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meditazione nel trigesimo dell’esodo
Quando giunsi «suso in Italia bella» con pochi dei miei fedeli, portando tutto il carico del sacrifizio di Fiume, ero come smemorato e trasognato. Passavo di esilio in esilio? venivo a cercare il silenzio salubre e a ritrovare alcuna delle mie arti? venivo a interpretare il sogno eroico e l’azione spaventosa, sotto specie di «vanità delle vanità»? o a fare una breve sosta e un breve sonno per ricominciare la lotta «fino all’apparir dell’alba» contro l’angelo sconosciuto, come il figliuolo d’Isacco dopo aver passato il guado?
Col carico del sacrifizio portavo anche il mio dio, anche il mio pallàdio: quello ch’era con me sul mio carro nella notte di Ronchi, quello ch’era con noi quando andavamo, come il primo padre e la sua gente, «per trovare un luogo dove fabbricar potessimo nuova città».
Oggi è il trigesimo della mia partenza dalla nuova città che edificai con l’anima dei legionarii assai più bella della musica di colui che attrasse le pietre a formar le mura di Tebe. Mi piace che in questa notte di meditazione sia scritto questo rendimento di grazie a un Italiano generoso.
La città di vita è scomparsa. I nostri padri latini solevano fare una città al nome di un eroe o di una eroina o di un grande evento. Enea ne aveva fatto una al nome di Lavinia. Noi ne avevamo fatto una al nome d’Italia, all’amore d’Italia, alla vittoria d’Italia, coi nostri cuori di credenti, con le nostre mani di combattenti. Anche noi ci eravamo inchinati al suolo, anche noi avevamo salutato divotamente la contrada, e avevo io detto per tutti la parola del rito: «Dio ti salvi, o terra che mi sei fatata.»
Così dicendo, l’antico s’era posto intorno al capo «una corona di fresche frondi». La mia fu di spine; e non mi dolsi nella prima ora e non mi dolsi nell’ultima. E non me la tolsi mai. Lo sanno gli amici, lo sanno i nemici.
Avevamo fatto una città al nome d’Italia. Avevamo donato una città all’amore d’Italia, alla vittoria d’Italia. I legionarii erano stati anche una volta costruttori, non secondo l’esempio dei coloni ma secondo l’esempio degli interpreti, secondo la divinazione dei vati. Non la pietra né il cotto ma lo spirito è la materia degli edifizii orientati verso l’avvenire.
La città di vita è scomparsa. Non c’è laggiù se non una macchia di sangue cupo. Sembra poca cosa, e può diventare immensa come quella che fu veduta a piè d’una croce alzata sopra un altro calvario.
Ma ciascuno porta con sé il suo dio quando è disposto a continuargli le offerte e a sacrificarsi per lui. Noi gente del Mediterraneo abbiamo conservato la religione e la superstizione del pallàdio. Noi gente di Roma crediamo pur sempre in un segno fatale a cui siano legate le nostre sorti certe. Non è tagliato nel legno rozzo come quello che cadde innanzi alla tenda del fondatore d’Ilio. È scolpito nella virtù ereditaria. E non può essere involato né arso. Noi Romani, noi Italiani lo portammo nel lavacro del Piave, su l’ara del Grappa. Ebbe per edicola il petto d’una recluta del ’99? d’un novizio del 1900? Il petto più puro e più devoto fra mille, fra centomila, fra tutti, sicuramente. Le schegge delle granate lo lasciavano intatto. Con l’ultimo soffio era trasmesso.
Di là dal Piave, di là dalla Livenza, più oltre, un Italiano di Sardegna, un giovinetto sardo di diciotto anni, il 4 novembre, nell’ora esatta di quel tradimento che fu chiamato armistizio per frodare la storia, lo portò con la rapidità della morte più oltre «per più accostarsi» a quelli che ci aspettavano.
Fu trasmesso.
Il 12 settembre 1919 era in marcia col battaglione di Ronchi.
«Dio ti salvi, o terra che mi sei fatata!» Chi me la fatò la terra di Ronchi, tra sorte e sorte? C’era la grande larva di Guglielmo Oberdan palpitante sopra quel tristo muro dove l’aveva agguatato il birro; c’era un vasto carnaio di fanti bene ammutoliti; e c’era l’immane scheletro d’una tessorìa meccanica smantellata e disarticolata dal cannone austriaco.
