Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'armata d'Italia
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Epilogo

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Epilogo

Io sono molto lieto d’aver condotto a compimento questa impresa verbale contro l’onorevole Ministro della Marina, in favore della giustizia e della verità. Sono lieto e tranquillissimo. In tutte quante le mie accuse è tal fondamento di osservazione spregiudicata e spassionata, tale sicurezza di particolari prove, una lealtà così schietta, una ricerca così manifesta del meglio, ch’io non posso avere, terminando, dubbii o inquietudini o pentimenti nell’animo mio.

Né posso convenire d’aver troppo presunto di me, scrivendo intorno ad un argomento assai lontano da’ miei studii abituali. Molti, naturalmente, si son meravigliati leggendo il mio nome in fondo a un capitolo su gli arsenali marittimi o su i marinai torpedinieri o su la leva di mare. Il mio nome, per lo più, suona negli orecchi della gente legato a una elegia o a un sonetto. Io faccio professione di poeta lirico e di novellatore, al conspetto del popolo italiano; e, fino a ieri, le mie imprese di guerra erano contro i cattivi rimatori e contro i cattivi dipintori.

Naturalmente, a formare la mia autorità di uomo di mare non bastava né un igneo libro di versi marini né la favolosa navigazione che io feci nella scorsa estate, sopra una nave d’una tonnellata, pel magnifico Adriatico. Quella navigazione, è vero, fu anche molto letteraria. Io era, in quei giorni, invasato dagli spiriti del divino Annibale Caro; e, stando seduto su la poppa «a guisa di papasso», piacevami infondere il giovial nettare di quella prosa nel selvatico cuore del nostromo Ippolito Santilozzo. Il quale, arso e chiomato come un barbaro, fumava tabacco di Dalmazia, alla palpitante ombra della vela latina; e pensava forse la sua bella in Dignano e il vino di Dignano che ha il profumo delle rose di maggio.

Oh Civitanova, tutta di fiamma nel tramonto, a specchio dell’immobile mare, rammenti tu la mia salutazione solenne nel nome del tuo divino figliuolo?

Ma quell’avventura lirica, per circostanze speciali, fu cagione ch’io mi trovassi per qualche tempo in mezzo a gente marina e ch’io potessi agevolmente portare su le cose navali quel medesimo spirito di osservazione che avrei portato nello studio d’un fenomeno d’arte. Mi misi all’opera con grande ardore, poiché quella materia mi attraeva; e raccolsi una messe abondante. Venuta l’occasione, ho trebbiato. Ecco tutto.

Io non sono e non voglio essere un poeta mero. Al perfetto rimatore Théodore de Banville piacque confessare, nel ritornello d’una delle sue trentasei ballate mirabili: «je ne m’entends quà la métrique!» A me, invece, codesta perpetua professione di prosodista non va. Tutte le manifestazioni della vita e tutte le manifestazioni dell’intelligenza mi attraggono egualmente. E credo d’aver pienissima libertà di portare il mio studio e la mia ricerca in ogni campo, a patto che il mio studio sia conscienzioso e la mia ricerca sia giusta.

Ora, il mio studio e la mia ricerca, su le cause che determinano la presente debolezza del nostro esercito di mare, sono il frutto della osservazione esatta e pura; e sono perciò rispettabili, ed hanno perciò un peso. Non è necessario essere un grande stratego o un ammiraglio illustre ed aver consumata la giovinezza su i libri d’arte nautica e di tattica navale, per avere il diritto di esaminare l’ordinamento di un’armata. Io non ho agitato questioni tecniche su i diversi tipi delle navi e su la maggiore o minore efficacia delle armi; e non ho voluto nemmen riassumere le varie e cozzanti teorie sul proposito. Io, con criteri precisi e con una precisa cognizione dei fatti, mi sono occupato delle persone. Ed ho compiuto il mio studio direttamente, senza divagare.

Queste dichiarazioni posson forse parere oziose a’ miei lettori. Ma io le faccio per rispondere alle epistole che mi son piovute e mi piovono da ogni parte, più numerose e più petulanti delle cavallette apparse in questi giorni nella campagna di Roma.

In vero, io non pensava, accingendomi a scrivere, che i miei capitoli avrebbero suscitatofiero tumulto non tanto per le cose esposte quanto per il fatto che quelle cose erano esposte da me. E nemmeno pensava che quelle verità, rivelate con durezza insolita, avrebbero suscitato il plauso ardente de’ migliori uomini che oggi abbia l’armata d’Italia. Io, ripeto, sono lietissimo d’aver compiuta l’impresa. – Le accusedice Niccolò Machiavelligiovano alle repubbliche.

Voglia Iddio che le accuse giovino a Benedetto Brin e ch’egli giunga in tempo a provvedere. E voglia Iddio che Simone di Saint-Bon, contro gli intrichi della gelosia, venga conservato all’esercito di mare e venga il consiglio di lui ascoltato e seguìto nell’avvenire. – Gli intelletti più altisecondo la sentenza d’un altro storico insigne, del Macaulay –, come i culmini delle montagne, sono i primi a scorgere ed a rispecchiar l’aurora. Brillano, mentre l’inferior falda è ancóra nella oscurità. Ma ben presto la luce, che illustrava soltanto le più ardue alture, scende al piano e si spande fin nelle valli più profonde. L’opinione giusta, eletta prima da un pensatore ardito, diventa quella d’una debole minoranza, poi d’una forte minoranza, e finalmente della maggioranza degli uomini.

Un ministro il quale amasse di sincero amore la Marina, dovrebbe, invece di perdersi nelle miserie delle guerricciuole di gabinetto, portar risolutamente il ferro nelle piaghe e recidere senza paura e senza misericordia. Il solo Riboty, fra quanti ministri della Marina ha avuti l’Italia, mostrò coraggio virile; e diede un esempio bellissimo d’integrità e di fortezza, quando mettendo a riposo gli ammiragli Tholosano, Wright e Anguissola, mise a riposo sé stesso contemporaneamente. Benedetto Brin, invece, par che sogni un’avventura in cui sieno ammiragli il Civita e il Bertelli, sotto gli ordini suoi, e istoriografo encomiatore sia Rocco de Zerbi.

Giulio Cesare, andando in Ispagna contro ad Afranio e Petreio, disse: «Vado ad exercitum sine duce.» Quando andò in Tessaglia contro Pompeo, disse: «Vado ad ducem sine exercituOggi un Nelson, un Farragut, un Tegethoff, venendo contro l’armata nostra, potrebbe sventuratamente proferire e l’uno e l’altro motto.

Dio protegga l’Italia!

Giugno, 1888.



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