Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Sette documenti d’amore

DIFESA DEI LAVORATORI

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DIFESA DEI LAVORATORI

assunta in fiume d’italia il 9 aprile 1920.

Eravamo ieri adunati in una sala di cerimonia, in una sala pomposa e fredda, dove le grosse dorature e stuccature mostravano di non sentire il nuovo regime, stupidamente fisse come i ritratti dei vecchi governatori magiari carichi di pellicce folte e gonfii di acida autorità. Eravamo seduti su certe poltrone di seta chiara che avevano l’aria di soffrire come l’ermellino in pericolo di imbrattarsi: potius mori quam faedari. Tenevamo i piedi su tappeti ben netti e ben lisci, non senza compostezza. Tuttavia mi pareva di essere a una bisogna rude, a contatto con quel suolo fiumano che rosseggia quando si scava per le fondamenta d’una casa o per il seppellimento di un morto. Mi pareva d’essere all’aratro, d’essere attento a ben ricollocare nel solco il vomere che s’impuntava o deviava.

Respiravo la terra e respiravo la pena.

Respiravo l’avarizia e respiravo la miseria.

E mi meravigliavo di non sentire, allo sforzo, gocciolare dalle mie tempie il sudore caldo.

Operai, artieri, lavoratori d’ogni sorta, chi aveva ieri la mano più ferma e la voce più risoluta?

C’era un buon compagno . A un tratto scoprivate che c’era un buon compagno , buono a condurre la bisogna, a sostenere la lotta. Quando vi volgevate verso di lui, avevate una favilla nell’angolo dell’occhio: una favilla che interrompeva la torbidezza del rancore.

Vi vedevo chini, col busto piegato in avanti, con i gomiti su le cosce, masticare la parola che si distaccava dal vostro cuore penoso.

A un tratto io la coglievo e la dicevo: anzi la incidevo, anzi la intagliavo nel silenzio compatto. Attoniti guardavate l’interprete improvviso, illuminandovi come quando si ritrova il fratello perduto, come quando si riconosce l’accento fraterno nello straniero.

Anche una volta la passione e l’aspirazione di tutti si esprimevano per la bocca di un solo.

Chiuso fra quelle quattro mura pallide, sentivo la vastità del mattino.

Era come uno di quei mattini gloriosi quando io mi metto in marcia coi miei soldati: in marcia verso l’avvenire. Chi mai potrà imitare l’accento delle nostre canzoni e la cadenza dei nostri passi? Tutto arde e riarde, anche la mia malinconia; e non so che indistinta figura subentri al mio viso devastato. Sono come il mio compagno di destra, sono come il mio compagno di sinistra; sono come l’alpino, sono come il cannoniere. Mi accordo con tutti, e tutti si accordano con me.

Altre volte cantavo a gara coi vènti e coi flutti, con le fonti e con le selve, e con tutte le creature e con tutti gli spiriti della terra; e mi sembra di non aver mai sentito dentro me un cuore così ampio e così lieve come cantando in coro con uomini pesantemente calzati. Non siamo una moltitudine grigia: siamo un giovine dio che ha rotto la catena foggiata col ferro delle cose avverse e cammina incontro a sé stesso avendo l’erba e la mota appiccate alle calcagna nude.

Qualcosa di quel sentimento medesimo sorgeva in me e rapiva la parte di me più fervida, l’essenza di me più aerea, mentre ragionavo di farina, di pane, di olio, di vino, di quel che si mangia e si beve, di quel che costa la cosa da mangiare e la cosa da bere, di quello che sfama e di quello che disseta, di quello che basta e di quello che non basta.

Trattavamo del ventre? Stavamo noi davanti a un mucchio di viveri col peso e con la misura? Lesinavamo il boccone e il sorso? Disputavamo con la fame e con la miseria?

Un uomo grasso diceva: – Questo basta.

Un uomo magro diceva: – Questo non basta.

Uno assottigliava la fetta di pane, l’altro la ingrossava. Tagliavano col medesimo coltello, col medesimo ferro. Di ogni parola detta si sentiva ch’era passata fra i denti. Si sentiva che l’unghia era l’estremità di ogni gesto. Era la lotta degli uomini dentati e unghiati. Qualcosa di belluino passava di tratto in tratto nell’aria decente.

