Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Tre preghiere dinanzi agli altari disfatti

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Tre preghiere

dinanzi agli altari disfatti

OFFERTA

Quando in Roma si spensero le ultime vite insigni, fiaccole nel vomito della crapula riverse con vano stridore, la discendenza bastarda dell’antica plebe infettò delle sue immondizie il fonte di Giuturna;

e trattò l’aula del Senato Romano da grotta sepolcrale comoda a ricevere tre ordini di locelli scavati nelle pareti impallidite come la canizie dei Padri incolta e taciturna;

e per tutte le grandi vie delle legioni dipartite con l’auspicio e ritornate col trionfo, dalla Latina all’Appia, scoperchiò e dispogliò i sepolcri, impune dalle Furie;

e delle arche fece trògoli e beveratoi; e svelse le lastre congegnate che recavano il solco della quadriga e serbavano il fremito delle centurie.

Non meno vilemen folle, il bastardume d’Italia spezza gli altari dei martiri vermigli, e con le pietre aguzzate ancor tenta lapidar la Vittoria di bronzo.

Rimbalzano contro i ceffi le pietre. Le unghie turpi si celano. Con la tenaglia e la maschera il Fante senza nome cala al Tevere, dal monte igneo che parve un con le sue radici inferne disseccare l’Isonzo.

Arso aveva gli altari il primo nemico, polluto aveva le specie, disperso le reliquie, nelle case dell’Iddio nostro, sommosso le lapidi, corrotto i fonti del battesimo sacri al non nato.

E questo, più feroce e più tetro, fa onta alla genitrice eterna che Iddio ci diede, fa monchi nel grembo profondo i nascituri, oppone al martirio il misfatto, all’offerta il mercato.

O cielo della battaglia! O cielo della mia preghiera cruenta! O ara dell’eroe figliuol d’uomo sul monte dai quattro gioghi, sul monte dai dieci e dieci e dieci assalti abbeverato di più sangue che non n’abbian bevuto tutte le are votive!

Ecco, o fratelli curvi, ecco tre canne dell’organo carsico, tre canne dell’organo percosso, ch’io rinvenni sul petto di tre morti incrociate con l’acciaio dell’arme, o miei fratelli, sul triplice cuore che in me rivive.

Stillavano sangue le tre canne in salvo rapite alla cantoria degli Schiavi, forse in vista di Santa Gorizia, forse a San Grado di Merna: sangue di confessione; e brillavano più del fucile.

Stilli da queste preghiere, alzate nelle pause della battaglia dal combattente che in ginocchio ebbe l’unica sua luce fisa alla mira, oggi stilli da queste preghiere su i vostri crucci il medesimo sangue d’Italia: il «latin sangue gentile».

23 settembre 1922.

LA PREGHIERA DI DOBERDÒ

1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell’altare maggiore.

2. Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue stìmate di amore.

3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio.

4. Non ha più tovaglia la tavola dell’altare, né candellieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né messale, né leggìo.

5. A mucchio su la tavola dell’altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange.

6. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.

7. Gli elmetti ch’eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura.

8. Le scarpe ch’eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l’orlo della sepoltura.

9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia morranno, gravano l’altare del sacrificio incruento.

10. Solo v’è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un’imagine di purità e di patimento.

11. Il medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno malferma scrive le sue tristi tabelle.

12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso e di bruno, poggiano le bianche barelle.

13. I feriti dell’assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia.

14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso d’infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della battaglia.

15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabelle quadre legate al collo da un filo, ov’è scritta la piaga e la sorte.

16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l’angelo col dìttamo bianco o col papavero nero la morte.

17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con volti intagliati dall’ascia latina. Domina taluno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca.

18. Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude taluno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca.

19. Biondi e foschi, pallidi come l’abete della gabbia che chiude la granata dall’ogiva d’acciaio, fuligginosi come se escissero fabbri lesi dalla fucina tremenda.

20. Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d’ogni benda.

21. Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della Passione furono abbattute o distrutte, tranne una: la sesta.

22. E, com’essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d’una santità vivente come quella che precede il Signore quando si manifesta.

23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i grumi, con negli occhi di fiera l’ardore intento della fede novella, non è simile ai giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il Figliuolo dell’uomo non avea pur dove posare la guancia?

