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IL VITTORIALE
meditazione del 16 agosto 1919.
Quando più ero intristito e arso dal «malor civile», alla fine d’un giorno romano di luglio, nell’ora che la linea della melodia serale sembra passare per là dove la polvere febrile della strada e la fredda spruzzaglia delle fontane s’incontrano, cercai una sosta e una tregua in un luogo neutro: entrai nell’aula della Scuola pontificia di musica sacra.
Era un luogo isolato come se la corrente tiberina l’avesse compreso fra due bracci, remoto dal tumulto volgare più dell’isoletta piena di virgulti e d’uccelli che ha i suoi concerti laggiù, fra Tumuleto e San Biagio, di là da Ostia. Ci si sentiva nondimeno il triste odore umano, e qualcosa di miserabile com’è sempre là dove gli uomini si adunano per sfuggire alla loro miseria con un atto di fervore o di raccoglimento. C’era come nella trincea ogni specie di uomini, gomito contro gomito, pena contro pena: gente di chiesa, gente di lavoro, gente d’ozio, gente piccola e grande. C’erano, come nella trincea, tutte le classi. C’era una porzione compatta di quel popolo misto che ha dato gli eroi e i vigliacchi, gli artefici della vittoria e i trecconi della disfatta, i portatori della speranza e gli spegnitori d’ogni luce. C’era una imagine sommaria dell’Italia penosa, tra quattro pareti nobili che settant’anni innanzi avevano forse udito taluna voce affannata dai combattimenti sublimi del Gianicolo.
Sedevo tra un cappellano barbuto che tornava dall’Istria e un capitano mutilato che tornava da Sebenico. Entrambi avevano il petto attraversato da quell’azzurro della prodezza per cui sembra rinnovellarsi nell’Italiano eroico il mito di quel Pan che portava sul torace un frammento di cielo stellato. Entrambi tacevano e aspettavano, come quando stava per incominciare la battaglia nel Carso o nell’Altipiano.
Essi mi aiutavano a sentire quello spazio spirituale degli eroi che contiene il futuro e illumina il disegno della nazione non formata ancóra. Sopra il sentimento dell’eternità, che cancella le forme e gli eventi, essi ponevano la figura istriana di quel cuore terrestre non placato che palpita nel mare conteso e la figura dalmatica della cupola di pietra che fu girata per un inno non intonato ancóra.
Così, sul punto di udire un linguaggio divino, essi ricordavano al mio rapimento che quel linguaggio era italiano, era romano. Come nella trincea fangosa, in quell’aula polita lo spirito vivente del popolo stava per rivelarsi a un segnale dell’alto. E come il taglio della trincea spariva al balzo della prima ondata d’assalto, così sparivano quelle quattro mura sforzate dall’ansia dello spirito disteso in avanti. Lo spazio si faceva smisurato; l’adunanza si faceva innumerevole. Avevamo orecchi per tutto il popolo, avevamo cuore per tutta la nazione.
Mi tornò nella memoria una parola scritta, non so più da chi, in un disegno d’una festa rivoluzionaria commemorativa del Dieci Agosto: «Te solo, o popolo, offrirò in spettacolo agli occhi dell’Eterno.»
Chi moveva tanta massa d’anima? Quale grande presenza, qual vasto soffio agitava quell’aula pia?
Se avessimo saputo che là, nell’ombra d’un angolo, c’era il Buonarroto redivivo, che avremmo sentito? Che avremmo sentito se avessimo saputo là presente l’uomo della Sistina, incurvato, corrugato, col naso rincagnato, col gozzo sotto la barba caprina, con le unghie cresciute fuori dal tomaio degli stivali, con la fronte sudicia di colature, infelice come me, misero come tutti noi, dibattuto fra il suo cruccio e il suo eroismo, fra il suo errore e il suo destino?
Per accettare il mio dramma, per accettare il dramma della gente che m’ha fatto a sua simiglianza, io debbo cercare un’imagine tragica di contrasto fatale. La statua del giovine Vincitore imperitura è uscita dalle mani dell’uomo che ha l’aspetto del vinto, la tristezza del vinto, dall’arte dell’uomo che vide svergognata la sua città, la libertà spenta nel vomito della crapula, l’Italia data per secoli alla voglia dei vecchi e nuovi padroni.
Che è questo mistero d’Italia?
