Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Messaggio del convalescente agli uomini di pena

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Messaggio del convalescente

agli uomini di pena

Uomini di pena, lavoratori, compagni, avete il viso pallido; e io anche ho il viso pallido, forse più di voi. Visitate l’infermo, confortate il convalescente. Tutto il sangue si raccoglie intorno al cuore fraterno?

Così sia. Mi ricordo che un giorno un ammonitore, mentre io concitato m’inchinavo dalla ringhiera e la moltitudine tumultuava nella piazza e i volti dell’aria lampeggiavano come sembianze del fato sinistre, mi ricordo che un ammonitore mi disse: «Non parlare se non hai il viso pallido, come suoli. Temo che oggi il sangue t’offuschi la lucidità dell’idea e ti turbi la giustezza dell’espressione. Aspetta

Credo ch’egli fosse, in quel punto, sagace e savio. E mi sembra che in voi oggi il pallore sia quasi un segno spiritale della vostra gentilezza, sia quasi un modo pietoso di agguagliarvi alla mia debilità e di offrire al mio sguardo intento non so che trasparenza consolatrice.

Tuttavia non v’è pensiero virile che eguagli lo splendore del sangue eroico, nel tempo del periglio estremo e del sacrifizio intiero, nel tempo che si consumò sul capo della Patria e che sembra rinnovellarsi.

C’è forse tra voi qualche giovine che rimemora taluna mia parola detta alla vigilia di una battaglia disperata. «Se il poeta vero è colui che non cammina se non nel suo proprio sangue, io qui senza ritegno vi parlo il mio linguaggio di poeta, per liberare il canto che è in voi chiuso e il coraggio che in voi anela

Diverso non sono, né parlo diverso. Ma il mio fervore umano è in me chiuso com’è chiuso in voi. Laggiù, nella mia guerra, c’erano garibaldini che nascondevano sotto il grigioverde la camicia rossa. Questa appariva a un tratto nello squarcio della ferita improvvisa. Non altrimenti vi furono martiri che mostrarono la fiamma della loro fede divaricandosi con ambe le mani il petto fenduto.

Col mio solo occhio io vi vedo dentro ardere. E sembra che voi vi assomigliate al convalescente, mentre il convalescente vi pènetra. La prima ora del mattino, candida e nitida, non è talvolta più bella della rubiconda aurora?

Non temete per me. Spiavate dianzi il mio passo; guardavate i miei piedi sopra l’erba. So camminare. Io stesso vi ho condotti nel mio giardino, e vi ho invitati a sedere in questo piccolo arengo di pietre vetuste e di alberi sani.

Piccolo è l’arengo rustico, in paragone di quello bastevole a contenere la libertà di tutta la gente adriatica. Ma il soffio del mio spirito non v’è meno assiduo e men vigoroso. E voi vedete, tra i seggi ricurvi, confitta nel suolo una reliquia solenne: questa consunta ma eloquentissima colonna divelta da una basilica litoranea dedicata a un martire che approdò in una barca senza remi guidando di dalla morte la sua propria salma esangue con la sua anima vivace.

Importa ch’io v’illustri questo segno? C’è tra voi gente di mare; e c’è chi scarica dalla stiva i carboni e i cereali; c’è chi conduce le chiatte da carico e quelle da passo e quelle di salvamento; c’è qualche apprendente, docile e studioso, con le impronte del mestiere e dell’arte nella mano. Non somigliate voi a quel santo navicellaio, senza alcun peso, senza alcuno ingombro consueto? E non vele e non remi bisognano ad accostare il lido benigno.

Uomini siamo; eppure ci sentiamo prossimi a una beatitudine insolita. Siamo uomini e artieri; e ci basta di considerare questa vecchia colonna, quasi dorata dalle preghiere e dagli aròmati, per sentirci inalzati da un sentimento religioso, che non è se non la reverenza per le cose più alte più nobili e più terse.

Sono io di ieri? sono di domani? Il mio pallore è rimembranza o divinazione? Le parole già proferite si perpetuano negli echi dell’avvenire? Questo breve arengo si allarga? Il vostro numero si moltiplica?

Stamani, nell’alba romana, raccogliendo nell’insonne mio cuore il vostro annunzio, ho detto a me stesso nel linguaggio di Roma: Novus exorior. Rivivo. E per me rivivere è vivere in tutto il passato e in tutto l’avvenire. La vita vera non è se non continuità e perpetuità. E io ho scoperta di dai tempi una eco che non affievolisce ma rinvigorisce la parola fertile.

Parlo a voi pochi? parlo ai superstiti? parlo ai morti?

«Misti al popolo schietto, nella libertà dell’arengo, abbiamo sprigionato l’amore sagace dai cuori più duri e più miserabili. Colui che ha un solo occhio ha veduto per tutti gli altri occhi; e tutti gli altri occhi hanno veduto per quell’occhio solo. E colui che è il fratello di tutti ha fatto a sua somiglianza fratelli innumerevoli. E il nome di fratello s’è rinnovellato come un virgulto che fiorisca o fogli; s’è candidato d’innocenza; è ridivenuto la più dolce e la più forte parola del linguaggio umano, una parola di comunione e una parola di coraggio, un legame dell’attimo e un suggello di eternità.

Spalla contro spalla, gomito contro gomito, un volere proteso, una fede compatta, un ardore unanime, e la stessa ansia della ventura, e la stessa passione disperata del destino, e la morte e la vittoria come i due rami di lauro e di quercia intorno alla spada corta dell’Ardito!

Compagni, chi dirà la nostra ebrezza dei grandi giorni e delle grandi notti? Chi mai potrà imitare l’accento delle nostre canzoni e la cadenza dei nostri passi? Quali combattenti marciarono come noi verso l’avvenire?

Tutto ardeva e riardeva, anche la mia malinconia; e non so che indistinta figura subentrasse al mio viso devastato. Ero come il mio compagno di destra, ero come il mio compagno di sinistra; ero come l’alpino, ero come il cannoniere. Mi accordavo con tutti, e tutti si accordavano con me. Altre volte avevo cantato a gara coi vènti e coi flutti, con le fonti e con le selve, e con tutte le creature e con tutti gli spiriti della terra; e non m’ero mai sentito un cuore così vasto e così lieve come cantando in coro con uomini pesantemente calzati. Non eravamo una moltitudine grigia; eravamo un giovine dio che ha rotto la catena foggiata col ferro delle cose avverse e cammina incontro a sé stesso avendo l’erba e la mota appiccate alle calcagna nude.

Eravamo liberi e nuovi.

La volontà di rivolta e la volontà di rinnovazione creavano in noi un sentimento di libertà non conosciuto neppure dai più rapidi precursori.

Non disobbedivamo a nessuno poiché obbedivamo all’amore.

Non prendevamo nulla perché tutto era nostro.

Avevamo versato il nostro sangue ed eravamo pronti a versare il sangue; ma sapevamo che il sangue non avrebbe mai potuto ricadere su noi, simile a quel getto di fontana che salì nell’aria e non ricadde più, confuso coi raggi eccelsi.

Abbandonati dalla vittoria sentivamo di essere vittoriosi. Costringevamo a vincere l’Italia che non voleva aver vinto.

Trapiantavamo il fiore della sua vita e il fiore del suo destino in un suolo fatto di duolo, cioè ferace come nessun altro.

Non soltanto trasponevamo i confini nel territorio, ma li trasponevamo nell’avvenire. Certo avevamo dietro di noi tutti i nostri morti, avevamo dietro di noi tutti i quattordicimila morti del carnaio di Ronchi e i cinquecentomila del Carso e dell’Alpe e delle ripe e delle lagune; ma avevamo davanti a noi i nascituri, più numerosi degli uccisi.

Compagni, lassù, laggiù, a settentrione, a oriente, lo spirito della vita nuova si travaglia nell’orrore. Qui si scrolla nell’ardore, si placa nell’amore.

Non v’è luogo della terra dove l’anima umana sia più libera e più nuova che su questa riva. Compagni, alla fine dell’anno mirabile, celebriamo questa creazione e preserviamo questo privilegio.

Dissi già una volta che, creata dall’amore, una volontà divina conduce le forze adunate in questa riva angusta per opporsi alla perversione e alla demenza del mondo. Nei nostri corpi miseri, nelle nostre anime umili, abitano e operano le forze eterne. E non siamo noi gli artefici della grandezza, ma una grandezza ideale trascende i nostri pensieri e i nostri atti, sovrasta a noi e al mondo. E tutto si compie secondo un’armonia imperiosa, per cui anche la sciagura e la colpa assumono una bellezza necessaria cioè creatrice.

Che valgono dunque, contro una tal volontà, gli smarrimenti e i tradimenti?

Possono i piccoli uomini vanitosi e presuntuosi compromettere una così grande causa?

Tutto rimpiccioliscono gli uomini mentre tutto ingrandiscono i fati

Voi ascoltate con non so che rapimento attonito. Queste parole di comunione e di coraggio valgono a collegarvi, mentre un giorno non valsero se non a separare quel ch’era già discorde e falso?

La risposta non vi schiude le labbra ma ve le disegna e quasi ve le suggella. Voi, che stamani eravate tuttora arsi dagli odii, steriliti dalle invidie, divorati dalle avidità, accecati dall’ignoranza, maledetti dall’ingratitudine, intenti quasi a disumanare la libertà e voi medesimi, ecco che ora sembrate ritrovare la vostra qualità umana con una meraviglia gaudiosa, e riconoscere il retaggio di bellezza e di bontà a voi tramandato dalla vostra stirpe, e rintracciare le vostre impronte nel suolo ancor molle di una civiltà millenaria a cui le generazioni non furono se non alluvioni viventi.

Oggi è un giorno coronato di simboli vittoriosi: è il 20 di settembre. Vedete voi quei virgulti spogli, poggiati alla colonna vetusta? Sono i lauri del Palatino. Sono i lauri raccolti sul Palatino da un fratello memore e inviati al mio capezzale «perché quivi sia da essi generata la più giovine ghirlanda».

Tutto nel mondo è indizio e annunzio. I virgulti sono senza fronda. La fronda sembra sia stata rósa dalla capra irta o dalla locusta stridula. Vedete? Non più amo le corone frondose. Alla mia fronte dura non conviene omai se non il serto scarno che all’ardore del pensiero si consumi come sermento. Né mi piace dissimulare, emulo di Cesare, la nudità del mio cranio ben commesso. Io so come voi cerchiate di scoprirvi la fenditura che fu creduta mortale. Non v’è coppomorione che siasi mai rinsaldato così presto sotto il fendente. Le guerre di religione mi tornano nella memoria? o entriamo noi oggi nella nostra guerra di religione?

Estraneo non può essere in questo arengo latino il linguaggio di Roma nel giorno anniversario in cui m’appare all’occhio minacciato la visione della quarta Roma. Si può qui pensare che la religio nostra non venga soltanto da religare che significa «legar stretto» ossia «socialmente vincolare», ma venga anche da relegare nel significato di raccogliere, di conservare, di rimediare, che è anche amare di più e quindi custodire i precetti i consigli le regole le pratiche i riti i luoghi i simboli e porre in atto le tradizioni del vero e del bene.

Cercate tuttora la fenditura della mia cervelliera d’acciaio? In non so più quale guerra di religione, un cavaliere imperterrito soleva dire: «Non v’è pensiero profano che possa penetrare per un qualunque fallo del mio elmetto.» Io seguo il vostro sguardo investigatore, e serbo tuttora nel mio senso la linea dolorosa della percossa; e vi dico: «Non v’è pensiero di paura, non v’è pensiero di cautela, non v’è pensiero basso d’alcuna specie, che possa entrare per l’osso incrinato della mia testa italiana. Siatene certi.» E anche vi dico: «Ho patito la più trista delle prove. Sono stato precipitato dalla rupe tarpea, quando le oche schiamazzavano sbigottite da non so che fantocci mascherati. Ho sentito l’osso fendersi. Ho sentito colare per le mie narici il succo del mio pensiero inespugnabile. Ma ho serbato fra tempia e tempia quel che uno dei miei padri chiama la religiositade dello intelletto

Nessuna corona mi vale. Voglio che ciascuno di voi tocchi e baci piamente questi lauri del Palatino. Se sono spogli e se somigliano verghe, eccomi pronto a essere battuto. Nunquam divellar.

Vedete come tutti siamo in questo mattino trasparenti! Anche il latino è trasparente; e voi lo comprendete senza traslazione. Gli allori divelti dal Palatino mi sembrano rivivere nel mio fiato umano come in un calore fertile. Ma il motto non allude a questi. Allude a me medesimo. Non mai potrò io esser divelto dalla mia terra, dalla mia patria, dalla mia sempiterna Italia. Non mai potrò io essere diradicato del mio luogo natale, del suolo che è quasi una qualità di mia sostanza corporale, del suolo vivo che può in me patire e gioire come la mia stessa carne; né mai potrò io uomo essere impoverito di radici o menomato di fibre fraterne. Nunquam divellar.

M’intendete? Penso a qualcuno, senza nome, che nel concilio di Trento invocava Iddio non perché diradicasse dagli animi le innate inclinazioni ma perché generalmente infondesse una sanità eroica. Non possono dunque gli Italiani rinnovare in Trento liberata ma non del tutto monda un concilio nazionale atto a determinare a confermare a ordinare le cose sacre che spettano alla guerra, alla vittoria, ai comandamenti dei morti, alle opere dei superstiti, alla disciplina, alla fede, alla costantissima lotta di pensieri e di opere, che non è se non una creazione fervida emersa dalla «concordia discorde» considerata come un modo della grande armonia? Comunque e dovunque fosse convocato il concilio, gli Italiani dovrebbero chiedere al loro Dio – come nel Tridentino – «una sanità eroica».