24. E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgineo volto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia?

25. Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di grazia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale.

26. E qui sanguina l’Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice, sanguina Sicilia l’aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna immortale.

27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una sì vasta cupola in gloria?

28. È l’artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il barbaro schiavo e guata di dalla vittoria?

29. Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s’addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al penare.

30. Entra una barella carica d’altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d’elmetti forati. Si ferma davanti all’altare.

31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.

32. Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d’erba calcata, con qualche foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange.

33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e non s’ode. Tanto ama, e rompersi non s’ode il suo petto.

34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l’infermo della piscina, l’uomo di Betesda, sul letto.

35. Forse non sa ch’egli è cieco. E dice anch’egli forse nel cuore: «Figliuolo dell’uomo, abbi misericordia di me.» Ed ecco appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov’è scritto il male e il destino.

36. Ma d’improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l’ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l’altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l’ambascia, l’attesa. Getta un grido, due gridi. un guizzo di luce. Ha seco il mattino.

37. E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d’una stagione sublime le facce del glorioso dolore.

38. E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul gomito, con l’anima trapassa le fasce, si tende verso l’ala invisibile che muove l’aura del miracolo intorno. E ode ridiscendere nella casa disfatta il Signore.

@ Novena di San Francesco d’Assisi.

Settembre 1916.

LA PREGHIERA DI SERNAGLIA

I

1. Chi risponde? La bocca d’un uomo può dunque portare una parola che pesa come il sangue di tutti?

2. Chi risponde? È la voce d’un uomo questa che varca l’oceano inespiato e gonfia i suoi flutti?

3. Chi giudica? Lo spirito solo d’un uomo si fa spada infallibile e taglia il groppo di tutte le sorti?

4. Chi giudica? Chi è che non teme di parlare dove sol regna il silenzio di Dio e dei morti?

5. Ha egli imposto l’alterno suo polso a quel mare implacato che non ebbe mai rive a serrar le procelle?

6. Ha egli come il re tebano sposato la novella Armonia, e alla città spirtale cantato le leggi novelle?

7. Chi s’alza oggi arbitro di tutta la vita futura, sopra la terra ululante e fumante?

8. Donde è venuto? dalle profondità della pena o dalle sommità della luce, come l’esule Dante?

9. O solo è un savio seduto nella sua catedra immota, ignaro di gironi e di bolge?

10. O solo è un interprete assiso dinanzi al polito suo libro, che nessun vento ignoto sconvolge?

11. Non so; né m’inclino al responso lontano, né indago i legami tra sillaba e sillaba accorti.

12. Serro l’animo spietato nel cuore, l’arma provata nel pugno; e ascolto il silenzio di Dio e dei morti.

II

13. Chi risponde? Chi giudica? Non l’uomo seduto, né l’uomo diritto, né il codice né la bilancia.

14. Risponde chi per parlare sputa il fango ch’ei morse cadendo o si netta dalle lacrime di sangue la guancia.

15. Risponde chi per parlare rompe lo stridore dei denti e l’ambascia, col giogo bestiale sul collo.

16. Risponde chi col moncherino grondante scrisse l’abominio e il taglione sul muro superstite al crollo.

17. Risponde chi nel patire eccedette i limiti del patimento posti al misero dalla pietà del Signore.

18. Risponde l’umana e divina agonia cui fu Ghetsèmani tutta la terra cospersa di atroce sudore.

19. E alcuno invocò sul misfatto la clemenza del Figliuol d’uomo? Ecco. Mano per mano, dente per dente, occhio per occhio.

20. Non il sermone laborioso ma il doppio taglio della spada forbita fa la luce al nemico in ginocchio.

21. Il Figliuol d’uomo essi tolsero di croce non per comporlo nella pietra col panno lino e l’unguento,

22. ma per riflagellarlo e ricoronarlo di spine e risaziarlo d’ingiurie e partirsi il suo vestimento.

23. Ti sovvenga, o Clemenza. Del suo lenzuolo e del suo sudario e delle sue bende fecero vincoli e corde:

24. vincoli per legare le mani e i piedi forati delle nazioni, corde per strangolarle a stràscino, o Misericorde.