Ci sono miriadi e miriadi di morti che sono morti per salvare una forma di vita spirituale che i vivi oggi profanano e dissipano. Ci sono moltitudini di morti che sono morti per fondare il regno di quella fede che oggi i vivi rinnegano e scherniscono. Ma quella forma è distrutta? ma quella fede è spenta? Non possiamo crederlo, non vogliamo crederlo. Mettiamo la mano sul fuoco. Ci sono potenze che sfuggono alla distruzione e alla estinzione rifugiandosi nel futuro, dove vivono e vigoreggiano. Come il poeta disconosciuto, la nazione delusa può ripetere che l’elemento del suo dio è il futuro.
Ciascuno di noi, nell’opera di sangue, non sentiva che la nostra passione dava alla nostra statua scolpita in dolore una futura bellezza?
Quella sera di luglio, su quel palco di cantori alzati, davanti a quella radunata di uomini seduti che non provavano se non la pena di respirare nell’afa e nella meschinità della loro consuetudine, c’era una statua velata: non quella del giovine Vincitore che calca con l’osso del ginocchio la schiena del barbaro, ma quella del Vincitore di sé stesso iniquamente legato come lo schiavo infedele.
Che avremmo sentito se il piccolo tagliapietra inarcocchiato e consunto si fosse fatto innanzi e avesse liberato la statua dal velo e dai vincoli?
Un atto di creazione, un gesto di rivelazione e di glorificazione! Non l’abbiamo noi atteso? Non l’attendiamo?
Imaginate non il tagliapietra di Caprese ma uno della stessa razza, della medesima stampa, nato di quel sasso inespugnabile dove regnò il re di tre anime e di tre armature, dove si radicò la terribilità ossuta di Stefano Colonna. Imaginate il Palestrina: un nome che riempie non soltanto la Cappella di Sisto ma qualunque spazio; una forza che scoperchia qualunque cupola e raggiunge qualunque altezza.
La statua del Vincitore ci apparve tutta cristallo, e senza vincoli. E alle prime voci dell’Offertorio il cristallo si fuse, si moltiplicò in liquide forme, salì come le vene salienti, ascese come i getti che non ricadono al suolo.
Siamo in un tempo d’orrore e in un tempo di portento. A un tratto fummo rapiti dalla creatura aerea tutti: i nobili e gli ignobili. Fummo un mucchio della carne d’Italia, un mucchio della miseria d’Italia turbinato e spiritualizzato da una potenza vittoriosa. Fummo presi e sollevati da uno spirito di vittoria, trasfigurati e sublimati dalla verità della nostra vittoria.
E taluna delle parole non dette, nel rito di maggio non celebrato, parve il comento di quell’inno.
«Non importa che questo luogo sia chiuso. Abbiamo tutti su la nostra divozione il nostro cielo, il nostro più alto privilegio, il nostro più arduo amore: il nostro cielo eroico, quello che affissavano i feriti cadendo, gli uccisi spirando, quello che fu bevuto dall’ultimo sguardo degli eroi, quello che penetrò nei loro petti quando il respiro fu esalato.»
L’aula era infatti scoperchiata, le pareti erano aperte. L’inno era udito dai vivi ed era udito dai morti, era udito nel sommo ed era udito sotterra.
«C’era un cielo sul San Michele, c’era un cielo sul Monte Nero. Dal Vodice all’Ermada, da Tolmino al Pecinca, da Sagrado a Plezzo, da Plava a Doberdò c’era un cielo disteso. Dai ghiacciai del Cevedale alle fonti del Timavo c’era un cielo di coraggio e di concordia. Tra il Montello e il Grappa c’era un cielo di offerta e di sacrifizio, di anelito e di fuoco.»
Perché sùbito ci parve che tutti gli ordini degli eroi cantassero in quelle cinque voci dispari? Perché sùbito ci sembrò che nella grandezza e nella purezza di quell’arte si assommassero tutte le volontà di offerta e di sacrifizio? Perché sùbito dimenticammo ogni nostra tristezza ogni nostra vergogna ogni nostro rancore, e sentimmo salire in quell’impeto ineluttabile l’aspirazione dell’Italia eterna?
«Un potere, mille e mille volte più forte di quello che voltò la cupola vaticana e soffiò nella Sistina lo spirito di creazione, oggi su noi volta tutti quei cieli in un solo arco di gloria.»