Ma non persiste, ma non resiste, ma non vige nel travagliato cuore di questa nostra Italia «una sanità eroica»?

Io ho sentito passare su me la sciagura di Caporetto; io l’ho sentita su tutto me, come se essa fosse per calpestare per infangare per sotterrare me soltanto. Fratelli, tornavo dall’aver ricondotto in patria attraverso il pericolo immenso della notte adriatica tutti i miei compagni, tutto il fiore della giovinezza alata d’Italia, dopo aver risvegliato nel laberinto di Cattaro il ruggito del Leone veneto con lo schianto delle mie bombe. Tornavo dalla profonda notte degli eroi ed ero preso nel crepuscolo livido d’Iscarioth.

È vero, è vero, uomini di pena, operai, marinai, contadini, è vero quel che dai Padri veggenti è sentenziato: non esservi se non un peccato mortale, un solo; non esservi se non una trasgressione imperdonabile della legge di Dio, una sola.

E mi chiedete quale? Venire a disperazione, venire a disperazione in sé medesimi, come direbbe Gregorio Magno.

Di questo peccato conviene che io m’incolpi, nella mia non prona umiltà.

E la confessione fu già fatta. Nella prima ora alcuno di noi desiderò perdere la conoscenza di tutto piuttosto che condannarsi a conoscere la cosa orrenda. Il buio della disperazione parve preferibile a quel lume sinistro. La disperata morte parve preferibile al peso di quell’abominio.

E da quella volontà di morte scampai come oggi da questa insidia di morte. «Se vi fu onta, sarà lavata. Se vi fu infamia, sarà vendicata. Lo spirito già soffia sopra la massa infelice, e la suscita

Bastò il mio pianto selvaggio a lavarmi. Bastò il mio dolore maschio a riarmarmi. Bastò il sussulto e lo scrollo della mia fede a trasfigurare in dodicesima vittoria la sciagura che aveva coronato di cipresso l’undicesima.

Così, o gente italiana, io dico che contro ogni congiura di uomini e di sorti l’Italia avrà la sua quindicesima vittoria: quella che sarà la sua vittoria ideale e immortale, quella che io vedo superare in bellezza marmorea la Nike di Samotracia e in perfezione bronzea la Nike di Brescia, quella che io già vedo in effigie sopra tutti i suoi altari, pur sopra i disertati o bruttati o falsati.

Consideratemi come l’Interprete verace. Postremus ille hominum divumque interpres... Consentite che mi ritorni alle labbra una parola, non d’orgoglio ma di devozione. «Se niuno fu mai profeta in patria, io sono in patria profeta

Sanguinante a piè della rupe tarpea, non ho disperato. Non dispero. Perirò serrando la mia speranza imperitura sul mio petto vuoto di soffio.

Ci sono anche oggi per la nostra terra branchi smarriti? Ci sono anche oggi mandre infettate che mi rinnovano al passaggio il brivido di Caporetto e mi rammentano quelle d’allora che «avevano tutte insieme un colore escrementoso e più non vivevano se non dal ventre floscio»? Ci sono anche oggi infezioni intossicazioni menzogne servaggi viltà decrepitezze ruine senza numero?

Ma l’Italia resiste, ma l’Italia persiste, ma l’Italia vige. A non so più qual creatura vigorosa, che mi piacqui assomigliare alla luna crescente, io diedi il motto: Viget dum pallida. L’Italia d’oggi può assumere un motto ancor più fiero: Viget dum sanguine tincta.

Paragonatela a quella, inerme e imbelle, di vent’anni fa, di trent’anni fa, quando «l’abito della servitù e della paura era diventato negli uomini di governo una seconda pelle». Paragonatela a quella dei tempi vili, quando un solo chiedeva le navi, un solo chiedeva le armi, un solo difendeva il retaggio dei secoli, un solo invocava l’orgoglio di stirpe, un solo denunziava la mal dissimulata servitù, un solo si sforzava di ristabilire ne’ suoi lineamenti essenziali l’imagine difformata della Patria. E il suo nome non importa, e la sua fama non vale.

C’è tra voi chi si ricorda? Le corone sacre intessute dalla fede taciturna non servivano se non

a crescere lo strame

su cui la frode e la paura

giaccion come buoi

stracchi ruminando menzogna.

Ma il dolore non disperava, ma la tristezza era sempre vigile.

Se dianzi rammentavo un concilio tridentino, rammento ora una corona tridentina.

Non piangere, anima di Trento,

la tua calpestata corona.

Dimentica il male, se puoi.

Non fare lamento.

La tua madre non t’abbandona:

ha il cuore profondo.

Passano i Bonturi

e il seguace lor gregge immondo.

Durano gli eroi

eterni nei fasti

d’Italia, e quel Dante che alzasti

nel bronzo, al conspetto dell’Alpe,

dura solo più che le rupi,

gran Mésso dei fati venturi,

signore del Canto sul mondo.

Passano i Bonturi

e il seguace lor gregge immondo.

Non piangere! Il mio cuore poté ripetere l’implorazione, dal fondo del petto piagato, verso quella pietà notturna che dai monti di Trento venne a lacrimare e a pregare su la mia non inghirlandata soglia. Il pianto occulto non è silenzio potente?

«Prepara in silenzio gli eroiEra così concluso il remoto canto.

Ma ci sono eroi che nascono dal silenzio e ci sono eroi che sono espressi dal clamore. Ci sono eroi tuttavia imprigionati nel silenzio come quelli del Buonarroto appresi nello scarpellato sasso. E ci sono eroi impazienti, come gli alberi dal fiore precoce e dal frutto precoce, i quali si lasciano rapire il gesto eterno dal tumulto fugace. E, se ho pianto e laureato i giovani fratelli uccisi dai ciechi fratelli sul Carnaro, ho pur pianto i giovani caduti ieri con su le labbra trascolorate il mio grido di risurrezione e di liberazione.

Nel tempo della mia adolescenza, quando mi distendevo su l’erba novella, credevo udire nelle mie tempie e ne’ miei polsi la melodia infinita della primavera. Non altrimenti la mia anima in queste ore crede udire da lungi e da presso il rombo della nascente vita eroica da me annunziata e da me promossa. Viget dum cruenta. L’una ebrezza primaverile non è dissimile all’altra.

M’intendete, uomini di pena? Spirito eroico è quello che nel tempo medesimo va incontro al più fiero dolore e alla più ardua speranza.

M’intendete voi? Come le creature di carne e d’ossa, tutti i mondi ideali sono fecondati dal gaudio ma generati dalla pena.

M’intendete? Se noi cerchiamo in noi le nostre fibre eroiche e riesciamo a farle vibrare, se noi ci sforziamo di vivere e di esprimere la nostra parte di volontà eroica, noi cooperiamo a uno sforzo che può non soltanto risollevare tutta la vita della nazione ma rifecondar quella dell’intiera terra.

Chi dunque parlerà? chi sarà ascoltato? chi sarà creduto? chi sarà obbedito?

Un suolo fatale, come il nostro, può esser travagliato non soltanto dai vulcani ma dai presagi sotterranei, dai vaticinii profondi. Non vi sembra udire dalle fenditure del nostro suolo stesso irrompere la voce che «enuncia le leggi necessarie a cui la nostra stirpe deve obbedire per ritrovare la sua potenza»?

Ho sempre imaginato che Eschilo dalla fronte rupestre interrogasse a quando a quando quella voce di sotterra e tentasse di modularla per la sua gente nella gran bocca della sua maschera tragica.

Gli Italiani non si ricordano che più d’una volta, fra la loro incuranza o fra la lor derisione, su la scena non eschilea l’amore del fato si manifestò nel lor linguaggio schietto.

«Che la vostra forza sia provata dal più gran pericolo, sempre.»

Il fratello eroico rispondeva: «Questo sia.» Il fratello eroico chiedeva: «Credete in me? nella verità e nella potenza della mia idea

Assentivano i seguaci: «Nessuno dubita. La nostra fede è intera

E quegli: «Ebbene, il gran pericolo è imminente. Lo affronto. Rompo gli indugi. Considero questa notte come una vigilia. Domani la mia parola sarà detta e trasmessa

E uno, più degli altri animoso, più degli altri fedele: «Ciascuno di noi è pronto

E quegli: «All’azione estrema

E il giovine: «A tutto, con voi, ora e sempre.»

E il gran fratello eroico e doloroso: «Per vivere, intendete?, per esistere! La necessità dell’azione ci stringe, c’incalza. Nessuna opera di vita può essere compiuta senza sacrifizio sopra un popolo. Né omai potremmo noi arrestare l’impeto iniziato. Ma accelerarlo bisogna; renderlo rapido, breve, unanime, vittorioso; sforzarlo in questa prova per una più grande, che tuttavia è prossima. Intendete? L’ora è giunta, anche per colui che nega: per il moribondo che non vuol morire

Queste parole, da una scena italiana, dinanzi a una folla italiana, or è ventitre anni, risonarono di da un basso strepito di oltraggi e di beffe; risonarono lontano, riecheggiarono nel perfido avvenire e nell’invido fato. Era il presagio della tragedia futura; era la visione della lotta luttuosa. L’eroe solitario inchinava l’orecchio verso il suolo in travaglio.

«Anche noi abbiamo toccato la terra, abbiamo interrogato la terra; ci siamo distesi sopra di lei, abbiamo udito romoreggiare le sorgenti, sotto la sua arsura, nella sua profondità... Essa vuol esser rotta, smossa, agitata, travagliata. È ancóra tanto ricca da poter nutrire il germe della più alta speranza. E se non le avessimo portato che questo, non sarebbe già un’opera feconda la nostra, un’opera di seminatori? La nostra terra spera. Non sentite voi l’angoscia della divina speranza in fondo a quella moltitudine che mugghia laggiù come un armento perduto? Se non avessimo suscitato che questa angoscia in lei, già avremmo dato di noi una testimonianza vitale. Non è la fame, non è la fame soltanto, che dovunque urla e tende le mani; ma è la rivolta contro l’intollerabile falsità che invade tutti gli organi della nostra esistenza, e li difforma, e li avvelena, e li minaccia di morte. Per vivere, per esistere, bisogna distruggerla. “Mostrami dunque che tu hai il diritto e la forzagrida l’avversario torvo. “Mostrami che tu sei una forza nuova e un diritto nuovo.”»

Non l’acredine opponeva l’eroe all’acredine, non il furore al furore; ma discioglieva l’una come conteneva l’altro. L’accento della sua confessione umana pareva approfondirsi come se egli fosse per trarlo da solchi sovrapposti, da radici smosse.

«Io ho vissuto per anni solo, nella mia casa nuda, solo con un pensiero dominante, solo con una verità inespressa. Io ho divorato in solitudine e in silenzio tutti i fumi del mio orgoglio, che mi soffocavano, finché non li ho sentiti dentro convertirsi in fuoco vivo e durevole, in turbine di passione. Allora mi sono gettato nel più folto della mischia. Il mio spirito non ha più conosciuto riposo. Io non ho più aspirato al bene dei giorni, ma a compiere la mia opera. Qualcuno di voi m’è stato compagno dalla prima ora; ed è testimone. Quella verità, nata in me al contatto con la terra, ovunque si propaga, penetra a dentro, turba, agita, solleva. La sua nobiltà è nella sua origine; la prova della sua resistenza è nell’ampiezza del suo cammino. Ora, nei secoli, non irrompe da ogni verità novella il diritto al sacrifizio che le è necessario per affermarsi? La mia fede stessa mi fa portatore ed enunciatore di quel diritto severo. Voi ne siete testimoni. Per esistere

Era l’ammonimento del coraggio, gridato alla stirpe nell’anno medesimo in cui essa concepiva «le reclute del ’99». Era il grido raccolto da colui che lo propagò nei campi di battaglia, nei cieli lacerati, su i ponti delle navi guerriere. Ai nati di quell’anno cieco e sordo, colui rivolse il suo canto senza lira come quello delle vendicatrici nate dalla Terra e dal Buio. «A voi posso alfine parlare così, quasi in un’ode non misurata. Ciascuno di voi sente quel che sa ogni eroe nel ratto improvviso: non essere la guerra se non un evento lirico, uno scoppio entusiastico della volontà di creazione. Entrando nella zona del fuoco, voi giovinetti colti ed incolti, voi nel primissimo fiore, voi ancor caldi del fiato materno, avete appreso in un sùbito quel che all’adulto non rivelano anni ed anni di pensiero studioso. Quel che Dante credette comprendere nel mezzo del cammin di sua vita, salendo di pena in pena e di lume in lume attraverso i tre mondi, voi lo avete intraveduto in un baleno di cigli. Nessun potere, né divinoumano, eguaglia il potere del sacrifizio, che si precipita nell’oscurità dell’avvenire a suscitarvi le nuove imagini e l’ordine nuovo.»

Così parlava colui, sotto un argine del Piave disperato, alle «compagnie dell’ultimo bando», agli «ultimogeniti della Madre sanguinosa».

Così colui parlava. «Eccovi in piedi, robusti e leggeri, bellissima cerna. Non v’è nulla che non sia nobile in voi. Il maschio artiere della razza vi ha formati in un’ora felice, con la sua miglior sostanza, col suo più netto vigore. Veramente l’antica elezione è fatta carne: gentil sangue latino

Intendete, uomini pallidi? Comprendete, uomini di pena? L’artiere della razza li aveva formati, quei difensori e vendicatori della razza, nell’anno stesso dell’annunziazione ardimentosa. Con il suo grido profetico egli aveva suscitato la lor necessità vitale e la vitale necessità della lor gente empia.

