenda mistica; l’abbraccio fraterno mondava il lebbroso.

E la collina, dove s’adunava la mia gente colpita dalla peste, pareva non so che imagine musicale. Mi faceva pensare a quella cittadella che Platone voleva fondata musicalmente «con modi destinati alle corde della lira».

Se pure, come nella città forte di Megara, lo stesso Apollo avesse posato sopra la pietra del limitare la sua lira delfica io non sarei stato dalla risonanza divinamente commosso come fui dalle semplici parole dei reclusi, pronunziate senza maraviglia, senza trepidazione, senza riconoscenza palese: «Comandante nostro, vi aspettavamo

La medesima salutazione mi fu ripetuta da tutti gli appestati che si scoprivano perché io toccassi le loro enfiature mortali. «Fratello, ti aspettavo

Quale altra salutazione angelica, di quale bronzo consacrato, in quale ora solenne, può rapirmi l’anima come quella mi rapì e tuttora mi rapisce nella memoria?

Mi avete inteso? Ero nello stesso stato di grazia, ero nel medesimo rapimento, ero nella medesima immunità da ogni peso e da ogni ingombro, ero nella medesima levità alata, quando mi mossi per salire alla ringhiera, per affacciarmi alla ringhiera.

La moltitudine aveva lasciato per me una via bianca che mi pareva d’aver già percorsa, con le processioni della mia razza, verso il più antico dei miei santuarii, carponi, ginocchioni, segnando di croci con la lingua dolente il suolo miracoloso.

E sopra la calca, sopra le case, nel cielo della piazza illustre, scorgevo un bagliore che non era quello degli astri: un bagliore sanguigno che aveva forma di cuore immortale e pure sonava a martello come una campana escita dal forno fusorio tuttavia rovente.

E a piè della scala mi soffermai, e mi stropicciai la pàlpebra dell’occhio superstite; ché mi sembrò di vedere una pozza di sangue, ch’io dovessi traversare o superare. «Ma dunque, se il fratello può abbattere il fratello, se il sangue fraterno non ha prezzo, se il fratricidio può esser commesso in ogni capo di strada, in ogni proda di campo, in ogni pietra di focolare, quanto pesavano le mie lacrime nel mattino del Natale di sangue, allorché m’inginocchiai davanti alla salma del primo ucciso, di Mario Asso, e lo copersi di quel lauro che più non volli né più voglio né mai più vorrò per me, e non gli chiusi gli occhi ma li fissai con tanta dedizione del mio dolore e del mio amore che n’ho per sempre trafitto il cuore dai lunghi cigli come dalle spine del Golgota

L’ardore della gioventù raccolta sollevò il mio mistero. Nondimeno mi sorgevano dal mio mistero parole immemorabili, imagini indescrivibili. «Stette nel luogo la notte; perciocché il sole era già tramontato; e prese pietre del luogo, e le pose per suo capezzale. E sognò

La grande scala era tutta animosa e radiosa di giovani, che parevano tornare a me dai miei battaglioni dalle mie squadre dai miei equipaggi.

«Ed ecco una scala rizzata in terra, la cui cima giungeva al cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano per essa.»

Gli angeli di Dio risalgono al cielo; ma i giovani annunziatori dell’Italia nuova, i giovani messaggeri della Patria futura, i promessi alla potenza futura e alla bellezza futura, scendono per la scala della visione.

«Italia, Italia, ti spanderai verso Occidente, e verso Oriente, e verso Settentrione, e verso Mezzodì; e tutte le nazioni della terra saranno riconciliate e riconsacrate in te, e nel tuo Genio

Al contatto con le cose e con le creature, il mio mistero lirico si squarciava e si ricomponeva. «Tutto rimpiccioliscono gli uomini mentre tutto ingrandiscono i fati

Per andare verso l’aspirazione degli uomini, per andare a gettare verso gli uomini la semenza di fede raccolta in fondo al mio coraggio e al mio patimento, io dovetti passare fra le tavole degli scribi, fra le sedie della sinecura, fra gli inchiostri della menzogna e della frode.

Ecce homo.

In mezzo al gran mucchio di carne commossa dall’anima, sopra quell’immenso velario umano dove la nudità dei volti era luce della mia speranza, sopra quel clamore contenuto che m’era come l’inizio di un canto corale, io intravidi una statua che parve mi s’offrisse imperiosa per essere da me riscolpita e ingrandita.

O Intelligenza! O Conoscenza!

Cantava prima di me, verso le stelle, la figlia di Mnemosina?

Vivesti solo su la cima

ultima della Conoscenza,

sol tu capace

di respirarvi, imperiale

come il sire della vita e della morte,

lungi agli uomini e pur sì presso a loro,

vedendo il male passare, la speranza

durare, la pace seguire la guerra,

il sogno condurre il lavoro,

ma senza felicità e senza

corona perché tu sapevi

che nata non era dalle arti

umane la gioia onde avresti

tu potuto gioire e nato non era

dal sen della Terra l’alloro

onde tu avresti potuto incoronarti.

Il canto corale era forse per travolgermi?

Una tromba invisibile squillò.

Nel silenzio la santità dei padri parve incidere una antica preghiera. «Non la tromba chiediamo. Non ci vale oggi se non un solo strumento: la parola che rivendica la libertà, la parola che porta la pace

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