Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Comento meditato a un discorso improvviso

XII PERCVSSVS ELEVOR. CONTVSVS EXVLTO

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XII

PERCVSSVS ELEVOR. CONTVSVS EXVLTO

Undici settembre.

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È l’alba, è l’alba. Non me la nascondete. Voi non potete nascondermela, come voi non potete domare la mia febbre. La mia febbre è raggiante come una eroina che sia nata dal mio rogo inestinguibile.

Sono io morituro? sono io spento? Ma la mia gran febbre eroica mi sopravvive.

Posso tutto udire. Posso tutto patire. Io non amo più la gloria, non più voglio la gloria. Ma, se un nome debba essere congiunto al mio, eleggete questo, incidete questo: l’Invitto.

Parlatemi. Non impallidisco. Non rabbrividisco. Quel che voi mi celate, io so. Quel che voi mi tacete, io indovino.

Non voi soltanto avete palpato il mio corpo sanguinoso. Non voi soltanto avete noverato le mie piaghe. Non voi soltanto avete ascoltato il mio petto oppresso. Non voi soltanto avete sollevato sul mio occhio rioffeso la palpebra illividita. Non voi soltanto avete ricomposta la mia mascella intorno al mio ànsito senza gemito.

Io sento. Io indovino. Io so.

Era necessario che così fosse. Era necessario che in questa ombra fosse ripetuta la parola che risonò presso il letto di Giovanni Randaccio.

«Che si può fare?»

«Niente altro che attendere

Così aveva risposto il salvatore invocato. Così deve aver risposto.

E in quel giorno di morte e di ascensione io lo avevo cercato, io lo avevo chiamato, il salvatore. Io lo avevo sollecitato e accompagnato, il sentenziatore.

Sapevo che laggiù, in qualche padiglione bianco, sotto qualche tenda crociata, pei campi e per le vie della guerra, come un nomade insonne, viveva un genio di sapienza e di misericordia armato di ferri miracolosi.

Lo cercai d’asilo in asilo, di rifugio in rifugio, di tristezza in tristezza, ostinato. Udii nuovi lamenti, vidi nuove piaghe, conobbi nuovi martirii.

Lo trovai a Gabrije, in fondo al Vallone del Sangue.

Era di poco trascorso il mezzogiorno. Era l’ora breve del suo riposo. Parte della notte e tutto il mattino aveva lavorato nella carne dolente dell’uomo. E lo trovai chino su la sua tavola, con tre libri: uno aperto e due chiusi: il Convito di Platone, la Tragedia di Macbeth, i Canti di Giacomo Leopardi.

Era bello ch’egli risalisse dalle profondità dello spirito per venire a visitare il nostro compagno sublime.

È bello ch’egli sia venuto a visitare, dopo più di cinque anni travagliosi e coraggiosi, è bello ch’egli sia venuto a visitare un altro compagno, un compagno umile ma fedele.

Perché volete ch’io ignori?

Ero inconsapevole? ero fuori di me? ero nel fondo del buio?

Ma io sentivo la morte della mia carne, senza spavento, come quando fanciullo mi compiacevo di abbandonare il mio peso inerte al flutto del mare perché mi sbattesse contro i banchi di sabbia come sbatte i resti dei naufraghi.

Sì, lo so. Le mani sapienti e fraterne di Raffaele Bastianelli mi hanno toccato come toccarono il corpo di Giovanni Randaccio che era già inerte e insensibile dalla cintola in giù e che già non aveva quasi più polso e che già si raffreddava a poco a poco.

Anche a me avete tagliato le fasce? Anche a me avete ricontate le ferite, avete riscoperto i mali?

Il mio corpo non mi vale se non quando lo costringo a superare il limite umano. Il mio corpo non mi vale se non quando lo costringo a seguire lo sbalzo smisurato del mio coraggio.

Lo sento, che si raffredda anch’esso a poco a poco.

È il gelo dell’alba? O v’è, oltre il gelo dell’agonia, il gelo della risurrezione?

I mutilati della mia terra non hanno collocato a piè del mio letto un aratro senza fallo?

Mia madre ha disteso su me la grande bandiera del Timavo, che alla Quota 12, alla Cava di Pietra, ripiegata servì di guanciale per l’eroe moribondo.

È grande, ma non mi pesa, ma non mi opprime né mi seppellisce.

Non ho io dormito stanotte con tutti i miei morti ch’essa ha ricoperti? Non ho io dormito coi quattordicimila morti del cimitero di Ronchi? Non ho io dormito con tutti i miei morti del Carso e dell’Alpe?

E non posso anch’io aggiungere alle sue macchie di sangue e di sànie il mio sangue e la mia sànie?

Toglietemi le fasce. Sbendatemi.

Non voglio il lenzuolo degli infermi, il lenzuolo pallido dell’ospedale. Voglio che la bandiera del Timavo, che il làbaro del Fante, che il Sudario del Sacrifizio mi copra solo.

Ho su la mia febbre la mano fredda di Giovanni Randaccio. Egli non più mi domanda, con le labbra bianche presso il mio orecchio chinato, non più mi domanda il farmaco liberatore.

Ma quel farmaco mi sia portato, mi sia restituito.

È nella custodia di acciaio damaschinato dove gli archibusieri tenevano l’esca asciutta.

Lo voglio qui nella mia mano offesa ma invitta, come voglio a piè del letto l’aratro e sopra me la bandiera.

Non vedete che Natale Palli è entrato silenziosamente con l’alba?

Se la gioventù d’Italia oggi mi guarda, non voglio che qui mi guardi se non per quegli occhi più chiari e più fermi che gli occhi della stessa Pallade.

Nel lungo volo tre volte il mio motore si arrestò: su Lubiana, su la selva di Ternova, su Grado. Tre volte ebbi nella mano questo rimedio di tutti i mali. Tre volte a me che lo salutavo silenziosamente attraverso lo schermo, i puri occhi di Natale Palli dissero: «Aspetta.» E tre volte il motore riprese.

Bisogna che io renda immortale quello sguardo fraterno. Bisogna che io ridica la sua bellezza infinita come tutto il cielo. «Che cosa mai, nel mondo, vale quello sguardo pacato e forte fra due compagni fedeli, a tremila metri sopra la terra? Che importa se, come in quel punto del cielo ostile, oggi io sono solo con la fede del mio volere

Lasciatemi solo. Lasciatemi per la mia sete scegliere fra questo farmaco eroico e il grappolo di Ronchi spremuto nel calice della medicina molle.

Ma, se io non debba rimaner solo con l’alba con la bandiera con l’aratro e col vittoriosissimo amore dei morti, voglio essere dalla gioventù d’Italia vegliato in quello sguardo della incorruttibile altezza. E non voglio udire nel mio silenzio se non due parole che possono a me essere umane e possono a me sembrar divine.

«AspettaFu quella del giovane fratello eroico.

«Fratello, ti aspettavoFu quella del moribondo racconsolato.




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