«Per esistere!» E l’eroe aveva fatto un gesto verso i suoi fratelli devoti come per raccogliere le loro volontà nella sua sola. «Tutto è dunque risoluto. Ciascuno è pronto

Allora un uomo dell’aratro e della falce, un bifolco che aveva intagliato il giogo con quella «spada corta» divenuta poi emblema di assaltatori fra lauro e quercia, un precursore delle Federazioni rurali, aveva assicurato: «Ciascuno secondo le sue forze, e oltre.»

Per l’anima mia! Per l’anima vostra! Non è questa una parola del Piave? non è una parola del Grappa?

L’eroe nella grande sala nuda del palagio romano aveva trasalito come quel combattente innominato su la riva destra del fiume sublime. «E oltre! Bella parola: la sola che convenga al nostro fervore. Ciascuno oltre le sue forze. Vi sono prodigi da compiere

Avete udito, uomini pallidi? Io so quali sieno oggi i prodigi da compiere, come in altro tempo io sapevo quali fossero da compiere contro il tradimento e contro la fortuna.

Prodigium canit, et tristes denuntiat iras. E voi respingete il passato? e voi v’incatenate al presente? e voi disconoscete il futuro? e voi rimanete impigliati nell’errore del tempo remoto e nel pregiudizio delle epoche morte?

Nulla di una grande stirpe vivente può cessare di vivere. Una stirpe costituita in nazione è una spiritualità unanime e infinita. Le voci delle sue origini si prolungano nel suo più possente avvenire. Costà, su codesti seggi di marmo, le vostre facce glabre sono tribunizie, sono consolari. Non ha parlato Vergilio, d’improvviso? Non avete voi interpretato senza sforzo e senza esitazione il suo latino? Ecco che vi traggo dall’errore del tempo. Ecco che vi foggio a mia simiglianza nell’unità che, secondo santo Agostino, è forma d’ogni bellezza: nell’unità dello spirito, che secondo me è condizione di potenza perpetua.

Prodigium canit. Ogni cosa antica d’Italia in me vive, in me si compone, da me si esprime. Dietro a me i millennii animati mi sono proprii come la mia stessa ombra, e davanti a me mi sono manifesti come le mie stesse visioni. Quando io sono intiero, quando io sono in armonia profonda con l’Universo intieramente rivelato e compreso, o uomini italiani, io mi sento erede di tutte le nostre nobiltà antiche e primogenito della nostra nobiltà nuova. E voi siatemi benigni a questa sorta di orgoglio mattutino. A un nobile poeta di Provenza, interprete e augure armonioso della sua gente, fu detto in un giorno d’amore e di gloria: «Tutta la tua gente nasce da te.» Non vi apro il senso di questo encomio conciso, perché troppo addentro ne tremo e ne ardo. Forse voi l’avete aperto. Ma nel silenzio di questi lauri del Palatino io colgo la parola che sola m’è destinata e m’è più cara di qualunque serto: «Tu nasci da tutta la tua gente

Ecco che la mia voce mi sembra mutata, come imagino dovesse parer quella dell’uomo frigio nel punto ch’egli risollevava la sua bocca dalla terra dove aveva praticato una fenditura per soffiarvi il suo segreto.

Siamo qui pochi, tra alberi silenti e tra pietre immemori? O non son io trasognato? Non son io, come Giano della Bella, «ragunato col popolo» e affrontato col destino?

Inconsapevoli, in questa vicenda di ombre e di raggi, siamo noi qui per formare l’inizio di un sentimento futuro o per condurre al suo apice di vita un sentimento già nato?

Il contadino che un giorno mi consentì di lavorare al suo fianco sinistro, dalla parte del suo cuore ricolmato e poi alleviato, il contadino della parabola d’amore, è fra i due tronchi; e mi porta, forse in dono augurale, quella zappa ch’io mi so. E mi sorride, forse ripensando quella sentenza di Dante, ch’io gli citai dal Convivio dopo avergli commemorato la santità della mia guerra: «Sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d’una bella spada.» Ma questa mi servirà a ben trapiantare e a ben governare i lauri del Palatino.

Il profeta del ’99, il battezzatore dei giovani eroi che dovevano cangiare il vagito in ruggito, gli dice: «Vieni dalle campagne, vieni dalle campagne senza termini e senza siepi. Non v’è dunque che morte e dissoluzione irrimediabile laggiù? Gli aratri sono senza vomero? Le falci sono senza taglio? La madre delle biade non darà più spighe, dunque? Spighe pesanti e uomini rudi, per la fame e per la guerra, darà ancóra...»

Questo a te dice, contadino. L’odi? Or è ventitre anni, in un dramma che fu incompreso e vilipeso, un tuo fratello senza nome annunziò il tuo avvento, rappresentò il rito romano dell’investitura agli uomini della gleba, il dominio della terra trasmesso agli inviati delle Federazioni rurali sul Campidoglio riconsacrato nel segno del vomere.

«Tutta la sollevazione delle campagne si è compiuta nel verbo del nunzio: La terra appartiene agli agricoltori. Gli inviati delle Federazioni rurali vengono a instaurare questa specie di Legge Sempronia, e non importa ch’essi abbiano il loro Gracco. La supremazia del contado oggi mi sembra giusta. Nel decadimento di tutte le classi, il contadinoforte, rude, sobrio, tenace, sano – non è oggi il migliore? Essendo il migliore, egli deve regnare. È giusto ch’egli regni

Ecco, o avversario riconciliato, ecco parole che alle reclute del ’99 sono pari in età e forse pari in ardire. Di dove vieni tu? Mi riconduci il delirio beato del mio letto di condanna? Vieni a sollevare il mio capezzale, come tanti fanti sono venuti, tanti che stavano immobili nella trincea nella dolina nella fòiba, rattratti, col dorso dalla parte del tiro nemico, con le scarpe nel pantano, con la belletta color di dissenteria fino a mezza gamba, , inchiodati nei mulinelli della morte avvampante?

Non temere. Non sono malato se non di troppo ardire, non sono pallido se non di troppa ansia. Se sei il contadino che ieri lavorò con me la terra sgombra, tu non puoi non essere anche il contadino che l’altrieri ascese con me il calvario combattendo, non puoi non essere il contadino che offerse alla mia sete qualche gocciola d’acqua piovana con una sua paglia che non vacillava nel rombo della morte.

Di quell’acqua, e di quella sola acqua ch’era acqua del cielo sovrano e acqua dell’umano sacrifizio, ebbe sete la mia anima vigile nelle mie ossa martoriate.

O uomini, l’infermità non è talvolta una sorta di trascendenza mistica?

Se io domani dovessi offerire non a me stesso risorto ma alla Vittoria rifatta dalla mia fiamma o dalla vostra, se io dovessi offerirle una coppa di alta salute e di sacra ebrezza, non solleverei dalla petrosa terribilità del Carso quella?

Era una tazza senza anse; e non io lavoro e appicco le anse. Mi bastano le due mani. E la Vittoria non può essere più tronca, non può più esser monca.

Ecco che vedo non so qual figura informe e bigia inginocchiarsi all’orlo della pozzanghera e cercar di raccogliere l’acqua motosa della pozzanghera nel cavo della palma per accostarla alla bocca lercia. E odo l’ironia miseranda della disfatta, il sarcasmo ignobile della sconfitta. «Haec est Neronis decocta, questa è l’acqua bollita di Nerone

Ha dunque una figura la menzogna tirannica che si sottrae, la viltà tirannica che si nasconde?

Non so perché tanto mi piaccia oggi il latino e mi sembri che voi l’intendiate come la lingua natale della vostra nobiltà, e mi sembri veder apparire su queste quattordici colonne e pur su i tronchi di questi alberi le iscrizioni degli archi trionfali e dei piedistalli perenni.

Suavitas orationis solida non decocta solevano dire i Romani, prima di Nerone: dolcezza del dire maschia, non molle.

Noi siamo per separarci senza alcuna promessa, senza alcun patto, senza alcun vincolo. Voi lo sapete. Eppure scruto nei vostri occhi una dissimulata speranza di legarmi, d’imprigionarmi, di forzarmi.

Io preservo la mia volontà, io persevero nella mia vastità e rapidità di comprensione e di interpretazione.

Intendete? Non cerco partigiani, non cerco fautori, non cerco approvatori, non cerco neppure amici, anzi mi sforzo d’immergermi imperterrito in tutta l’amara profondità della parola michelangiolesca: «Non ho amici, e non ne voglio.»

Quel grande artefice carsico ebbe per amico nemico la volta della Sistina così com’egli rappresenta il suo travaglio nel disperato sonetto a Giovanni da Pistoia. A me basta un vecchio muro ma senza muffa e senza salnitro; che sono forme di vanità e di utilità per me abominevoli.

Ecco, o gente nutrita dalla Lupa, ecco una suavitas non decocta.

Dopo tante fatiche e dopo tante vicende e dopo tanta fedeltà, oggi posso ripetere – con le parole di dieci anni innanzi – che «v’ha per me molte altre maniere d’esser compreso e incompreso, amato e abominato, glorificato e vituperato».

Da per tutto inciampicherete, obliqui o diritti, da per tutto vi imbatterete, Italiani, nei rottami del mio pensiero pugnace e tenace, come se v’accadesse di camminare su pel Montello o in un altro terreno di battaglia tuttora ingombro di reticolati e di affusti e di proiettili e d’ogni specie d’arnesi ostili abbandonati dall’incuria e arrossati dalla ruggine.

Ero in esilio, dieci anni fa, ed ero triste e inquieto e ansioso; e dentro di me già presentivo la guerra, già respiravo la guerra, già mi tempravo alla mia guerra. E c’è di quel tempo un mio librodedicato a un muratore, a un fabbro, a un legnaiuolo e a un tagliapietra, non soltanto con fraternità di operaio ma con acutezza di intenditore e di apprendentec’è un mio libro dov’è inciso questo: So che, d’origine libero, fattomi liberissimo, ho ancor da conquistarmi una più ardua libertà. E so che, sempre avendo più che arditamente operato, ancóra a più grandi ardiri ho da trascendere.

La mia penna già s’induriva nel mio pugnale di Caposile? o il legno della mia matita era già estratto da una cèntina della mia ala di Cattaro?

Non mi considerate come un predicatore ozioso di bontà sociale o di bontà esercitata per appressarsi ai premii di Dio.

Vorrei riscolpirvi qui potentemente le mascelle di Beethoven e le ciocche sconvolte della sua capellatura medusèa; vorrei rappresentarvi i grandi sussulti della sua forza e i grandi furori della sua solitudine senza più amore di donne e senza più ambizione di agi; vorrei prenderlo per le sue spalle quadrate e spingere verso di voi la catapulta della sua fronte contratta e della sua rossastra grinta leonina, perché voi udiste dalla sua stessa voce ripetere quel ch’egli scrisse il 17 luglio 1812. «Non riconosco altro segno di predominanza fuor che la bontà

Egli alludeva, penso, a una predominanza non soltanto spirituale ma temporale; alludeva a una superiorità imperiale. Infatti Bettina Brentano, che lo vide in quell’anno, non mancò di osservare come «nessun imperatore, nessun re possedesse una tal consapevolezza della sua propria forza».

Credete che questa sorta di bontà voi possiate apprenderla da una delle nove Sinfonie?

Non dalle nove Sinfonie, e neppure dalle nove Muse, ma dalla decima Musa io l’appresi e l’apprendo. E non la esercito nelle predicazioni ma nelle azioni. La bontà è azione, per me, come è azione la poesia.

C’è un contadino qui.

In una ragunata di contadini, in un’assemblea di agricoltori, or è venticinque anni – e non temo che la data m’invecchi –, io discoprii con mano ardita le verità da me credute e nomate liberatrici; e soggiunsi: «La parola del poeta comunicata alla folla è un atto, come il gesto dell’eroe

Non temetti di mostrarmi poeta, non celai la mia aspirazione eroica, ma davanti a uomini di pena fui uomo di pena.

Fin da quel tempo, e molto prima di quel tempo, l’uomo seguiva ed insegnava la dottrina dello sforzo per lo sforzo, la dottrina della continua lotta e della continua conquista sul mondo. «Veggo dinanzi al fuoco mutarsi tutte le cose, come i beni dinanzi all’oro. Una sola cosa è costante: il mio coraggio. Non m’assido se non per rialzarmiFin da quel tempo, e assai prima, egli sapeva che le forme ideali dell’essere non si sviluppano se non nella profusione della vita. All’estremo limite della sua esperienza, attraverso il dolore e attraverso l’errore, egli era per trovare alfine come coronamento dei suoi sforzi infaticabili l’armonia della sua anima placata con l’Universo interamente rivelato e compreso. Egli voleva essere, nel senso più chiaro e nel senso più arcano della parola leonardesca, «modello del mondo».

«Non l’uomo, non l’uomo; la patria sempre, null’altro che la patria.» Così sentenziava Giuseppe Garibaldi a Giacomo Medici. L’amore e l’abnegazione lo traevano oltre. «L’uomo sempre nella patria, e la patria sempre nell’uomo.» Ecco bene emendata la sentenza eroica. Ed eccola riscolpita dall’orgoglio di origine e di stirpe, eccola riscolpita in una pietra del Palatino viva come questi lauri del Palatino. «Nella nuova Italia modello del mondo, il nuovo Italiano modello del mondo

Soffrite che io vi parli come il soffio mi sforza. Il linguaggio è un modo imperfetto per esprimere la mobile vita dell’essere profondo. Eppure nel mio letto di castigo io pretendevo di volere aiutare i morti a esprimersi! Ma in essi rimane, si perpetua in essi il privilegio di non più morire. E io non vi parlo, io non voglio e non posso oggi parlarvi se non di «ciò che non muore».