III

25. Non sono un rammemoratore d’immemori e un riscotitore d’ignavi. Ma, se nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa.

26. O pace inviata alla tristezza degli uomini non come nivea colomba ma come serpe viscosa!

27. Che mai resta nel mondo, ch’essi non abbiano guasto e corrotto? Più pestilente è il lor fiato che il vomito dell’avvoltoio.

28. Partire voleano col ferro la somma dei secoli, tra dominio e servaggio. Ogni stirpe era morchia di macine, e la terra il lor grande frantoio.

29. Hanno arso i duomi di Dio dove battezzammo i nostri nati, portammo le nostre bare, prostrammo il nostro cuor tristo.

30. Hanno abbattuto i nostri altari, fonduto le nostre campane, contaminato le nostre reliquie, maculato le specie di Cristo.

31. Lordato hanno le nostre case, scoperchiato i nostri sepolcri, sterilito ogni solco, divelto ogni erba e ogni fusto,

32. disperso i semi, corrotto le fonti, percosso i vecchi, forzato le donne, fatto monco ogni fanciullo robusto.

33. Il lagno d’Isaia si rinnova: «Tutte le tavole son piene di vomito e di lordure; luogo non v’è più, che sia mondo

34. Ma Colui che già pianse per Lazaro, Colui che sopra Gerusalemme già pianse, Colui che già pianse nell’Orto, oggi piangere non può sopra il mondo.

IV

35. Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su l’omero scarno, né inchiodate le palme all’infamia, né i piedi trafitti.

36. Né sfolgora come quando l’angelo rotolò dal sepolcro la pietra ed Egli sorse, ed apparve agli Undici afflitti.

37. Ma lo vede ogni fante, simile a sé, con l’elmetto del fante, con le uose del fante, col sudore e col sangue del fante, allato allato.

38. Cade anch’Egli, come quando portava la croce; cade e si rialza. E, come quando riprendeva la croce, riprende la sua arme e il suo fiato.

39. Resiste, perdura, persevera, a fianco dell’uomo. All’uomo dona il suo cuore divino e la sua lena immortale.

40. Si volge l’ispirato sentendo crescere nel suo petto la forza; e vede al suo fianco penare e lottare un eguale.

41. Lotta Egli e pena con noi. La sua arsura, che lambì la spugna intrisa nell’aceto e nel fiele, si disseta alla nostra borraccia.

42. Suda e ansa con noi. L’offerta rinnova del suo sacrifizio ogni giorno spezzando con le mani piagate il pane della nostra bisaccia.

43. Egli che all’ora di nona gridò: «Dio mio, perché m’hai lasciato?», Egli ben sa quanto costi l’intera vittoria agli eroi.

44. Non ha Egli pur riudito lo scherno? «Se tu sei l’eletto di Dio, salva te stesso. Se il Cristo tu sei, salva te stesso, e noi.»

45. Or Egli vince. Con noi vince. Chi credette nell’anima, ora vince per l’anima. Chi accettò la morte, ecco vince per la vita immortale.

46. La forza dell’anima pura precipita le nostre legioni fangose, e in carne tanta non sente il suo male.

47. Chi l’arresta? Dove sono i valli insuperabili? dove gli impenetrabili petti? Dov’è mai la lor ferrata muraglia?

48. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Son fuggiti dinanzi alle spade, dinanzi alla spada tratta, dinanzi all’arco teso, e dinanzi allo sforzo della battaglia

49. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guai a te che predi e non fosti predato. Quando finito avrai di predare, predato sarai tu senza mora

50. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guardia, che hai tu veduto dopo la notte? Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?» L’aurora! L’aurora!

V

51. O stagione di rapimento improvvisa, che la primavera non sei e non l’autunno ma quella dove il lauro eternale allega i suoi frutti!

52. O spirito rapido che rifecondi le piaghe della terra e susciti il fremito della messe futura dallo strazio dei campi distrutti!

53. O fiumi rivalicati, gonfii di giubilo, come le vene che portano l’orgoglio al cuor della Patria e sino alla sua fronte il vermiglio!

54. O valli disgombre dove torna una così pura dolcezza che i morti sembran quivi dormire nel grembo di Maria come il Figlio!