Quella tessorìa io l’avevo veduta quattr’anni innanzi, in una bella giornata musicale di tutti i càlibri. Faceva tela per le camicie di quei poveri cristi dal capo senza sudario. La tela fu interrotta. I cento e cento telai di ferro s’ammutolirono come i coricati dal ferro. I rocchetti e le navicelle non si mossero più. Pendeva giù dalle pulegge doppie qualche pezzo delle cinghie di cuoio tagliate dalla gente a piede per risolarsi le scarpe. Tutti i fili erano rotti, tranne uno. Sopra l’ingombro del vetrame e del calcinaccio, un filo era teso fra due telai, simile al filo del ragno. Precludeva il passaggio.
Con un gesto brusco arrestai quelli che mi seguivano, perché non passassero, perché non lo spezzassero. Un sentimento misterioso mi aveva preso il cuore, con non so che di remoto e di mitico, quasi mi ritrovassi tra la vita e la morte davanti allo stame filato da una parca non iniqua.
Ripensai a quel filo, nella notte di settembre. E quel filo intatto rimise in movimento tutta la grande tessorìa senza tessitori. Disteso sopra la branda di ventura, non avevo l’orecchio intento ai rumori della via, al pianto e al riso dei bambini, al cicaleccio delle donne, alla piccola vita serale del borgo inconsapevole. Avevo l’anima intenta ai rumori dei telai di ferro mossi dalla parca verace. L’allucinazione febrile mi ripresentava le vaste sale deserte, le tettoie di cristallo squarciate, le lampade spente; e le mura rifatte, le trame riallacciate, le spole riattivate, le lampade riaccese, la tela in opera.
Quando le voci dei vivi si fecero più basse e più rare col crescere della notte e poi si quetarono, quando sola la mia febbre diede il ritmo tragico al silenzio, mi parve di udire il movimento dei telai accordato al battito del mio sangue, e il canto profondo delle quattordicimila sepolture.
E non avevo mai sentito in una sola armonia, come per quella imaginazione d’infermo, la perpetuità spirituale della Patria, la necessità imperiale del divenire latino, il potere del sacrifizio anche misconosciuto, il mistero dei decreti eterni e dei ricorsi predestinati, la presenza operosa dei morti, la volontà nascosta di tutto un popolo confidata al coraggio d’un uomo, la bellezza della notte inspiratrice e creatrice.
Dalla sabbia scorrente e dall’acqua stillante del Tempo poteva essere misurata una tale ora?
Lo stame risparmiato dalla distruzione poteva generare una tela così vasta?
O divino telaio d’Italia, con le tue ossature di monti, con i tuoi pettini di selve, con i tuoi orditi di fiumi, che mi rombavi nel mio povero petto d’uomo!
Volevo vedere il volto dell’operaia provida. Il mio tormento ne cercava le linee dentro il buio del mio cranio. Dentro il buio del mio occhio cieco, dove ora da tutti gli spazii convergono gli aspetti dell’ignoto, mi apparve all’improvviso.
Come Michelangelo non aveva trovato quel volto per la più giovine delle sue Sibille? Come aveva potuto lasciarlo nel fondo della creazione mentale perché ne fosse illuminata una notte dei secoli avvenire?
Giungevano i carri estorti. Fragore succedeva a fragore. Il pallàdio era sul primo carro. Per attendere che si formasse la colonna, il carro si fermò in un bivio che era come il bivio di Paradiso. Si fermò perché montasse Alberto Riva?
Tutti avevamo la faccia rivolta verso le stelle, l’ansia rivolta verso le costellazioni, a un tratto immuni da tutto quel che nell’uomo è bruto. Aspettavamo che la mano della notte fraterna ci traesse dal cuore l’alba invocata laggiù dalla fede in tortura?
Il pallàdio era con noi. Era un’anima senza limiti, indistinta, con quel viso ineffabile che conoscevo io solo.
Non so se potrò un giorno esprimere nei modi di quella bellezza l’idealità della nostra impresa e rappresentare lo spirito di creazione che la rinnovava in ogni alba. Nessun errore e nessuna colpa e non la noia e non l’impazienza e non la vanità e non la perfidia e non il tradimento e non le più tristi passioni e perversioni mai riescirono ad oscurare la primiera luce.