Desiderate invece che noi affrontiamo insieme il «problema economico»? Desiderate che io vi dimostri come il presente malessere politico sia nei contrasti economici non altrimenti che nella lotta fra i Magnati e i Popolani del XIII secolo? Ohibò!

Perché l’Italia sia povera io so meglio dei vostri capi dotti. E in che modo l’Italia potrebbe diventar ricca, e di qual ricchezza, io so meglio dei vostri cerretani rigogliosi. Ma l’Italia chiamata proletaria dev’esser prima disciolta da un lùgubre impedimento.

Non importa che io diventi più pallido, o uomini pallidi.

Io sono familiare con la morte. Io son rimasto coricato più d’una notte coi quattordicimila mal sepolti nel cimitero di Ronchi. Io sono stato vegliato, fino a ieri, dai miei compagni sanguinosi. Io ho veduto gli ottantaquattro fanti, mummificati in gran parte, rimasti in piedi, sotto la valanga, nel passo di Rolle. Mi son chino su quelli, caduti nel dicembre del 1917, ritrovati intatti sotto la neve dell’Altissimo, portati a Nago. I corpi venivano chiusi in teli da tenda. I teli da tenda erano i loro lenzuoli funebri.

E voi che avete fatto?

Mi sbianco io per tutti, ma ascoltatemi e guardatemi.

Un giorno, nel Vallone del Sangue, un compagno d’armi mi raccontò questo. I cadaveri negli ospedaletti da campo erano non solo avvolti ma talora cuciti nel lenzuolo. A un infermiere novizio, a un becchino inesperto fu assegnata l’opera pietosa; ed egli nel compierla tremava a verga a verga, e socchiudeva le palpebre, e s’affrettava, bucandosi nella fretta a quando a quando le dita con l’ago mortuario.

Ascoltate. Com’ebbe finito, si volse d’un tratto. Credeva di poter trarre un lungo respiro, credeva di potersi comprimere il cuore pulsante. E fece per discostarsi. Ma il corpo del «soldato ignoto» parve trasalire! La salma traboccò dalla tavola fùnebre, piombò sul pavimento, rimbombò, si trascinò dietro l’uomo della cucitura, lo agghiacciò del suo stesso gelo.

O uomini di grembiule, artigiani, ascoltatemi non soltanto col vostro timore ma col timore di tutti i vostri consanguinei. Avete già compreso? Colui aveva cucito contro il lembo del lenzuolo il lembo del suo grembiule, con lo stesso ago mortuario.

C’è nella mia Patria un Lavoro umanato che non ha per segno la bandiera del Fante da me glorificata come il Sudario del Sacrifizio ma ha per cautela il grembiule; ed è quello che tentò di assassinare la Vittoria e di cucirla non in un telo da tenda ma in una tovaglia da taverna. E, come il novizio del Vallone, insieme cucì il suo grembiule, a lembo a lembo. E la Vittoria non esangue e non esanime lo inseguì, lo incalzò, lo minacciò, lo atterrì. E lo insegue tuttavia, e gli mozza il fiato, e gli fiacca le forze, e gli dirompe le calcagna, e gli curva il dosso, e gli sfigura la faccia umana, e lo fa simile al nemico.

Sì, oggi, quasi tutto il Lavoro sembra aver perduta ogni impronta della razza, ogni espressione virile. Sembra che su lui tuttora s’inarchi il nuvolo cinereo di Caporetto.

Parlo senza veli, senza ritegni. A San Nicolò di Lido i miei soldati e i miei meccanici si coprirono gli occhi con le mani per sfuggire all’orrore di vedermi stroncato nella caduta del mio velivolo di battaglia; e io sorpresi il gesto, e rimasi incolume sopra l’erba cinto dal mio cerchio d’acciaio.

Vi chiuderete voi gli orecchi? e tutti gli «uomini di grembiule» vi imiteranno?

Volete voi essere stranieri nella nostra terra, nemici nelle nostre strade, senza patria nella patria stessa?

Da Parma, dal Borgo delle Carra, dalla trincea civica, prima che io precipitassi dalla rupe tarpea, voci crude si levarono a chiamarmi: «Vieni a vedere come son profonde e ben difese le nostre trincee...» Chiamavano colui che, nel bombardamento d’interdizione, restava solo in piedi sul parapetto per mostrare ai suoi uomini accosciati che basta la muta e lunga sfida a respingere la morte? Chiamavano il febbroso della notte di Ronchi? quegli che, nel tempo del servaggio senile e della pace vile, aveva passato ore ed ore di silenzio nel coro di San Giovanni Evangelista, non per pregare ma per raccogliere in sé le rivelazioni e i vaticinii della città che pareva consunta da tante signorie e pur pronta a ritrovare la sua giovinezza in una nuova primavera italica?

Gli operai furenti non si sentivano turbati e inebriati dall’aroma geniale che certo spandevano nel taglio del santo suolo le radici recise o smosse della stirpe ond’era pur sorto un uccisore di Cesare?

Se Filippo Corridoni era con loro, impugnava egli quel fucile che fatalmente a Castelnuovo non fece fuoco? Guardava egli fiso gli assalitori forsennati, senza colpo ferire? Aveva egli tuttora nella gola aperta quel suo ultimo grido italiano? «Vittoria! Vittoria!» Poté egli ricadere nella trincea delle Carra come nella trincea delle Frasche?

Anche con la sua ombra io ho parlato al mio capezzale. Ed egli ha contenuto il suo pianto perché io contenessi il mio sotto le palpebre piagate. Ma nel prossimo anniversario autunnale del suo sacrifizio io eleggerò per lui il più vivace di questi lauri. Triumphali e stipite surgens Alta petit.

La Vittoria, da lui invocata nell’ultimo anelito, ha rotto il lenzuolo e non teme più l’ago né il coltello né la baionetta né alcuna frode di veleno o di laccio. E il grembiule, sia di maschio o sia di femmina, non più è cencio ignobile che disertori e traditori possano inalzare per arrendersi. E anche i teli da tenda si squarciano sotto l’impeto dei vittoriosi che risorgono e in piedi s’apprestano non a essere giudicati ma a essere nel Giudizio giudici.

C’è bisogno del piuolo aguzzo e del martello di Jaele perché rimangano conficcate nella buona fede o nella mala fede queste parole non dubbie?

Ora voi chinate il capo, e il vostro capo s’illumina.

Il mio occhio perduto ha patito un nuovo urto che ha riaccesi in esso i fuochi alterni piegati in aureole o spiegate in baleni. Quando combattevo nel Carso, i fuochi occulti parevano aumentare con la mia fatica e col mio ardore, specialmente a sera e a notte. Talvolta mi turbavano come presagi. Incoronavano i compagni compresi nello sguardo dell’occhio superstite. Ma quasi sempre eroico era il presagio, e talora santo.

O fratelli inermi, il mio fuoco vi cinge la fronte pensosa. Vis est ardentior intus.

Insuperabile è la mia fede com’è inviolabile la mia libertà.

Vogliate somigliarmi in questo, soltanto in questo, se qui siete venuti a testimoniare e a consolare.

Ma non aspettate la fede dalle leggi e dagli agi, non aspettate dalle leggi e dai privilegi la libertà.

E io non vi ammaestro. Io non sono se non un povero Italiano rimasto troppo lungamente abbandonato sopra una cima. Io ho sognato in me che uno di quei fanti sia escito dal telo di tenda e sia disceso dall’Altissimo coi suoi due piedi congelati. Mi sembra che io medesimo davanti a voi disfaccia la cucitura del telo di tenda e mi sollevi, senza nome e senza volto, come il combattente ignoto certo Di quella fede che vince ogni errore.

Anche una volta il precursore dell’Inferno carsico mi disuggella le labbra e mi svincola i piedi, e m’inspira e mi suscita.

Ma c’è un’altra parola italiana qui, antica e futura, che suona sopra il nostro capo nella sinfonia degli alberi. «Chi ha fede, conduce cose grandi; e, come dice lo Evangelo, chi ha fede, può comandare ai monti...»

Ora questo soffio non viene dall’Altissimo? La fede d’Italia non viene dai vertici del sacrifizio più vicini e dalle lontananze parlanti dei secoli? Io respiro; e perdo i miei limiti, perdo ogni traccia della mia miseria, e sono un rivelatore ansioso del passato come sono un divinatore ansioso del futuro. Non sentite? Non siete anche voi più grandi? Respirate questo soffio che viene dall’Altissimo. E, se chiudete gli occhi e aprite l’anima, l’Altissimo vi rapisce, quasi che si sia spetrato a un tratto e sia divenuto un turbine aereo, un vortice spiritale.

Ci sono tuttora martiri sepolti dalla valanga alla Bocca di Navene? Ci sono miei compagni d’armi e d’ardore? C’è un capitano chiamato dagli uomini Borlandi, un sergente chiamato dagli uomini Tronel? Gli eroi non hanno nome se non nell’immortalità, le cime non hanno nome se non nell’altezza. E la mia Patria, e la vostra Patria, non è se non sopra queste grandi imagini, oltre queste grandi apparizioni. Beati sono gli innominati. Glorificati sono i derelitti. Il rozzo lenzuolo funebre, dove si curvò e spuntò l’ago, rifulge a noi più che l’ostro. È il labaro che precede l’ordine di Roma: il segno in cui giuro che rivinceremo.

Vi siete levati? Davanti a chi? davanti a quale presenza imperiosa? Anch’io posso stare in piedi, come alla ringhiera. Questo è l’arengo. Il marmo del mio seggio pare invermigliarsi ancor più? È marmo di Verona. E dello stesso marmo sono le quattordici colonne che io ho fondate tra i fusti degli alberi piantati dai padri, per commemorare le sette e sette vittorie dell’Alpe, del Carso e del Piano. E i simulacri dorati non son quelli dissepolti a Pompei ma son fusi nel bronzo del vinto.

O smemorati, qual necessità aggiunsi una sera di maggio alle quattordici vittorie, in Roma, nella piazza delle Terme, sollevato sopra il popolo dalle spalle dei compagni di Francesco Baracca?

«Abbiamo avuto quattordici vittorie. Ora vi dico che dobbiamo avere la Quindicesima, ond’escirà finalmente al futuro quell’Italia bella per cui le madri diedero i figli e i figli caddero beati. Vi dico che l’avremo.»

Confirmatae sunt super nos. Questo latino v’è infuso. Ma voi vedete che anche la Quindicesima ha la sua colonna, estratta e tagliata dall’arte dorica in un’altra cava non ancor sanguigna. Vedete. La figura è piantata sopra la prora adunca ma nell’attitudine della Fortuna sopra la sfera del mondo, con ambi i piedi congiunti come nell’attimo del salto o del balzo o del volo. Vedete. Le sue ali sono acute, non fatte soltanto per spaziare ma per penetrare e per fendere. Vedete. Ha l’uno e l’altro antibraccio alzato contro l’uno e l’altro braccio dove si rilevano i muscoli forti, i bicipiti potenti e agili, atti a tutte le opere e forse non inconsapevoli che si chiamò bicipite anche il monte sacro a Febo e alle Muse. Vedete. Stringe una corona nel pugno, come l’atleta latino stringeva nella gara del pugilato il cesto. Non ne ha intorno al capo alcuna, ma è galeata come Roma.

Vedete. Un mio fante del Carso, un visitatore devoto dell’infermo, dopo aver pianto alla mia soglia e dopo aver pianto al mio capezzale, ha cercato un ramo spinoso e l’ha curvato in cerchio e ha dato alla Quindicesima la corona di spine.

Non dolet. È la risposta della durezza romana.

E voi sapete come il pregio del sacrifizio sia sempre in misura della forza che l’uomo ne riceve.

Non dai secoli ma da ieri torna un’altra parola romana, già bagnata nel Piave, già logorata sul Grappa. «Perché la forza del nostro sacrifizio non sia in noi oppressa, è necessario distruggere tutte le menzogne che tuttavia ci ingombrano

Vedete. Nella base della quindicesima colonna è inciso: Plus ultra.

Ora usciamo dall’arengo, valichiamo il ruscello, avviamoci pel giardino. Ci sono anemoni autunnali d’una specie bianca che somiglia la rosa scempia a cinque petali. Credo sieno originarii dell’estremo paese conosciuto da Marco Polo.

Non voglio che alcuno mi sostenga. Voglio ritrovare il mio passo. E voglio che voi mi parliate senza studio e senza timidezza, come quei miei operai del colle toscano onde scese dalla razza dei tagliapietre la nutrice del Buonarroto.

Marinaio, hai il piede marino. Allunghi le gambe sul sentiero di ghiaia come sul ponte del tuo naviglio.

Quando lasci la tua riva, non senti che la tua riva natale diventa l’orlo della tua anima?

Com’era dolce la faccia del Carnaro nel pomeriggio rasserenato, quando ritornai sul mio cacciatorpediniere dopo l’incontro col rinunziatore in alto mare, dopo il colloquio pacato e atroce che rigettò nel buio e nell’orrore il destino della Dalmazia! Soave era il golfo, e cilestrino era il lutto delle isole. Ma il tremito del mento di mia madre non mi aveva fatto mai tanto male quanto me ne faceva il più leggero moto di quell’acqua. E la chiara scìa mi divideva l’anima senza rischiararmela.

Voi sorridete increduli. Vedete che tutto il mio lato destro si duole e che il mio piede destro zoppica. Veramente io sono stato precipitato giù dalla rupe tarpea. E la Lupa capitolina non ha forzato le barre della sua gabbia, né Marco Aurelio è disceso dal suo cavallo e dal suo piedistallo. Ma per la fenditura del mio cranio è penetrato il raggio del sole occiduo, l’ultimo bagliore del tramonto, e ha illuminato il mio vóto lustrale su la cima dei miei pensieri.