55. O canti sovrani, santissimi tra gli inni più santi, alzati dall’agonia degli oppressi che sentono i liberatori alle porte!

56. O vincoli, o spine, o flagelli, rinnegamento e vergogna, soma e ambascia, sete e fame, sanie e sangue, o passione di Cristo e del mondo, o vittoria di dalla morte!

57. Chi muterà questa grandezza e questa bellezza impetuose in disputa lunga di vecchi, in concilio senile d’inganni?

58. Inchiostro di scribi per sangue di martiri? A peso di carte dedotte ricomperato il martirio degli anni?

59. Se il mutilatore è in ginocchio, se leva le sudice mani, se abbassa il ceffo compunto, troncategli i pollici e i polsi, rompetegli zanne e ganasce.

60. Stampategli il marchio rovente fra ciglio e ciglio, fra spalla e spalla. Né basti. Tal specie, se in paura si scioglie, poi dalle sue fecce rinasce.

61. E passate oltre. Vi precedono i morti. Rimasto ai morti, ai sepolti e agli insepolti rimasto è l’osso del tallone integro per calcare la terra straniera.

62. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Per l’anima delle creature che hanno spasimato di fame a ogni capo di strada; e mani non avean da giugnere nella preghiera

63. Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchitarparti le penne. Dove corri? dove sali?

64. La tua corsa è di dalla notte. Il tuo volo è di dall’aurora. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «I cieli sono men vasti delle tue ali

@ Novena di tutti i Santi.

Ottobre 1918.

LA PREGHIERA DI AQUILEIA

Combattenti, compagni, or è un anno, per Ognissanti, io seppi rompere il nodo della mia gola e gettare il grido della riscossa verso voi fermi su la riva disperata.

Quelli che di voi son vivi se ne ricordano. E quelli che sono morti se ne ricordano.

In tutte le chiese diroccate, davanti a tutti gli altari profanati o disfatti, per tutte le diocesi colpite dal flagello, per tutte le rovine che verso la Salutazione angelica fumavano miracolosamente non più di barbarico incendio ma d’italico incenso, per tutte le case di Dio e per tutti i carnai benedetti, da Fener a Musile, da Salgareda a Noventa, da Vertoiba a Sagrado, da Colmirano a Vodo, per ogni sacrario senza bronzi e senza ceri, la preghiera dei vivi ai morti era inalzata senza pause, era inginocchiata senza requie.

O morti che siete in terra come in cielo,

sieno santificati i vostri nomi,

avvenga il regno del vostro spirito,

sia fatta in terra la vostra volontà.

Date il pane cotidiano alla nostra fede.

Tenete acceso in noi l’odio santo, come noi non rinnegheremo mai il vostro amore.

Allontanate da noi ogni tentazione infame,

liberateci da ogni dubbio vile.

E, se è necessario,

combatteremo non fino all’ultima goccia del nostro sangue

ma con voi fino all’ultimo granello della nostra cenere.

Se è necessario,

combatteremo fino a che l’Iddio giusto

non venga a giudicare i vivi e i morti.

Così sia.

Non c’era più se non un fiume in Italia, il Piave: la vena maestra della nostra vita. Non c’era più in Italia se non quell’acqua, soltanto quell’acqua, per dissetare le nostre donne, i nostri figli, i nostri vecchi e il nostro dolore.

Il cielo era chiuso; la terra era lugubre. La disfatta dal ceffo bestiale grufava nel fango lordato dalle calcagna dei fuggiaschi. Tutto pareva perduto, tutto pareva finito.

La Patria era crocifissa. Aveva avuto la sua notte degli Ulivi, la sua angoscia mortale, il suo sudore di sangue, il bacio dell’infamia, la lividura della vergogna. Aveva dovuto patire il tradimento e la rinnegazione. Come la vittima che sedette tra i suoi all’ultima cena, aveva potuto dire: «La mano di colui che mi tradisce è meco.» Se col Maestro erano gli undici fedeli, con la Patria erano le sue undici vittorie.

E la dodicesima fu l’«Oscura», quella chiamata oscura per l’avversario. Ma anche quella era nostra. Ora tutti voi lo comprendete, se io ve lo dico.