E in quella sala decente c’era veramente la figura della fame, c’era veramente la figura della miseria. Rivivevano le imagini delle mie domeniche d’udienza, con un rilievo crudele: le donne scarne, quasi esangui, esauste, che avevano venduto l’ultima masserizia o l’ultimo cencio; i bambini macilenti, grinzosi come vecchietti raggomitolati per rientrare nella matrice della morte, con un insostenibile sguardo che pareva passare attraverso le palpebre pavonazze; gli uomini malati, non so che fioche e roche disperazioni avvolte in una sciarpa di lana senza colore, avanzi insepolti della fatica che scava i polmoni, curva le ossa, brucia gli occhi, corrode le viscere. E le vedove, coi grappoli di figliuoli aggrappati alla gramaglia come i naufraghi al rottame nero di pégola, erano ; e le orfane dagli occhi sbigottiti, che con un primo movimento si piegavano e s’abbattevano come i tralci senza sostegno; e le abbandonate dagli occhi fuggiaschi, che raccontavano il fallo e la maternità e la solitudine con parole disciolte come gocciole d’acqua giù per una lastra rovente, erano . Tutte le tristezze delle mie domeniche di pietà e di elemosina erano , e mi serravano.

E penavo per loro, e lottavo per loro. Sapevo come nel pudore e nell’angoscia tremasse il loro mento smagrito e come vacillassero le loro povere mani nel ricevere. Disputavo per loro il tozzo e il centesimo, come il padre, come il marito, come il fratello, come il figliuolo, come tutti quegli uomini amari che erano mal seduti su quelle poltrone molli e avevano dietro di sé il focolare, il desco, la culla.

Questo costa tanto, e quest’altro costa tanto. Questo conviene, e questo non conviene. Questo basta, e questo non basta.

Trattavamo dunque del ventre?

No, trattavamo anche dell’anima. Facevamo anche un’opera d’anima.

Di tratto in tratto passavano sopra noi il soffio umano e il fremito umano di quelli che laggiù radunati aspettavano all’aria aperta, con le mani libere dagli arnesi del lavoro, con il cuore libero dall’oppressione della servitù, con il dolore avido di chi sta per creare inconsapevolmente.

Mi ritornavano nello spirito parole gettate dall’alto in un combattimento senza vittoria: «Quel che l’eroismo non poté creare, la fame lo creerà. La fame è una creatrice di mondi, come il desiderio. Ma è proprio necessario che il nostro pane quotidiano sia zeppo di vermi

E il combattimento mattutino fu senza vittoria.

Ci separammo come per una tregua, come se andassimo a forbire e ad affilare le armi, come se andassimo a riprendere la lena e il coraggio.

Voi, lavoratori, tornaste ai lavoratori, riceveste le nuove forze dal contatto della massa, dall’aderenza della volontà unanime. Io me ne andai sul mare, mi distesi a prua d’una piccola nave veloce, diedi la faccia al vento della verità e della libertà.

E mi risaliva dalla memoria taluna parola di un inno: «Il deserto dell’aria prende la forma d’un mondo nascente... Lo spirito operoso, escito dal buio degli anni impenetrabili dove regnano gli iddii defunti, è l’amore? è la vita? è la divinità? è il destino

E lo spirito diceva nei grandi intervalli dell’inno: «Date, date. E la sua anima non rinunzia alla sua parte. Chi siete voi che gli impedite di vivere? Lo volete voi nutrire con la polvere perfida e riconfortare con la cicuta, fino a che egli non abbia più anima per conoscere e pensare? Egli s’è levato, e ha trovato il fallo nella catena e l’ha rotta e scagliata lontano. Ora la sua anima è una legge per la sua anima, e il suo cuore è una luce pel suo cuore. Egli è fatto simile alla ragione delle cose, che è il succo per le radici profonde

Questo costa tanto, e quest’altro costa tanto. Questo basta, e questo non basta.

Ma perché la disputa cruda si convertiva in una agitazione lirica e la paziente sostanza umana era sollevata da un levame così virtuoso?

L’ordine nuovo non può sorgere se non dal tumulto del fervore e della lotta, misurato dal battito di tutti i cuori fraterni. E non può essere se non un ordine lirico, nel senso vigoroso e impetuoso della parola.

Ogni vita nuova d’una gente nobile è uno sforzo lirico. Ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica. Per ciò è buono ed è giusto che ne sia oggi interprete un poeta armato.

Questo basta e non basta.

Più tardi ci ritrovammo; ci radunammo nella medesima sala pomposa; ci risedemmo nelle medesime poltrone funeree costruite con le ossa dorate dei vecchi magiari morti.

C’erano da una parte i datori di lavoro e dall’altra parte i lavoratori. Mi venne fatto di guardare le mani degli uni e degli altri: mani che si disponevano a serrare e mani che si disponevano a strappare. Bisognava finirla prima di sera.

La declinazione del sole accompagnava la lotta.