Cammino con fatica ma senza fallo. Non ho più volontà di dire ma di correre. Chi mi condanna a essere una pietra miliare? Io son nato per superare le pietre miliari o per abbatterle.

Non è oggi indetta in terra lombarda una festa della rapidità?

Rapidità, tu sei la prima nata

dall’arco teso che si chiama vita.

Ho riconosciuto questo mio distico inciso in una medaglia coniata per una gioventù destinata a una grande mèta.

Perché mi torna all’improvviso l’esclamazione di Augusto nell’atto di legar l’impero alla tardità di Tiberio?

«Misero il popolo che sarà masticato da sì lente mascelle! Miserum populum qui sub tam lentis maxillis erit!»

E mi torna da men lontano un verso di Francesco Petrarca: Intelletto veloce come pardo...

V’accorgete che il ginocchio mi risànguina? Non importa. Risanguinavano questo e l’altro a me monocolo nella sassaia ineguale quando per dolore e per amore m’inginocchiai su la strada di Trieste andando verso la Quota 12, e m’ebbi su la fronte il bacio di Nino Randaccio che credeva d’aver testimone l’Italia ideale!

Sentite nitrire il mio cavallo nel prato? È il mio buon «cavallo grosso», come lo chiamerebbe il Vinci degli studii per Francesco Sforza. È il mio cavallo d’armi, che si chiamò Carnaro come il mio golfo ma derivando memorabilmente il suo nome dalla Carta nautica trecentesca del genovese Pietro Visconti e dalla Carta nautica non meno antica di Marin Sanudo il Vecchio e in quella istriana di Pietro Coppo e in quella di Giacomo Gastaldi, in quella della «Italia nuova», fin dal Cinquecento sepolta in un archivio triste di Torino. Volle egli avere al suo battesimo i più solenni documenti, e tra questi non soltanto la Carta pisana ma perfino un venerando testo dantesco a penna tratto dalla Biblioteca di Piacenza.

Nitrisce Carnaro nel prato onduloso, e gli risponde il puledro Fiumanin, strofinando l’anca a uno di quei magri olivi.

Da chi nacque Fiumanin? Mi fu donato dai miei artiglieri, nel giorno del gran pianto di Fiume, nel giorno dell’estremo addio; ma io lo imagino prole della quadriga solare, generato da un mito che sembra ora in me rigaloppare con quei suoi quattro zoccoli tuttavia vergini di ferro.

Non avete voi mai udito parlare di quarantasei cavalli rapiti da me a Preluca, in una notte d’aprile, per rincavallare le mie batterie scarne?

Ho bisogno di gioia, ho l’ansia di respirare la gioia. Da troppi giorni mi piaccio nell’afa della morte. Da troppi giorni serro la mia tristezza nel mio telo di tenda.

Ecco che il nitrito squarcia il mio telo. E, se ribalzo a cavallo, il ginocchio non mi duole, il malleolo non mi scricchiola.

Non c’è chi m’ha veduto entrare a Smirne condottiero dell’esercito di Kemal?

La luce del meriggio cala a picco sul prato e sul giardino. La fronda dell’ulivo brilla quasi come l’anemone.

I miei compagni d’ardire mi chiamano. I miei compagni cantano la canzone che oggi corre le vie e le piazze dell’Italia iniqua e acerba.

Di dove mi tornate? Dove sostate? Non avete più in mano se non le capezze e i capestri?

Nell’Inferno e nel Paradiso il nostro Dante del Carnaro chiama capestro «la corda cinta che santo Francesco prese per cintura di umiltà».

Non v’è ira in voi e non v’è sangue sopra voi. Non v’è nella vostra giovinezza se non armonia vivente di gioia e di forza e d’amore.

Tali eravate in quell’alba lontanissima d’aprile quando vi dissi ebro e splendido come la prima ora: «Ogni nostro giorno ha la sua grazia; e noi dimentichiamo facilmente la conquista di ieri per quella di domani

Eravate i predatori d’un tempo remoto? o i predatori della terra futura?

Non so. Ma eravate luminosi nell’ombra del mattino, come se aveste rapito i cavalli del Sole in una caverna del profondo Oriente.

Li tenevate per la capezza di corda; e la perfezione del gesto giovenile faceva preziosa la redine di canape, quasi fosse gemmata.

Era, più che l’armonia della giovinezza, l’incantamento dell’amore.

Era l’amore dagli occhi coraggiosi, che recava il dono rapito al rischio.

Vedevo i vostri freschi occhi simili alle costellazioni che superano la notte e contendono con l’alba, prima di cedere.

Vedevo i vostri occhi di donatori, illuminati dalla sola riconoscenza che valga per un uomo libero: dalla riconoscenza di chi dona.

Così forti e nervosi, così ben costrutti e scolpiti, eravate i figli del mio spirito, le creature della mia mente. Non avevate predato se non per donare. Io non ho mai predato se non per donare.

I cavalli bai, morelli, storni, sauri, con le criniere sconvolte dal vento del Carnaro, stavano in una ordinanza come le cavallate dei popolani di Firenze quando si presentavano alle insegne. Tutte le groppe stavano a paro, larghe e lucide, dandomi gioia all’occhio che nell’assedio non aveva veduto per tanto tempo se non anche aguzze e schiene affilate.

Se uno sbuffava dando una stratta alla corda, lo sbuffo sembrava increspare l’ombra cilestrina e suscitarvi un ricciolo di schiuma.

«Giovinezza! Giovinezza!» I cavalli stavano fermi su i quattro zoccoli; ma la canzone galoppava senza freno. La preda odorava di salsedine, veramente veniva da una caverna marina.

La inazzurravano l’ombra e la mia imaginazione. La groppa di Cherso, la groppa di Veglia si offrivano anch’esse ai predatori.

Quando feci il gesto del commiato e diedi l’alalà della mossa, le pariglie di vario manto discesero in lunga ordinanza verso il mare che palpitava dolcemente come le ciglia dei cavalli bianchi nel chinarsi all’abbeveratoio.

Il primo dardo del sole mi sembrò sonoro come se percotesse una piastra ben temprata.

Alalà!

La sorte mi aveva fatto principe della giovinezza alla fine della mia vita.

E credete voi che la mia giovinezza sfugga? Se pure mi sfuggisse, io saprei raggiungerla e arrestarla e afferrarla e serrarla fra le mie braccia di lottatore. Son capace di forzare la mia giovinezza; ed ella non è capace di riluttare e di mordermi, tanto la mia fedeltà appassionata la tocca addentro.

Non altrimenti io ho forzato più d’una volta la mia Patria: talvolta con la mia arte e talvolta con la mia volontà: arte e volontà di vittoria. Ella ha tentato di finirmi precipitandomi dalla rupe tarpea. Ma se ella finalmente mi soffocasse sul suo petto, al battito del mio cuore mi riconoscerebbe come il figlio più devoto.

La giovinezza, anche quando erra, porta in sé l’aroma della rivelazione futura.

A Fiume, quando si faceva il cambio della Guardia nell’atrio del Palazzo, i miei Arditi per allusione generosa a un episodio recente solevano gridare, quasi parola d’ordine: «Chi ha ragione? – Il Comandante ha ragione.» Una mattina escii dalla mia rocca di comando e di supplizio e discesi le scale con garetti infallibili e piombai su la Guardia e ammutolii il clamore e gridai: «Ha ragione la Giovinezza

Allora il canto delle nostre marce spedite scoppiò, rimbombò per tutto l’atrio, minacciò di scoperchiare i tetti, fu simile al vin nuovo nella vecchia botte.

Quel mio grido vige. Vige quella parola d’ordine che si rinnovò in ogni mia battaglia, e tuttavia si rinnova. La giovine Italia non può averne altra nel suo sforzo penoso e pur nel suo errore ancor più penoso.

Un altro popolo giovine scelse per parola d’ordine, nella sua più bella battaglia, il nome virgineo della gioventù «Ebe», quando la guerra era una invenzione energica che imprimeva al movimento delle forze il numero vittorioso del coro e della danza.

Juventa! Juventa! La deità riprese il suo nome romano nella battaglia del Solstizio, quando per la quarta volta, con la nostra vittoria solare, decidemmo le sorti della grande guerra, salvammo l’Europa che noi soltanto potremo ancor salvare. «Nessuno aveva più di vent’anni. Anche i veterani avevano vent’anni. Tutta l’Italia aveva vent’anni per combattere, per vincere, per vivere, per morire

La dea Juventa non aveva un tempio capitolino? Riedificatelo, riconsacratelo. Non temete di paganeggiare. Non siate zelanti angusti. Lo spirito pindarico non solleva talvolta anche i salmi? «Si rinnoverà la gioventù sua come quella dell’aquila

E le reclute del ’99 e le reclute del 1900 non sollevarono su le loro baionette il mio salmo di guerra tornato in gloria? «Giovani, ora soltanto l’Italia è giovane, l’Italia è nuova. Ha la qualità dei vostri occhi e delle vostre vene. È davanti al destino spoglia come quando emerse dai suoi mari. C’è chi vi grida che ha tutta la sua civiltà da difendere? Tutta la sua civiltà non le vale la sua anima vera. Ha da difendere la sua anima vera.»

Cerchino quel salmo i giovani che non furono battezzati nell’acqua santa del Piave ma che oggi anch’essi sono chiamati e gettati «al gioco estremo fra noi e il destino, fra noi e la vita futura».

Io fui la vostra voce. Io sono la vostra voce.

Chi di voi oserebbe noverare i miei anni? Nessun pericolo, aperto o insidioso, li ha mai noverati. La morte, bella o deforme, non li ha mai noverati. Non io li novero, se la mia volontà può costringere il mio polso dislocato a tenere il timone o la spada, se può costringere il mio lato destro martoriato e spento a emulare l’arditezza e la prontezza del mio lato sinistro.

Di tutti gli ammonitori fastidiosi e di tutti i giudici inesorabili io mi rido. Volete assegnarmi un’età certa? Domandatela alle correnti aeree che a quattromila, a cinquemila, a seimila metri secondavano o avversavano la mia ala d’uomo. Domandatela al nemico che il 20, il 21 e il 22 d’agosto del 1917 mi riconobbe a soli cinquanta metri sopra le sue trincee e giudicò gli effetti del mio bombardamento e del mio mitragliamento durati quasi un’ora a quella medesima altezza contro «obiettivi scelti con cura estrema». Francesco Baracca, disperato di perdermi, lasciò la scorta e se ne tornò al suo campo e mi pianse. La sera, io incolume lo invitai a cena, di dalla storica ironia di Leonida.

Siete miei compagni? Non voglio che mi baciate le mani come giù per le scale del Palazzo Marino, dove da me riudiste il tono giusto dell’alalà di Pola gridato contro più che dugento batterie terrestri o navali e contro più che trenta proiettori incrociati. Non voglio che mi baciate le mani. Vi tendo le braccia e giudico la qualità del vostro animo come atleti e come asceti.

Presumete di essere miei avversarii? Non potete se non rendervi a discrezione. Non v’è per voi scampo. Non vi resta se non finir propagginati nella menzogna sterile o nella putredine tetra.

C’è qui un marinaio, c’è qui un operaio, c’è qui un contadino? Ci sono qui uomini di pena e uomini di agio?

È l’ora di mezzogiorno. Le ombre si accorciano. Le parole sono chiare.

Io sono un lavoratore indefesso, che non misurò mai la sua giornata e la sua notte. In un mito ellenico un grande artiere, zoppo come oggi io sono, si appoggiava a due Muse «dal vasto petto». Io sto in piedi, sto in faccia al sole, tra la Guerra e la Vittoria. Sono un Italiano che s’inorgoglisce e si ingrandisce della sua Guerra e della sua Vittoria. Sono un Italiano che fonda l’Italia nuova su la santità della sua Guerra e su l’integrità della sua Vittoria.

Intendete? Avete inteso? Tutto il resto è menzogna sterile e putredine tetra.

Accorrete verso di me, con un impeto subitaneo d’amore, perché sono caduto? Mi testimoniate così la vostra fraternità labile di operai a operaio?

Or è molti anni, quando Roma si commoveva con troppi clamori fatui a una mia rivendicazione tragica dell’Adriatico mentre gli eredi di Custoza e di Lissa e di Adua curvavano la schiena ai rimprocci del mostruoso Alleato, io passavo a cavallo una mattina per la Via Salaria; e dall’alto di una travata un muratore mi riconobbe e mi gridò il verso omai di popolo non veneto ma italico: «Arma la prora e salpa verso il mondo.» Il comandamento richiedeva d’essere consacrato dal sacrifizio umano? Era prossima l’ora del meriggio, quest’ora che ci colpisce e ci svela. Col barbaglio della luce mi torna il brivido della pietà. Spinto non so da qual sorte oscura, l’uomo precipitò dalla travata su la via. E io balzai di sella, e m’inginocchiai presso il corpo infranto, e accostai il mio affanno fraterno al suo ultimo respiro; e sentii che il comandamento animoso ripalpitava tuttora in lui come non so che rivelazione rossa e mistica della Patria.

Non ero io più virile e più fedele e più nobile di voi?

Quando la vecchia Italia, rimessa nella sua schiavina di schiavitù annosa, prese per mira dei suoi cannoni navali il mio cranio non abitato se non da un sol pensiero e da un sol proposito di devozione e di sacrifizio, a tutti i davanzali delle finestre aperte verso la marina le donne accorsero e protesero i loro nati distaccandoli dai loro seni, e gridarono e singhiozzarono: «Questo, Italia! Prendi questo ma non lui!»

I cannonieri aggiustarono il secondo colpo.

Mi conoscevano bene. In tutti i pericoli, in tutti i combattimenti, in tutte le fortune e in tutte le sfortune, io non ho offerto e non ho donato se non me: «Eccomi, eccomi, eccomi.»