Dico che era nostra. E l’afferrammo, e la piantammo su la riva disperata, la radicammo nel confine tremendo, la voltammo così motosa e sanguinosa contro l’invasore. Su quella riva della morte la tenemmo come la nostra prigioniera immortale.

Era la vittoria carsica, la vittoria alpina, la vittoria romana insomma, la nostra, vi dico: questa, o resistenti, o combattenti.

Era giovine? era adulta? Non importa. Oggi ha un anno di più: ossa più robuste, muscoli più potenti, fronte più dura, sguardo più certo.

E quel che io dissi era vero. Ha fatto le ali nuove, ha rimesso le ali dalle cicatrici non chiuse.

Dissi, or è un anno, per Ognissanti: «Rivolerà velocissima laggiù su le fronti dei nostri morti che tutti l’attenderanno in piedi

O vincitori, o compagni, è vero. Laggiù, tutti i nostri morti sono in piedi, di qua e di dall’Isonzo. Valgono in statura e in forza voi che siete vivi e che avete il passo veloce come il volo. Fra poco si mescoleranno con voi e ricombatteranno. E li riconoscerete, e li chiamerete per nome. E tutti i loro nomi commemorati saranno le faville sublimi della battaglia.

O fanti, e io voglio chiamare il fante dei fanti: Giovanni Randaccio.

Domani in Aquileia, nella basilica latina di Nostra Donna dell’Aspettazione, nella chiesa nostra guerriera, sarà celebrato l’ufficio, come quando il Duca magnanimo parlava davanti ai soldati, ai secoli e ai cipressi. Domani laggiù i nostri morti primi, i nostri martiri primi, sorgeranno e scoperchieranno l’arca di Giovanni Randaccio, tra i due cipressi; rotoleranno la pietra greve, come fa l’angelo della Resurrezione.

E il fante dei fanti, pieno di ferite radiose, verrà incontro ai suoi battaglioni, con la lena della vittoria nella bocca.

Avanti! Avanti! Ogni minuto è un’ora, ogni ora è un giorno, ogni giorno è una settimana di gaudio e di potenza, di giustizia e di giubilo. Abbiamo aspettato un anno; e la passione d’un anno divora davanti a sé il tempo ansioso. Non c’è sosta, non c’è tregua, non c’è sonno. Se fu rapido l’abbandono, più rapido sia il riacquisto. Il vostro passo è come il volo. Tale pur sembra dall’alto a noi che voliamo sopra i segni del fuoco; e l’invidia ci morde il cuore. O beati, o benedetti, il nostro cielo è pieno d’invidia.

Voi calcate la terra; voi sentite sotto il piede la dolce terra che liberate; voi ristampate di voi la pura sostanza vostra.

Beati e benedetti!

Ridateci i nostri campi, dove noi possiamo ridiscendere e ritrovare la prima nostra allegrezza e ritrovare il tuono del nostro primo alalà. Ridateci i nostri campi veneti, di dove partimmo tante volte per vincere o per morire, per esser fiamma nel vento o rogo su la rupe. Ridateci la Comina, ridateci Aviano, ridateci i nostri bei prati lisci distesi sotto i nostri bei monti azzurri.

Voi beati! Voi benedetti!

Il grido di Oslavia ritorna e si ripercote: «Bisognerebbe baciare dove posano il piede, quei fanti

Un giorno di maggio non vi giurai che per ogni tratto mantenuto, per ogni pollice ripreso, per ogni linea spinta più innanzi, dove aveste puntato il piede, la Patria avrebbe baciato l’impronta?

Ma sieno così celeri le vostre impronte che la Patria non si possa più chinare a baciarle tutte.

La Patria oggi rimanga laggiù, diritta, dietro l’esercito dei morti, con la faccia e le braccia verso di voi, coronata dall’alloro di Aquileia romana, inebriata e magnificata dalla prima offerta e dall’ultima offerta.

Domani sarà presente e vivente con tutti i martiri, con i primi e con gli ultimi, laggiù nella Chiesa Madre della nostra Guerra santa.

Fate ch’ella oda, sopra il cannone, approssimarsi il vostro inno implacabile, misurato dai colpi del martello gigantesco che sprigiona dal masso del Grappa, o fanti, la statua della vostra gloria.

@ Ognissanti, 1918.




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