L’ebrezza s’aggiungeva all’ebrezza, come il canto dei soprani superava quello dei contralti, come il canto dei tenori trapassava quello dei bassi. Psallite nomini eius... Un mottetto a quattro voci dispari era come un combattimento di spade raggianti ripreso di cerchio in cerchio, di vetta in vetta. Estote fortes et pugnate... Un altro riprendeva, più in su, lo squillo delle lunghe trombe d’argento che i fanti nel Solstizio udirono risonare sopra le Grave attraverso la nuvola temporalesca. Buccinate in neomenia tuba... Un altro era come chi toglie la bandiera per piantarla dove giunga la sua lena, e v’è chi gliela strappa su la mèta e la porta oltre, e un terzo fa a questi il medesimo, e un quarto ancor più veloce la invola e trasvola, ma il quinto è già più in su e apre le braccia a croce, ed è più bello d’ogni bandiera dritto con tutta la sua vita nel supremo calvario. Cantate ei canticum novum... Un altro perdeva a un tratto la trasparenza eterea come se un sangue repentino inondasse le creature di cristallo e facesse d’ogni petto serafico una sorgente vermiglia. Vedevamo le voci tingersi di sangue discorde e concorde. Vedevamo ascendere la strage gaudiosa. Il rossore incendiava l’aula. Ci volgevamo abbagliati.
Entravano i principi della chiesa. Appariva la porpora solenne. Tutto era apparizione e sogno.
Ieri giorno dell’Assunta, gli stessi cantori pellegrini, lasciata l’aula romana del Seminario, condotti dal maestro ammirabile della Cappella lateranense, si spaziavano nelle cinque cupole della Basilica di San Marco.
Era ancóra una festa della virginea vittoria, in una conca piena dell’afflato adriatico, al cospetto del Patriarca di Venezia, primate di Dalmazia.
L’antica Nicopeia brillava sopra l’altare. L’uditorio era ancor più umile e schietto. Una povertà intenta era ammassata nell’oro del mosaico. Non c’era la porpora magnifica; ma c’erano su per le travate di sostegno gli sprazzi del sole mattutino crudi come in uno squero di Chioggia. E c’erano i lutti cenciosi della guerra, seduti nelle vecchie sedie che posavano i quattro piedi malfermi su i marmi insigni politi dalle ginocchia nella preghiera a bocca chiusa. E c’era la soavità veneziana dei visi pallidi su cui sventolavano nel gran caldo i fazzoletti come su i visi delle malate che stanno per venir meno. E c’era tanta malinconia d’Italia, e tanta grazia d’Italia, e non so che nobiltà miserabile della razza che sa patire senza disperare.
Una bambina bionda come le tre sorelle del Palma, inginocchiata ai piedi di una colonna color di carne, pareva sostenerla con più forza che l’angelo d’oro non sostenga il pergamo. Un bimbo sensibile come una corda di violino batteva la musica con le dita sul divisorio mentre la sua faccia estatica si specchiava nella losanga di marmo nero. E i vecchi inclinavano verso la musica l’orecchio duro, con nel collo le grinze lunghe come bargigli; e restavano immobili, con le labbra serrate, con lo sguardo invetrito, quasi che fissassero la morte. Ma i soldati aprivano la bocca come per bere a una fontana della Valle d’Astico; levavano gli occhi come per veder passare un’aquila del Monte Cimone o un sagro del Cengio.
Da dove si esprimeva quel canto se non da quelle viscere oscure, se non da quelle radici umane aggrovigliate, se non da quella massa di povertà su cui sonava a quando a quando la moneta scossa della questua?
Era un miracolo più abbagliante che nell’aula della Scuola pontificia. Le cupole non si scoperchiavano, gli archivolti non si sfasciavano. Erano forme del cielo, erano figure del firmamento. Le entrate energiche delle voci ampliavano il giro e imprimevano alla cornice il moto del vortice. In un punto, invasa dall’impeto corale, l’intera Basilica fu come una nave portata al destino da tutte le sue vele gonfie. Poi tutte le vele furono ammainate. Le voci puerili ricominciarono dalla lontananza, ritornarono dal fondo con un bagliore d’oro, come la luna che nascerà dall’orlo della marea la notte prossima. E s’appressarono, e sorsero. E non era un bagliore, ma un clangore potente. E non era la luna, ma la Nicopeia splendente, la «facitrice della Vittoria».