Lo spirito ha le sue generazioni, come la carne, ma non costrette nel tempo. Il mio spirito ha la sua generazione tardiva ma fiera e altera. Il Canto di Calendimaggio, ignoto anche oggi agli uomini di grembiule, già sorgeva dai miei precordii quando questo secolo era avviluppato nelle sue fasce piuttosto funebri che natalizie. E, se c’è chi vi lancia in viso l’ingiuria, se c’è chi vi straccia in viso il patto iniquo, io vi getto tre «preghiere dinanzi agli altari disfatti» e sette «documenti d’amore» che nessuno di voi potrà mai lacerare o calpestare.

Io non amo la facile popolarità, ma amo la più difficile delle solitudini. Quando mio padre, dopo avermi ammaestrato, mi gettò in mare perché nuotassi solo, io nuotai per risolutissimo istinto contro il flutto. Quando mi gettò nel fiume, nuotai contro corrente fin dalla prima bracciata. E poi in mare cercai sempre il flutto decumano, quasi con superstizione latina, per tagliarlo e superarlo.

La gloria m’è a noia. La notte del 4 novembre gettai nel rogo acceso al soldato ignoto tutti i segni conquistati da una prodezza che non fu mai paga e che non potrà essere mai paga.

dispregio la minaccia men della lode. Non in terra, non in cielo, non in mare, non sottomare ho sentito mai incrinarsi il mio diamante. Semper adamas.

Nell’alba del 28 maggio, quando il mio Randaccio fu colpito a morte e trasportato nella caverna, di dal Timavo, di dalla passerella, io pur nel mio dolore e nel mio orrore seguii il mio proposito di castigare il battaglione che s’era ammutinato e aveva tirato contro gli ufficiali e aveva inalzato su le baionette i suoi cenci bianchi. Uscii per salire alla quota prossima, per trasmettere alle batterie l’ordine di far fuoco sopra la colonna avviata dei prigionieri volontarii, che non erano se non i precursori turpi delle mandre di Caporetto. C’era radunato nella Cava di pietra l’altro battaglione di rinforzo; e, nel farmi largo, scorsi le facce torve, vidi rotare gli occhi truci, fissai la minaccia cupa, e avvertii nella mia schiena non so che aura di tradimento. Prima di giungere alla svolta delle rocce, mi voltavo a quando a quando per vedere se i moschetti dei traditori non fossero puntati su me. E i colpi non partirono; ma dalla cima del cuore illeso mi si partì senza tremito il presagio. «L’ora è differita. Perirai di mano italiana

E che importa? Il ferro italiano non potrà non tramutarsi in diamante attraverso il mio cuore. Non potrà non convertirsi in diamante attraverso la mia fronte il piombo italiano. Semper adamas. V’è un’alchimia interiore, e ne sono maestro.

E il mio volto, leso dagli anni, dalle fatiche, dai pensieri, dai crucci, per un attimo sarà bello come nei primi sogni di mia madre. E forse la mia anima lo vedrà.

Voi dite che oggi in Italia c’è un coltello affilato e c’è un coltello senza taglio. Lascio il giudizio alle ruote degli arrotini, o meglio io lo lascio fiorentinamente a quella statua dello Scita cui da Apollo è commesso di scorticar Marsia. Ma per me invoco e accolgo il giudizio di Dio. Portatemi i due coltelli innanzi, e bendatemi. Ne prenderò uno, e dirò: «Io testimonio per la Patria, testimonio per la Guerra d’Italia, testimonio per la Vittoria d’Italia.» E non esiterò a tagliarmi la gola dopo aver pronunziato il suo santo nome con la stessa lena che i fanti conobbero al balzo della trincea e gli aviatori alla dipartita senza ritorno. E se pretendete che la prova sia a voi beffardi spettacolo, io vi lascerò il profitto ad accrescere il salario della vostra giornata o a impinguare la sinecura d’uno dei vostri capi...

Non a voi parlo. Non di voi parlo. La bontà dell’animo s’incrina dunque anch’ella come l’osso del capo? Quando si cammina, si sente una mèta in sé o fuor di sé; e il passo s’inaspra.

Andiamo sotto quel bellissimo faggio. Sostiamo all’ombra di quel faggio purpureo, che non è di Titiro e che nei miei vóti non s’è mai invergiliato.

Quando nel lungo volo di guerra tentai di conciliare la forza e la bontà, mi assegnai una sedia incendiaria, mi feci luogo nel serbatoio dell’essenza, e m’ingegnai di rendermi facile l’uso del farmaco liberatore. Mi piace che voi mi imaginiate così sub tegmine fagi.

Poi, se vi piace, vi condurrò nel mio oratorio dove Frate Foco e Suor Acqua, come nel Cantico delle Creature, l’uno dal camino di pietra e l’altra dalla fontanella dorata, favellano pianamente e mi consolano senza che io lor chieda di scaldarmi e di abbeverarmi.

Ora c’è chi balbetta che in quella specie di sacrestia io mi sia imprigionato, e che il legno del vecchio coro mi precluda gli orizzonti e che gli alabastri delle finestre mi ammorzino i raggi!

Io ho ricollocato nella mia casa, nella mia terra dove riseppellirò religiosamente e gloriosamente Mario Asso Italo Conci e il mio «soldato ignoto» del Timavo, ho ricollocato e riconsacrato non soltanto il piccolo oratorio dei Dalmati, non soltanto San Giorgio degli Schiavoni, ma tutti gli oratorii devastati dal nemico, tutte le chiese ruinate, tutte le chiese distrutte, tutte le chiese senza tetto che servirono di sosta ai feriti, tutte le chiese che nella guerra più s’accrebbero d’anima come più si spogliarono di mattoni e di pietre e di tegole e di travi: la mia chiesa votiva di Doberdò, e quella di Sagrado, e quella di Salcano, e quella di Salgaredo, e quella di Spresiano, e quella di Fener, e quelle di Musile e di Cavazuccherina e di Noventa, e tutte le case del Signore dove il Signore vuol ricondurre per mano la Patria confessata e purificata.

Quando io entrai a prostrarmi dinanzi all’altare veneto dei Dalmati, nel gennaio del 1919, m’accompagnò un povero fante che nascondeva sotto la sua mantellina bigia le sue mutilazioni. Cercai su per le pareti le creature di Vettor Carpaccio, e non c’erano più. Non c’erano più gli Apostoli addormentati nell’Orto. Non più c’era la solitudine e l’angoscia di Cristo vegliante. Non c’era più San Giorgio, e il suo cavallo. Non c’era più San Gerolamo, e il suo leone.

C’è oggi un leone, nell’oratorio della mia fede, nel piccolo oratorio del mio grande giuramento. E se io consentissi di mostrarvelo, ciascuno di voi dovrebbe offrirgli un fiore e inginocchiarsi e fare atto di contrizione per tutta la Patria. E forse udreste una sacra voce dirvi: «Voi siete nettati, ma non tutti

Tra l’Acqua e il Fuoco, tra i due elementi qui non corrotticorruttibili (e laggiù l’acqua è fatta più amara del tossico e il fuoco dei focolari è disperso come ogni altra deità familiare) io ho posto il leone che i profughi di Arbe mi portarono attraversando il mare con una barca a remi: il leone divelto dal campanile veneto dove abita la Granda, dove è tuttora sospeso il bronzo esanime della Granda che qui ha rifugiato la sua anima italiana: «un’anima d’oro, d’argento e d’amore».

Voi dimenticate, voi rinunziate, voi ripudiate. Voi vi turate gli orecchi quando la Granda si lagna trasmettendo la voce della sua gente. «Tutta la vita nostra offrimmo all’Italia che doveva liberarci come Ordelafo Faliero un tempo ci strappò al re croato. Ma l’Italia ci ha condannati a perire, e ha sconfessato e perseguitato come ribelle il liberatore! Ora le case dei barbari sorgono dalle nostre rovine, e alle loro pietre sono mescolate le ossa dei nostri padri, e il loro cemento è stemprato col sangue della nostra piaga

C’è una pietà che i Romani chiamavano virtutis ardor. E c’è una pietà che è l’alimento divino della mia ricordazione, della mia meditazione e della mia aspettazione. Gli antichi la velavano. Anche a me piace di velarla. Non mi chiedete di condurvi nel mio luogo pio e leonino.

Contentatevi di udire il ruggito che si concilia col nitrito. Iterum rudit Leo era il grido della notte di Cattaro, era il grido dell’impresa che nella notte del 4 ottobre san Francesco protesse contro la foschìa e contro il gorgo.

E il sauro grosso nomato Carnaro sa ben rispondere col vigore latino. Dant animos plagae.

C’è dunque chi l’ha veduto in sogno o in simbolo entrare a Smirne con quell’esercito asiatico che nel gennaio del 1920 mi fu offerto di condurre donec ad metam?

Ma non mi son veduto io stesso, dall’inerzia spasimosa del mio capezzale, volare a fianco di Glenn Curtis che sempre mi ricorda come suo primo passeggero e sempre ricorda il mio presentimento tenace del volo icario liberato dalla tirannia del motore? Io supino e paziente non mi son veduto volare a fianco di tutti gli spiriti leonardeschi che hanno ritentato e ritentano il volo da me incuorato?

Ma emulare l’aquila è men difficile che dominare l’azione.

Per non esser di continuo interpretato ottusamente e falsato perfidamente di qua come di dalle Alpi, mi converrebbe formare e divulgare una mia Somma non tomistica e neppur mistica ma leale e chiara. Assegnerò il cómpito a un discepolo attento, a quegli che forse pensa avere io meritato meglio di Servilio Vatia il detto conciso: Solus scis vivere. Ma non seppi vivere e non so vivere se non combattendo; e sempre ho combattuto e combatto latinamente pro aris et focis.

Intanto, per rimemorarmi agli smemorati e agli ingrati, mi occorre l’anagnoste, non servo come quello che accompagnava ai Romani la gozzoviglia ma libero e devoto come quel leggitore a cui s’apparteneva di propagare fra i popoli «quelle cose che i profeti profetarono».

Di contro alle arsioni e alle stragi di Smirne, di contro alle esitanze e alle trasmodanze delle forze asiatiche, di contro alle vecchie gelosie e alle vecchie cupidige e alle vecchie cecaggini degli Alleati, di contro alla insaziabilità dell’Inghilterra non intenta se non a falsare le bilance della ingiusta Europa e ad attribuirsi in ogni mal raccolto bottino la parte del leone, giova che l’anagnoste ricordi come nel quarto anniversario della nostra entrata in guerra io denunziassi non senza crudezza l’iniqua manovra condotta contro di noi che eravamo e che siamo tra tutte le nazioni «la nazione più puramente e pienamente vittoriosa».

A che mirava e a che mira la mala alleanza degli Alleati? Non soltanto allo schiacciamento della Germania ma all’annientamento della vittoria nostra.

Un testo coraggioso non può essere dai falsarii consuetirimanipolatomutilato.

Ecco una denunzia che anche oggi è valida. Udite. «Gli Alleati vogliono vietarci ogni grandezza, serrarci ogni via di sviluppo e di espansione, limitare la nostra libertà politica, ricostituire sul nostro fianco orientale un’Austria più torbida e più pericolosa di quella da noi abbattuta, imporci una servitù più dura di quella che patimmo dall’altra Triplice, escluderci dalla gara europea e mondiale, metterci fuori dell’Adriatico, fuori del Mediterraneo levantino, fuori dell’Asia minore, fuori dell’Africa. Italiani, ricordiamocene. Le carte dei patti solenni, per noi impresse dal sigillo rosso del miglior sangue, sono lacerate con un piglio che scimmiotta il grifo del vecchio Cancelliere prussiano...»

L’anagnoste può tralasciare l’invettiva, sub tegmine fagi. Ma udite quel che fin dal maggio del 1919 io dissi al popolo di Roma attonito nel riconoscere la franca voce del 1915.

«Il trattato di Moriana è dato per stoppaccio ai vecchi schioppi delle bande greche in fustanella non immemori della via di Berlino e del rancio alemanno. E già i vecchi moschetti smirnioti lo ricacciano bruciacchiato in gola ai saccheggiatori di bazar che, avendo praticato in Asia e altrove tutti i mestieri ignobili, oggi hanno per mestiere illustre la restaurazione dell’Impero di Bisanzio.

«Italiani, ricordiamocene.

«Oggi la Turchia asiatica scarsamente produce e quel che produce non ha modo di trasportarlo. Ma essa cova da secoli la sua fecondità primiera, divenuta più profonda. La cultura vi troverà la più ricca delle terre promesse. Il ferro, il rame, il piombo, il zinco, l’antimonio, il cromo, il borace, il mercurio, abondano sotto il suolo. Abonda il carbone nei bacini di Eraclea e di Amastra, nei monti di Erzerum, nella valle del Tigri. E nelle alture e nelle bassure del Tigri si trovano il petrolio, la nafta, il bitume, il salgemma. Per ciò noi ne siamo esclusi con la beffa della scarna Adalia, mentre l’annessione larvata della Saar e la bene accorta assegnazione delle altre terre minerarie agli Stati favoriti pongono in una sola mano il monopolio europeo delle materie prime.

«Italiani, ricordiamocene

Già studiavo e preparavo in quel tempo la mia rotta dell’Estremo Oriente. Già meditavo il lungo volo non come un’audacia di Ulisside irrequieto ma come un tentativo di conquista spirituale, come una commemorazione alata dei «tre Latini» che si partirono da Acri pel meraviglioso viaggio recando un’ampolla d’olio del Santo Sepolcro.

