Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Sette documenti d’amore

DISCORSO AI SIGNORI DELLA CORTE

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DISCORSO AI SIGNORI DELLA CORTE

pronunziato in fiume d’italia il 6 giugno 1920.

Signori della Corte, or è sei mesi, nella prima adunata dei cittadini eletti dal popolo, quando pareva fossero per disegnarsi nello spirito popolare forme di aspirazione e di ascensione più sincere e più altere, io dissi: «Incomincia la vita nuova

Dissi: «Sia lieta sia triste, sia pacifica sia guerriera, sia fortunata sia infortunata, incomincia la vita nuova, con tutto quel che v’è di primaverile e di virgineo in questa parola della nostra più toscana poesia

Ripeterò io oggi qui l’annunzio anticipato dall’avidità della mia illusione?

Noi abbiamo sentito, noi abbiamo esperimentato, in questi lunghi mesi di fatica e di dolore, quanto sia grave l’ingombro che si oppone al sorgere e allo spandersi di quella novità che qui ferve nei cuori più vigili e più ardimentosi.

Dirò oggi, con accento più duro: «Incomincia la fine del vecchio ingombro che deve essere rimosso perché la terra da noi fecondata dia il suo fiore e il suo frutto insoliti

Custodi e amministratori della giustizia, in una volontà di vita nuova non può non essere una volontà di nuova giustizia.

Quel che fu detto nei secoli sarà nei secoli eseguito. «La giustizia è una costantissima volontà di dare a ciascuno quel che gli è dovuto

Non conosco definizione più religiosa e più luminosa di questa.

È definizione cristiana; e vi s’aggiunge: «Carità perfetta è perfetta giustizia

Ma noi gente del Mediterraneo possiamo fondare la nostra vita in un fondamento ben più antico: sopra la pietra bianca di Pallade, sopra la pietra bianca che Pallade lasciava assai spesso cadere dalla sua mano infallibile per assolvere e condonare.

In una vita che ha l’intelligenza per suo foco centrale, è pur sempre maestra Colei che non fu concepita nelle tenebre della matrice ma nei lampeggiamenti del cervello maschio.

Dopo tante confessioni e dopo tanti martirii, la radice della barbarie primitiva non è ancor divelta dall’anima civica. Anzi sembra inespugnabile.

Non perdiamo l’animo, se troppo il nostro sforzo si prolunghi.

E non perdiamo la fede, se pure il nostro sforzo non sia coronato.

Uomini della giustizia punitrice, io voglio pensare che oggi in me voi abbiate giurato al divenire e all’avvenire.

Trapassato è chi non si rinnovella, chi non sa inventare ogni giorno la sua virtù e proporsi ogni giorno la sua ragione di vivere.

Che è oggi la vostra giustizia se non una grossa bilancia collocata sopra un vecchio banco dove i tarli scavano i loro labirinti dubitosi?

C’è qualcuno che grida: «O accusatore, tu sei accusato; e la sentenza si rivolta contro di te, o giudice

Arrestatelo. Arrestate il vento, arrestate il baleno.

L’oratore della Corte dianzi riduceva in cifre nude la miseria umana, la demenza umana, la colpa umana, l’immensità della sventura umana.

Ed ecco, io sono invitato a ripetere la formula consueta per dichiarare aperta, nel cuore di quella città che io chiamo Città di vita, la sessione del Tribunale supremo.

Supremo! È una terribile parola. E non è questo giorno il suo giorno.

Ma dietro quel vecchio banco veggo seduto un gran combattente, che ha trattato con mani sicure la materia penosa e sanguinosa.

Che direbbe egli se, in luogo delle imagini inopportune, alzassimo qui uno di quegli scheletri rimasti tuttora insepolti nella petraia carsica? Uno scheletro d’uomo, uno scheletro che abbia serrato un’anima misera e sublime.

Per simbolo della nuova giustizia imitiamo Ippocrate.

Il saggio di Coo, che i Greci imaginarono discendente di Eracle, aveva deposto nel tempio di Delfo, tra le statue divine, uno scheletro di bronzo esattamente costruito.

Egli non sapeva forse d’aver sollevato sul piedestallo il modello del mondo.

Noi siamo qui, noi combattiamo qui per risollevarlo.

E io voglio pensare che oggi in me voi abbiate giurato al divenire e all’avvenire.

Per ciò su i vostri petti umani, che sanno come la coscienza patisca e lotti e vinca, io pongo la medaglia di Ronchi: il segno della più alta vittoria sopra il mondo iniquo.

E, in nome del Futuro, dichiaro aperta la sessione del Tribunale supremo di Guerra e Marina in Fiume d’Italia.


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