L’alimentavano i morti, la difendevano i morti. Quando due giovini Italiani alati, Aldo Bini e Gianni Zeppegno, primi accesero in mezzo alla città olocausta il loro olocausto, primi in mezzo alla terra dell’ardore accesero il rogo del loro sacrifizio, la forza della Causa rifiammeggiò con essi. Quando un mio fante imberbe, un piccolo contadino del basso Po, primo cadde colpito dall’odio fraterno e dopo un’agonia sublime spirò con l’innocenza di un martire giovinetto, io dissi davanti alla sua cassa d’abeto: «O Luigi Siviero, il sorriso del sacrifizio accettato sembra trasparire di là dalle quattro assi che ti serrano e rischiarare a noi il cielo triste. Da oggi per noi non ci sarà più tenebra.»
I nostri morti primi non soltanto furono la certezza della nostra luce ma furono la profondità della nostra vita stessa. Vivevano in noi. Ciascuno li sentiva vivere in sé, li portava in sé non lesi dal fato terrestre.
Quando nel torbido decembre del 1919 incominciai a sentire intorno a me l’odore delle cattive coscienze e a leggere il tradimento su certe fronti basse di partigiani, quando la miseria del popolo fu turbata dalle offerte ingannevoli del nemico che tendeva la mano lorda attraverso la barra, quando i più fedeli dei miei legionarii pronti a tutto dare credettero d’essere ripagati dal popolo con la rinnegazione della fede, si vide quanto per noi valessero i morti.
Non posso ripensare senza brivido a quella mia notte di decembre forse più cruda di quella patita da me un anno dopo. Ero rimasto solo di fronte al destino, abbandonato perfino dal mio compagno eroico di Buccari, dopo una settimana di passione in cui tutti eran passati di errore in errore, di forviamento in forviamento, di violenza in violenza. Ero rimasto solo di contro al destino, col mio occhio fisso; e il destino era di sasso, radicato nella sciagura d’Italia e nella salvezza d’Italia. Il destino era la muraglia delle Alpi Giulie. Cedere alla frode di Roma significava perdere il confine conteso. Resistere significava imporre una volontà tirannica a una gente che pareva stanca o losca. Dissimulavo col sorriso tranquillo e con la voce pacata un tumulto interiore che da un attimo all’altro mi pareva dovesse sforzarmi e spezzarmi le costole e le vertebre.
Sopraggiunsero ardenti di sdegno e d’audacia i miei fidi. Mi recavano il fremito delle legioni. Le legioni s’attendevano l’ordine di lasciare la città e di marciare a levante. Volevano disseppellire i morti. Volevano partire «coi loro morti in testa».
Era il ritornello d’una canzone selvaggia, nata come tutte le altre dall’amore e dal dolore sanguinanti: «Noi ce n’andremo armati – coi nostri morti in testa!» La canzone era tuttora contenuta, era tuttora appresa alla carne, appiccata alla cima del cuore. I legionarii se la provavano fra loro annodati in cerchio, a tempia a tempia, a gota a gota, come se soffiassero insieme sopra un tizzo acre. Prima che il fuoco divampasse, ne avevano le labbra bruciate, i volti di bragia.
«Dissotterriamo le casse in fretta. Ce le carichiamo su le spalle. Poi, di là dalla barra del ponte, ci fermiamo; e coi nostri pugnali mondiamo dalla terra l’abeto, raschiamo le assi.»
Anche se avessero pianto, io non avrei potuto vedere le loro lacrime disseccate dal bruciore prima di scorrere. Non mi bastava il peso della città: avevo addosso anche il cimitero di Cosàla, nero come una nuvola di pece. Dentro vi lampeggiava rotto il rugghio della canzone terribile.
Ma anche quella ribellione mi fu docile. Senza orgoglio ripetei la parola cotidiana del mio cómpito: «Tocca a me solo.»
Si sa quel che avvenne. I miei morti salvarono il confine romano. S’erano levati dalla cintola in su, aspettando e si ricoricarono per aspettare.
Non vollero fiori se non dalla primavera.
Oggi è il trigesimo della mia partenza dalla nuova città che edificai con l’anima dei legionarii assai più bella della musica di colui che attrasse le pietre a formar le mura di Tebe. Voglio vegliare sino al mattino. La luna è crescente. La notte è fredda e serena.