Ora udite. «Il popolo italiano fu sempre il più sagace dei migratori. Quando non aveva l’ala senza battito, gli archi dei ponti e le lastre di pietra che le legioni lasciavano dietro di loro, sopra i fiumi e nelle paludi, segnarono i suoi cammini. Nell’Evo medio, nel Rinascimento, nell’età più tarda, l’uomo italiano fu re in tutti i mari, fu signore in tutte le terre, sino agli ultimi orizzonti, sino agli estremi confini. Quell’Africa e quell’Asia, che oggi gli sono contese dalla perfida avarizia altrui, furono sempre alla mercè de’ suoi ardiri. Ma non importa che gli sieno contese. Teneo te, Africa è una parola romana da rendere italica. Teneo te, Asia è una parola romana da rendere italica. Chi può reprimere in noi questa volontà, questa attitudine, questa tradizione? Non era possibile quando non avevamo se non la chinea ambiante e il cavallo di San Francesco, o la vela e il remo. Sarà possibile oggi che il nostro vecchio istinto migratorio ha messo le ali, le sue giovani ali?

Chi ’l tenerà legato? Il motto di Nicolò Crasso e mio è da gettare in viso, non senza scroscio, a chi tenta e a chi s’illude.

Un gran soldato coloniale che nelle bolge carsiche si sentiva a suo agio, mi diceva l’altrieri: “Come si può non serbare la fede, anche in questa miseria? Venivo da Buttrio. Prima di lasciare la Patria del Friuli, m’ero riempito gli occhi di quel colore del Natisone che tu ricordasti alle reclute del ’99. E avevo respirato quell’odore di frutti denso che spira dal Collio. Per tutte le vie dell’altura e della pianura era la stessa fecondità. A ogni borgo, a ogni villaggio, a ogni casale i bambini robusti e coloriti erano tanti che pareva schizzassero dalle ruote della mia automobile, come schizzano le gocciole quando s’entra in un guado. Che soda materia umana! Chi può dubitare delle sorti di questa nostra razza inesauribile e incoercibile? Dimmelo.”

Di quella buona materia una parte rimarrà attaccata alla sua terra; ma una parte s’involerà verso l’avventura e la conquista, una parte metterà le ali, intraprenderà le mille e mille vie azzurre, andrà di dai mari dai deserti e dalle montagne senza più temere l’ostacolo, aprirà i tramiti senz’orme e le rotte senza scìa verso quell’Oriente estremo dove giunsero con lenta fretta i “tre Latini”.

Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole. Volgiamo le spalle all’Occidente che ogni giorno più si sterilisce e s’infetta e si disonora in ostinate ingiustizie e in ostinate servitù. Separiamoci dall’Occidente degenere che, dimentico d’aver contenuto nel suo nome “lo splendore dello spirito senza tramonto”, è divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica.

L’Italia che “sola è grande e sola è pura”, l’Italia delusa, l’Italia tradita, l’Italia povera si volga di nuovo all’Oriente dove fu fiso lo sguardo de’ suoi secoli più fieri. Non ode l’appello degli Arabi e degli Indi oppressi appunto da quei giusti che tengono la nostra Malta e ci strappano la nostra Fiume? Ad appello d’amore risposta d’amore, che non può essere se non alata, cioè spiritale. Le ali secondano oggi il senso vero della vita, che è la bramosìa di ascendere per fatica e dolore alla conquista dello spirito.

Oggi le “primavere sacre” si propagano per l’aria come il polline. Non v’è impedimento che le arresti, non v’è distanza che le affanni. Se il tempo è ringiovanito, lo spazio è riassunto. Lo stil novo del mondo è lo scorcio. Come il Mantegna scorciava una figura, ecco che una guerra scorcia la storia, ecco che un’ala umana scorcia i più lunghi itinerarii dei mercatori, i più vasti peripli dei navigatori, e d’un tratto ci fa finitimi al Cataio di Marco Polo o alla Primavista di Sebastiano Caboto.

L’Italia sia maestra anche di questi scorci aerei. L’arte del Tintoretto, che serrava in pochi palmi di tela la veemenza della folgore, passi alle calotte degli emisferi e alle carte degli atlanti

Avete udito? Credete tuttora che nella negazione nella rinnegazione nell’umiliazione e nella discordia sia bilicata omai quella bussola italiana che comparve per la prima volta alla crociata d’Egitto quando l’Italia non aveva ancor parlato per la bocca di Dante né aveva ancor conosciuto l’ultima strofe aggiunta al Cantico dell’anima e del mondo da Francesco d’Assisi?

La cercate voi negli emisferi e negli atlanti la penisola italiana per rimpicciolirla e spregiarla? V’è pur sempre in voi una piccola Italia da contrapporre alla mia più grande Italia?

Quando il Doge discese nella sala del Consiglio per ammirare i due mappamondi costruiti in sfere solide da un artefice sapiente, sùbito cercò fra tutte le regioni e le province raffigurate la sua Venezia ch’egli riteneva di vastità eguale alla volontà di potenza e all’aspirazione di bellezza. Stupito si mostrò e sdegnato quando il geografo non senza peritanza gli mise il dito in un punto non più largo d’una pupilla di falcone. E, come il suo stupore e il suo sdegno non rovesciavanospezzavano le sfere mendaci, egli non contenne l’ira e non trattenne la minaccia. Né sofferse che l’uomo sbigottito e confuso tentasse di attenuare l’ingiustizia dell’esattezza materiale. Lampeggiò e tonò percotendo il globo terrestre con la mano imperiosa come uno scettro venato: Strenzé el Mondo e slarghé la Dominante! E non era solo un gesto di comando ma di creazione.

Quando io presi Fiume senza colpo ferire e ammutolii tutte le armi e tutte le menzogne degli Alleati, credo che l’ombra di quel fiero Doge fosse meco dinanzi alle bandiere ostili ritratte in un angolo del Palazzo come lembi di scenarii logori o laceri.

Ponete mente al leggitore. Sul bivio, in quel poco d’erba rasa e in quel cerchio di pietre bianche, fu inalzata la causa dell’anima, fu glorificata la causa dell’anima immortale. Poi la mia voce mattutina fu seguìta dallo schianto della barra all’urto risoluto. E quattro potenze avevano concorso a squadrare quella barra per arrestar la marcia d’uno scarso migliaio di «folli italiani»: Italia Francia Inghilterra America!

«C’è da una parte un famoso sepolcro farisaico, imbiancato di fuori; e dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte un famoso banco di usure ricoperto con un finto lenzuolo di Arimatea; e dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte una gente inclinata a rinunziare, a dimenticare, a condonare, ad acconciarsi, a rassegnarsi; dall’altra c’è uno Spirito.

Per ciò Fiume fu invitta. Per ciò oggi è invincibile.

Noi potremo tutti perire sotto le rovine di Fiume; ma dalle rovine lo Spirito balzerà vigile e operante. Dall’indomito Sinn Fein irlandese alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello Spirito contro i divoratori di carne cruda e contro gli smungitori di popoli inermi si riaccenderanno alle nostre faville che volano lontano.

L’impero vorace che s’è impadronito della Persia, della Mesopotamia, della nuova Arabia, di gran parte dell’Africa, e non è mai sazio, può mandare su noi quegli stessi carnefici aerei che in Egitto non si vergognarono di fare strage d’insorti non armati se non di rami d’albero. L’impero ingordo che guata Costantinopoli, che dissimula il possesso d’almeno un terzo della vastità cinese, che acquista tutte le isole del Pacifico sotto l’Equatore con le enormi ricchezze, e non è mai sazio, può adoperare contro di noi gli stessi “mezzi di esecuzioneadoperati contro il popolo smunto del Pundjab e denunziati dal poeta Rabindranath Tagore “tali da non aver paragone in tutta la storia dei governi civili”. Noi saremo pur sempre vittoriosi. Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza. E la nuova crociata di tutte le nazioni povere e impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici ed accumulatrici d’ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, la crociata novissima ristabilirà quella giustizia vera da un maniaco gelido crocifissa con quattordici chiodi spuntati e con un martello preso in prestito al Cancelliere tedesco del “pezzo di carta”.

Fiumani, Italiani, il 18 maggio 1919, quando gridaste in faccia al Consiglio Supremo che la storia scritta col più generoso sangue italiano non poteva fermarsi a Parigi e che voi attendevate di piè fermo la violenza da qualunque parte essa venisse, voi annunziaste il crollo del vecchio mondo.

Per ciò la vostra causa è la più grande e la più bella che sia oggi opposta alla demenza e alla viltà di quel mondo. Essa si inarca dall’Irlanda all’Egitto, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Romania all’India. Essa raccoglie le stirpi bianche e le stirpi di colore; concilia il Vangelo e il Corano, il Cristianesimo e l’Islam; salda in una sola volontà di rivolta quanti uomini posseggano nelle ossa e nelle arterie sale e ferro bastevoli ad alimentare la loro azione plastica.

Ogni insurrezione è uno sforzo d’espressione, uno sforzo di creazione. Non importa che sia interrotta nel sangue, purché i superstiti trasmettano all’avvenire, con lo spirito di libertà e di novità, l’istinto profondo dei rapporti indistruttibili che li collegano alla loro origine e al loro suolo.

Oppugnare in me, oppugnare in voi la speranza nel giorno prossimo è tentativo stupido e vano.

Per tutti i combattenti, portatori di croce che hanno salito il loro calvario di quattr’anni, è tempo di precipitarsi sopra l’avvenire

Avete inteso? Non in questo giardino, non sotto questo faggio, ma in Italia, ma in tutta la terra, che sembrano decrepite ai decrepiti e sono giovani come «le aurore non nate», gli echi viventi rinnovellano la voce trascorsa.

Son passati tre anni? Ma l’errore persiste, ma l’orrore si propaga. E che importa la ringhiera? e che importa l’episodio? Le mura d’una città contesa possono precludere l’avvenire? i monti usurpati dal nemico possono arrestarlo? E quali giudici possono turbare colui che s’è prefissa una grande mèta non soltanto fuori di sé ma dentro di sé?

In Fiume gli oppressi respiravano il coraggio e respiravano l’orgoglio. I messaggeri giungevano da ogni parte. Talvolta ansavano quasi mortalmente come il maratoneta, se bene non recassero l’annunzio di una vittoria ma l’annunzio di un risveglio. Gli uomini delle stirpi remote aumentavano la capacità del mio petto e la rapidità del mio pensiero. Non potevo più tollerare la mia prigione, non potevo più rassegnarmi alla mia bisogna cotidiana, al mio sforzo penoso. Non potevo più ridurmi a considerare, dalla mia finestra senza rondini, le quattro gru immobili sul molo, le quattro gru tristi che sembravano quattro giganteschi patiboli in attesa delle impiccagioni. Avevo la smania di salire, di scoprire un orizzonte sempre più vasto, di bevere a gran sorsi il vento del largo, per essere solo col mio dèmone e con le figure dell’avvenire.

Radunavo la mia gente più avida, la mia gente più ariosa e più animosa; e gridavo: «A chi il domaniUnanime il coro rispondeva: «A noi!»

L’illusione s’inarcava su la radunata come l’arcobaleno. Ma, di dall’illusione giovenile, il dramma del mondo era turpe. La guerra aveva tutto scoperchiato, e non per la resurrezione. Aveva scoperchiato tutte le tombe dov’erano sepolte le vecchie cose maledette. Le cose putrefatte avevano di nuovo il soffio e il moto. L’afa del corrompimento mozzava il respiro. L’Europa non era se non un delta di cloache che sfociavano per i quattro punti cardinali, diffondendo la pestilenza.

E dopo tre anni, e dopo quattr’anni è forse domata la pestilenza? I giusti, quei giusti carnivori che conoscete a tante prove, fingono oggi un «morbo asiatico» e s’affannano a riparare e a murare i lazzaretti, con mestolate frettolose di calcina màghera, come direbbe il mio buon muratore di Settignano.

Sia moltiplicata oggi dagli echi o sia dissipata dagli echi, la voce risorge. Udite. E imaginate che la risusciti e la rinforzi il soffio dell’Altissimo.

«Domani vogliamo riconoscere il nostro vero orizzonte. Vi mostrerò l’orizzonte dello spirito di questa Fiume.

Quello che vediamo coi nostri occhi carnali è angusto. Abbiamo dietro le spalle il Luban, il Proslop, le alture che ogni mattina rimbombano ai colpi delle nostre batterie puntate a colpire un segno che non è il segno. Abbiamo davanti a noi i dossi delle isole infelici, e a destra i dossi dell’Istria maltrattata, e a sinistra il più stupido degli stupidi confini.

È questo l’orizzonte di Fiume?

L’orizzonte della spiritualità di Fiume è vasto come la terra: va dalla Dalmazia alla Persia, dal Montenegro all’Egitto, dalla Catalogna alle Indie, dall’Irlanda alla Cina, dalla Mesopotamia alla California. Abbraccia tutte le stirpi oppresse, tutte le credenze contrastate, tutte le aspirazioni soffocate, tutti i sacrifizii delusi. È l’orizzonte dell’anima libera e vindice. Come il vessillo rosso dei ribelli sul Nilo porta la Mezzaluna e la Croce, esso comprende tutte le rivolte e tutti i riscatti della Cristianità e dell’Islam.

C’è chi ha la vertigine se pensa di affacciarsi a un tanto orizzonte?

Non importa, se c’è chi può mirarlo con una sicurtà silenziosa.

Per pochi o per molti di voi la Torre civica è il massimo dell’altezza fiumana e la brutta aquila di ghisa mal decapitata è lassù il più nobile dei simboli?

Io vi dico che dal 12 settembre c’è in Fiume un’altra torre, c’è in Fiume un altro faro.

Alla torre basta un solo torriere. Al faro basta un solo guardiano.