Ed ecco su la tavola il mucchio dei viveri col catalogo dei prezzi, evocato dal memoriale.

Ma le cose minute, ma le cose meschine non valevano più, non importavano più.

Il pane è il pane; ma la vita è la vita; ma la luce è la luce.

Eravamo nella città di vita, eravamo nella città di luce.

Eravamo intenti a un’opera d’anima.

Non eravamo davanti alla bocca d’un forno. Eravamo nelle faville d’una officina.

Prima m’era parso d’essere occupato a ben collocare nel solco il vomere che scinde e sovverte. Ma ora la forma del vomere si trasmutava in corno dell’incudine.

Fabbri, c’era una grande incudine .

Si fece silenzio. Pensai che gli artieri si rimboccassero le maniche fino ai gomiti per meglio travagliare.

Pensai: «Ogni lotta non è se non uno sforzo verso l’espressione. O compagni diffidenti, io debbo e voglio aiutare la vostra lotta a esprimersi intera

Parlavate veneto, parlavate il fiumano schietto. A ogni accento veneto sembrava che mi continuasse a frizzare nel viso la brezza del Carnaro tra Veglia e Cherso.

La parola vi s’impigliava nei denti, talvolta vi schiumava nella commessura delle labbra aspre. Io ve la toglievo di bocca, e la prendevo nel mio fiato; e poi le davo la punta e il taglio, e la lanciavo diritta al segno.

Il consenso attonito vi rideva nel bianco degli occhi. Quel sorriso involontario velava con qualcosa d’infantile la vostra rudezza. Ogni sprazzo mi rischiarava il fondo del cuore. Il sangue del fondo diveniva luminosissimo. Mi pareva, a quando a quando, che la voce ne rosseggiasse.

L’altra parte resisteva.

Ogni «no» faceva tentennare il capo di quella parte ma squassava il vostro, come più s’approssimava la sera.

Un altro pugno di farina?

No. Vogliamo vivere.

Un altro pezzo di pane?

No. Vogliamo vivere.

Un’altra scodella? un altro osso?

No. Vogliamo vivere.

La fame crea. La discordia crea.

Non ero più un interprete riconosciuto e accettato. Non avevo più parole nel rosso cuore. Avevo una grande forza improvvisa, come se la sorte m’avesse posto a capo di un altro esercito diverso da quello dei miei legionarii.

Bisognava vincere prima di sera.

Tanta forza rivelata si precipitava verso l’ombra o verso l’avvenire?

Guardavo le vostre facce indurite dallo sforzo del ritegno. La guerra aveva riscolpito le maschere umane secondo il modello della pazienza. Il lavoro anche. Tali restavano pur nella risolutezza.

Non c’era tra voi qualche fabbro che si ricordasse del suo lavoro a vespro, quando i colpi del martello si accelerano per paura che il ferro bogliente si freddi?

Ecco che diamo tutto quello che domandate.

Vogliamo vivere.

Tutti ci alzammo di scatto, ci prendemmo per le mani. Ci guardammo bene nel viso, come per accorgerci se fossimo mutati. Avevamo uno di quei sorrisi che non si schiudono ma rimangono a balenare tra i cigli, che sono più in su della bocca vorace.

Potete ancóra diffidare di me?

Popolo, vivaio di potenza e d’ingenuità, come puoi temere di chi è puro come tu sei, disposto a peccare come tu sei, pronto a distruggere come tu sei, capace di creare come tu sei, fedele a tutte le sue imagini come tu alle tue?

C’è oggi, tra la mia gente, chi si fa della grandezza un’imagine che non conviene a me capo.

Io gridai un giorno, nella Roma dei disertori e dei truffatori torbida e molle: «Chiedo, per la mia nausea, un sorso del più aspro vino popolare.» L’ebbi ieri da voi. Lo bevvi con franca gola.

Sanò il mio disgusto e aumentò la mia potenza.

Che m’importa delle dottrine?

Ieri fu compiuta un’azione plastica, un’opera di vita.

Quelli che vangano e arano la terra, quelli che scavano il carbone e i metalli, quelli che fondono il ferro, quelli che si consumano all’ardore delle officine, quelli portano la vita eterna come io la porto.

E ieri sera il mio dèmone, quando si placò il vasto clamore della pazienza vittoriosa e io rimasi solo con le mie armi visibili e con quelle invisibili, il mio dèmone mi ripeté in un modo mistico il versetto della Genesi: «Tu sei stato prode e valente col dio e con l’uomo, e hai vinto

E io gli confermai, come colui che aveva acquistato per sé la primogenitura: «Io ho combattuto col dio a faccia a faccia


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