Eravamo rivelati a noi stessi. Ci riconoscevamo nei nostri eroi come ci riconoscevamo in quei canti. Gli uni e gli altri erano le creature improvvise di una forza invisibile circolata nella profondità della fatica nostra. Anzi erano in quel punto le medesime creature: giovinezze di cristallo, scagliate all’assalto di un bene ch’esse non sapevano di portare su la cima dell’ansia loro.
Ed ecco che la forza profonda non più era invisibile.
Mi tremò l’anima quando udii il Patriarca pronunziare dal pergamo questa parola inattesa, al principio del suo dire: «La corrente della melodia dogliosa passa visibilissima fra la terra e il cielo...»
Chi glie l’aveva inspirata?
Egli fece sentire al nostro affanno che, come Giacobbe al guado di Iabboc, noi avevamo lottato con l’angelo fatto uomo.
Ma i soldati avevano nel cuore la preghiera del rozzo poeta alpino che vide recidere tanti piedi congelati. «O Signore, lascia che riaprano gli occhi i nostri morti e vedano il frutto del loro sacrifizio!»
Rimorirebbero di dolore.
Poi tornò il silenzio. Anche il sole si ritrasse. Rimase lo spirito del canto, nella Basilica vacua. E concordò con lo spirito di un altro canto da me udito in una dolina senza nome, in una notte remotissima; concordò col canto notturno del pastore siciliano poggiato alla canna del suo fucile ancor tiepida, nella dolina tolta al nemico, ingombra di uccisi a mucchio, dove non biancicava se non qualche nuda mano atteggiata all’arpeggio della morte.
La visione riempì la Basilica, come l’aveva riempita il coro.
Intorno era l’Ade carsico, il fisso inferno di pietre, avvolto nel velo del novilunio velato. E un silenzio forte come un cemento legava le pietre, legava alle pietre i cadaveri; ma la notte divorava il nero dei grumi. E lontano, nella foschìa, in tutta la cerchia dell’orizzonte giulio, infuriava la battaglia infernale.
Era come una battaglia sparente nella caligine che balenava senza tregua. Era come un combattimento confuso di anime, una mischia di resuscitati. E pareva che i corpi stessi nella dolina fossero per levarsi e per accorrere, come accorrevano via via tutti quelli abbattuti nelle trincee.
La gran petraia, nel centro di quella furia circolare di spiriti e di fuochi, rimaneva più inerte più muta più fredda che una landa di Selene. E giù nella dolina funebre dentro il cratere albicante, i soldati stracchi dormivano all’aperto avvolti nei mantelli grigi, informi come il mucchio dei vinti.
E all’improvviso, quasi corda toccata nella profondità dei tempi e nella tristezza di una carne fragile come la mia, il canto sorse, tremò, si assicurò, fendette il cemento del silenzio e il mio vivo cuore.
E la vita e la morte, la contemplazione e la battaglia, il fratello e il nemico, l’Italia sanguinante e il mistero dei nascituri, tutto si sublimò nel vortice di una speranza disperata. La musica segreta della terra, della nostra terra, della nazione radicata nel suolo, abbarbicata al sasso e alla gleba, sorgeva in quella voce inconsapevole come una scaturigine melodiosa da una di quelle pietre che avesse a un tratto percossa la verga di un divinatore.
E fu il primo canto sacro della guerra da me udito; il quale mi parve degno di essere raccolto in quel libro religioso che doveva essere preposto ai riti della Patria e dai vincitori latini essere chiamato il vittoriale.
Non fu raccolto. Ogni mille anni, ogni duemila, ogni tremila anni, sorge dal popolo un inno. Accade che nessuno lo raccolga. Basta che un eroe lo abbia nel cuore e lo trasmetta al suo eguale. Il popolo, anche dismemorato, anche traviato, finisce col riconoscersi nei suoi eroi. Se non li celebra oggi, li celebrerà domani o fra un secolo. La storia degli eroi costituisce la storia della loro gente. Non può questa averne altra.
Oggi sul leggìo dei riti immondi i sacrestani della disfatta hanno collocato il libro della cronaca di Caporetto; e lo sfogliano e lo brancicano berciando e sbavando, finché non periscano della loro saliva inghiottita.
Non è il Vittoriale, no. Ma, se fosse stato scritto da concise mani maschie e non da un collegio di scribi incontinenti, sarebbe chiamato il Libro della dodicesima vittoria.
E il popolo, in silenzio, premeditando ben altre lapidazioni, lo fisserebbe con tre sassi del Grappa o con tre ciottoli del Piave.