Il faro del vostro porto è alla misura del golfo serrato. Il faro del vostro spirito è alla misura della nuova coscienza umana.

Il montanaro montenegrino, a cui il saccheggiatore serbo mozzò le orecchie strappò gli occhi e passò la lingua attraverso il taglio praticato nella mascella, come a Miliya Stamalovic, vede questa luce anche con le sue occhiaie vuote; e non dispera.

Lo sceicco di Nazlet, che ebbe dal bruto inglese uccisi i suoi figli a colpi di mazzapicchio, violate le sue donne, trascinati e calpestati i suoi vecchi, devastato il suo campo, rubato il suo armento, bruciata la sua casa, dal suo orrore e dal suo rancore guarda a questa luce; e non dispera.

Il piccolo martire dello Sinn Fein ch’ebbe dal bruto inglese abbattuti il suo padre e i suoi fratelli maggiori come cani rabbiosi in una via di Dublino e fu rinchiuso in un manicomio criminale “dal buon piacere di Sua Maestà”, scorge dal fondo della sua angoscia questa luce; e non dispera.

L’indigeno dell’Amrilsar unico superstite della strage ordinata e condotta dal bruto inglese Dwyer (anche i bruti hanno un nome) “pel buon piacere di Sua Maestà”, il fuggiasco piagato e affamato e perseguitato si volge verso questa luce; e non dispera.

Dov’è un oppresso che stringa i denti sotto la pressura, dov’è un vinto che abbia tutto perduto fuorché il bruciore della vendetta, dov’è un insorto che vada armato d’un ramo d’albero o d’un sasso contro la mitragliatrice e contro il cannone, giunge la luce di Fiume, di si scopre la luce di Fiume.

E voi non la vedete? E voi non la volete vedere?

E voi, che siete in comunione con moltitudini senza numero scosse dal medesimo sussulto, voi credete di potervi ridurre al vostro “corpo separato”, come se foste tuttavia nel cerchio della corona di Santo Stefano o sotto il guardinfante di Maria Teresa!

Non urlate. Ascoltate.

Il vino nuovo fa scoppiare la vecchia botte. Lo spirito nuovo rompe i vecchi confini.

Osate d’instaurare qui, in questi quattro palmi di terra, in questo triangolo rozzo, i modi dello spirito nuovo, le forme della vita nuova, gli ordinamenti della giustizia e della libertà secondo l’inspirazione del passato e secondo la divinazione del futuro; osate di scolpire qui coi ferri stessi del nostro lavoro una imagine dell’Italia bella da opporre a quella che su l’altra riva par divenuta la baldracca straccia dei bertoni elettivi; osate di cancellare qui ogni segno di servitù morale e sociale, voi che credete di avere assolto il vostro cómpito tagliando una delle due teste all’aquila bicipite e lasciando intatta quella sua carcassa tra di tacchino croato e di corbaccio ungarico; liberate, dopo tanta pazienza, il vostro giovine vigore, inventate la vostra virtù, afferrate il vostro destino, gettate al rigattiere il sigillo di Maria Teresa e figurate il vostro con la vostra impronta. Di sùbito non sarete più una mummia di “corpo separato”; sarete una nazione vivente, una grande nazione vivente, una grande forza umana operante e militante

Avete udito? Questa ultima eco si prolunga di dal mare, si propaga di da quel mare nostro che non cessa di volgere nei suoi flutti il suo antico potere di fatalità e di creazione. Ma io conosco il Corano come conosco il Vangelo, e so cingere la mia fedeltà con la corda di palmizio come col cordiglio. E non io, come la donna di Ablheb, spargerò le spine per dispregio sul cammino di Maometto. E, se io fossi per appellarmi al Capitolo della Separazione, scritto nella Mecca, non vorrei eleggere fra i sei versetti se non quello che rappresenta Dio in atto di separare la chiarità dall’oscurità, e quello che pone l’incauto o l’impetuoso in guardia contro l’intrico delle reti e dei lacciuoli.

E dai versetti maomettani ai versi petrarcheschi non può esser lento il trapasso per chi ha sempre l’ala pronta. E io non perdo e non voglio mai perdere il destro di riporre in luce la sagacità e l’universalità italica.

Meditate questi, che a me sembrano salati nel sale stesso del Mediterraneo:

V’erano di lacciuoformenuove...

Che perder libertate ivi era in pregio!

E dedichiamo quest’altro ai negoziatori e ai ciurmatori d’ogni razza:

Tanti lacciuol, tante impromesse false...

Non è da trascurare un tal comentatore insospettato del capitolo penultimo, se già un pittore italiano ritrasse con tanta profondità le sembianze del secondo Maometto. Ma, se Misser Zentil tornato in Vinegia si nominò «dalla collana turca» avuta in dono, io son pago di aggiungere alcuna bella pagina italiana alla Collana degli Storici. Fortitudo eius Rhodum tenuit. E non a caso ricordo il motto, dedicandolo alla Consulta non distante dal Quirinale, in memoria di quell’Amedeo primo che difese Rodi contro l’Infedele. E non posso tenermi dall’addurre una osservazione dell’antico illustratore di tale emblema. «Si trova il medesimo rovescio (che con altro nome non si dee chiamare) figurato dentro a un cerchio fatto da una serpe con le medesime parole.» Come vedete o forse non vedete, ci sono concordanze subitanee, riscontri inattesi, saggi avvertimenti e chiari presagi da scoprire anche in un libercolo impolverato e tarlato, se bene a tanti Italiani sembri che tutti li contenga il solo eterno libro di Dante.

Ai disorientati non basta dunque rivolgersi verso l’Oriente, neppure se abbiano confiscato l’olio del Santo Sepolcro per riempirne le ampolle salutari. La mistica salute è riservata ai Latini, a quelli di nobiltà certa e d’intatta fede. E credi, o mia gente, che i «tre Latini», i tre Polo, possono partirsi da Acri un’altra volta. E, se qualche sognatore m’ha veduto a capo delle truppe espugnatrici e devastatrici di Smirne, io non escludo – neppure col mio sorriso più sottile – non escludo che altri possa riconoscermi, in uno dei prossimi giorni, davanti a Costantinopoli armato della stessa forza che nella luce meridiana del 12 settembre 1919 spezzò e superò la barra di Cantrida. Un condottiero italiano non arde e non dirocca la città di Santa Sofia. Un liberatore italiano sa ritrovare, pur di dal folto dei secoli e dal fumo degli incendii, quell’aroma di neo-platonismo che lasciarono fluttuante per le rive del Bosforo gli ellenisti in migrazione verso il Rinascimento d’Italia.

Conosciamo quale valore strategico la vorace Inghilterra abbia già conferito all’Egitto ch’ella considera tuttora come il capo della difficile matassa orientale, ché non vanamente per sedici mesi avemmo a Fiume fra le bandiere di guerra quella rossa della Mezzaluna e della Croce commiste. L’Egitto non si congiunge all’Asia per mezzo della penisola sinaitica percorsa dalle vie della Siria, della Mesopotamia e del Golfo Persico? E il Mar Rosso – le cui non fide acque svolgono tuttora le bibliche vicende – il Mar Rosso non si sforza verso la Siria e verso la Mesopotamia per il golfo d’Akaba a levante del paese faraonico? E, come a ponente pel golfo di Suez sembra volersi irradiare verso il Mediterraneo, non tenta esso con l’Oceano indiano un connubio australe attraverso lo stretto di Bab-el-Mandeb?

Compagni di vela e di remo, compagni di vanga e d’aratro, compagni d’arme e d’ala, non giova che ci indugiamo a studiare il mappamondo per riconoscere con la massima precisione quanta sia la preponderanza inglese, da Alessandria ad Alessandretta, da Cipro a Porto Said, da Aden a Socota. Saremmo tentati di ripetere a rovescio il grido del Doge iracondo. Ma sub tegmine fagi, se bene il faggio sia purpureo e della più vivace porpora, limitiamoci a osservare come nessuna usurpazione e nessun acquisto possano esser durevoli senza quei «fattori morali e sociali» che oggi non son più considerati cause e mezzi intesi a un effetto previsto ma neppur quantità convenienti a formare un prodotto ben calcolato.

C’è tra voi chi crede che l’Inghilterra possa farsi patrona sincera del moto nazionale arabo? C’è tra voi chi scambia per messaggero alato della Resurrezione il falso angelo prerafaelita posto dal maresciallo Allenby su l’orlo del Santo Sepolcro? C’è tra voi chi giura che alla medesima ombra il giardino compreso fra l’Eufrate e il Tigri sia per riprosperare come al tempo di Ciro o del Macedone?

Il dramma della Mesopotamia è legato a quello dell’India ben più vasto; e il dramma dell’India è covato dalla Russia che, pur avendo abolito il vecchio regime e pur avendo patito nella fame e nella strage la profezia dell’esangue primogenito di Pietro il Grande, non ha respinto e non respinge da sé i secolari suoi disegni ambiziosi verso l’Oriente. E invano l’Inghilterra cerca di interporre fra l’India e l’azione palese o coperta della Russia bolcèvica due stati cedevoli ed elastici come l’Afghanistan e la Persia. Entrambi respingono il comodo officio e scuotono la tutela odiosa.

Basta. Vi faccio grazia di quel che da tempo, fin dai giorni torbidi del Carnaro, «io vedo pur con l’uno».

L’Asia si risveglia, l’Asia si ringiovanisce, l’Asia si rialza e cammina. «Quale fatto storico è comparabile in grandezza alla resurrezione asiatica, al subitaneo ringiovanimento che rinnova la sacra Asia, la regione dell’ampia e sublime unità?» Così parlava agli Italiani guerci e obliqui, or è più di quindici anni, l’innominato che ci vedeva bene anche con due ma che nel sonno s’era abituato a chiudere un occhio solo, come in Maromb o in Coritibani il filibustiere nizzardo avvolto nel suo poncio forato dal piombo delle carabine mercenarie.

Lasciate nitrire nel prato i bellicosi cavalli omai concessi all’agricoltura paziente. Non vedete che c’è qui al mio fianco il mio Antonio Locatelli, un altro familiare della morte, lieto di assicurarmi il «passaggio d’oltremare» molto più veloce? Ma santo Francesco, che seppe esser pedestre e celeste in tutta la sua milizia, mi rimormora in cuore: «L’azione senza grazia è una vecchia sella che da ogni cavalcatore è rimendata e rimbottita alla meglio o alla peggio; e la gualdrappa, di sotto o di sopra, è sempre di quella rascia che si chiama libido dominandi; e l’arnese è sempre il medesimo, sia la sella alla britanna o sia alla caramana, alla gianetta, alla turchesca...»

Sediamoci dunque un poco su questa dolce erba di Dio e salutiamo anche noi l’ora di mezzogiorno che salutano tutte le campane del Garda. Io stendo al sole questo mio povero ginocchio piagato e questo mio povero fùsolo contuso, perché me li guarisca. Non me li serrava e offendeva la catena ribadita dell’azione straniata dalla volontà esemplare e dalla causa finale?

L’azione può anche essere una catena servile talvolta. O vanità e ignominia!

Ecco il tirannico Nerone che su l’orlo della pozzanghera rimpiange la sua acqua bollita; ma ecco il tirannico Silla che non pregia se non la sua profonda libertà e che confessa al filosofo: «Se fossi nato tra i barbari, avrei tentato di conquistare il dominio non tanto per comandare quanto per non obbedire

Fra le tante offerte della nostra gentilezza non morta, io ricevetti nei primissimi giorni della mia convalescenza da una umile donna la medaglia di Sant’Elena, la medaglia di bronzo dov’è effigiato l’esule Imperatore e dove sembra coniato «il suo estremo pensiero pei suoi compagni di gloria». La donatrice m’abbandonava la sua più solenne reliquia, la rimembranza d’uno dei suoi maggiori. E la reliquia era sospesa a un cerchietto di perle e a un lembo dello stendardo imperiale.

La serbo, come oggetto di meditazione. Eccola: nel breve orbe di bronzo vuole includere l’intiero orbe umano! E quanto pesa? Uno di questi fili d’erba pesa di più. E anche quest’erba di settembre parla il latino, parla il nostro latino, come Nerone, come Silla, come Giulio Cesare. Dice: Ubique vigeo. Dice: Me ipsam pando. Dice: Invicta maneo.

Adolescente, il Còrso non era scarnito soltanto dalla sua malinconia ma dalla verace fame. Console, conobbe l’opulenza e l’ossequio. Capitano di ventura avventurato, dominò il mondo, improntò di sé l’Impero. Ma il savio, col bronzo di Sant’Elena nell’una palma e con un fil d’erba nell’altra, comenta: «Tanta passione, tanta audacia, tanta potenza, tanta sapienza, per finire nell’isola deserta con un misero rimpianto epulonesco, quasi speculatore di bassa nascita caduto in rovina! Di tutte le sue fortune egli non aveva dunque ritenuto in cuore se non il rammarico del suo prezioso vasellame da mensa! Di tutti i suoi lagni il più costante era quello d’esserne omai privo

E il savio scuote da sé l’amarezza umana, china il capo tra ombra e sole; poi soggiunge, non senza sorriso forse benigno: «Gabriele, figliuolo di pietosa ma potente madre, a te sia bello per sempre, nel tuo ricordo pacato o ansietato, rimpiangere il grappolo di Ronchi posto dalla pietà senza figura accanto alla tua branda fatta dalla tua febbre rogo e fornace. Uomo non inermestanco, e per sempre ti sia bello rimpiangere la gocciola d’acqua piovana rimasta nella pietra cava del Carso, la gocciola del cielo preziosa e casta che l’ignoto fante trasfigurato in angelo grigio seppe offerirti di dalla sete mortale e di sopra la morte immortale

21 settembre 1922.


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