È una notte d’investitura e di traslazione.
Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte; e qui pongo i segni che recai meco, le mute potenze che qui mi condussero.
Altri martiri approdano alla riva di Maderno dopo quel vostro primo che fu messo nella barca senza remi alla ventura di Dio.
Io non dico al destino Rendimi le mie legioni, né gli dico Rendimi i miei morti. Ho meco le mie legioni e i miei morti.
Riodo il gran pianto del commiato. La notte luccica di lacrime che si ghiacciano.
Il popolo sentiva ch’era per rimanere deserto. Il popolo sentiva che la sua forza misteriosa stava per abbandonarlo e che il suo petto dilatato dal respiro eroico stava per incavarsi e per immiserirsi in una pena servile. Per ciò piangeva come forse nessuna turba mai pianse.
Il Carso arido è pieno di sorgenti nascoste, di correnti inferne; e i fanti svenati gliene hanno aggiunta una di porpora. C’era una così vasta corrente sotterranea di pianto nella città costruita di pietra carsica e di cemento straniero?
Le stelle della notte di Ronchi non mi avevano passato l’anima come le lacrime di quel sospeso meriggio.
In quale vita remota, sotto il flagello di qual cielo inclemente, lungo quali acque di desolazione, attraverso qual doglia di profeti, avevo io conosciuto quel singhiozzo senza numero?
«Ti darò in man di quelli che cercano di mercatare l’anima tua e in man di quelli che tu hai abominato...»
Avevo udito nell’aula chiusa singhiozzare le donne. Le quattro pareti serravano lo strazio come in un solo petto resistente; ma i banchi pareva aspettassero le battiture delle verghe farisaiche.
Perché imaginiamo coperto il pianto dell’uomo? È una fonte che ama l’ombra. Il cielo non ode; e tra mura e volte il lutto si moltiplica echeggiato. Le Marie si ammantano, e si coprono il viso con le due palme, o lo nascondono nel cerchio delle braccia. Così fanno le gridatrici funerarie. Il vòcero è velato.
Quando fui tratto alla ringhiera, non c’era più manto, non c’era più velo, non c’era più alcuno schermo. Con un’angoscia stupefatta udivo la piazza piangere, la strada singhiozzare. Le lacrime si adeguavano all’elemento, non più stille ma flutto. Il dolore infaticato del mare giungeva alle ciglia degli uomini, traboccava dagli orli dei poveri occhi. Dall’ultimo orizzonte, da più lontano che le isole rifatte schiave, da più lontano che l’Italia rivinta, veniva la cadenza marina e misurava quella deplorazione di popolo.
Ecco che tutto il mio amore mi ritornava in pianto. Ecco che tutta la mia costanza mi ritornava in mero pianto. Ecco che tutto il mio sacrifizio mi ritornava in quel pianto disperato e vano.
Era l’ora di mezzogiorno, l’ora lucida e vuota. Era il grande orrore meridiano. L’intero mondo mi pareva un male irreparabile. E, dopo aver tanto donato, donavo anche la mia meravigliosa tristezza a quella gente che aveva voluto conservare le sue case intatte e che stava per rientrare con ciglia rasciutte nelle sue case sconsacrate.
Toccavo una nuova profondità, e conquistavo una nuova libertà in me medesimo. E portavo con me tutto quel che di divino era stato creato dalla giovinezza «credente nella Patria futura e promessa alla Patria futura».
Sul carro temerario che nel mattino di settembre aveva spezzato la barra tenuta da quattro nazioni avverse, ritrovai l’ebro respiro della solitudine e l’amore intrepido del fato.
Le vie deserte si lanciavano attraverso uno spazio spirituale dove tutte le essenze mistiche della guerra parevano raccendersi al vento della mia corsa. I miei morti avevano lasciato le loro ossa nella chiostra di Cosàla, ma li sentivo sul mio capo scrosciare a quando a quando come uno stormo seràfico. Dal camposanto di Ronchi si levarono verso di loro quattordicimila gridi.
I telai tessevano tuttora la tela fatale?
O la grande tessorìa senza tessitori aveva patito una nuova rovina dalla bestialità degli schiavi padroni?
Ma certo v’era rimasto un filo intatto. Infragile stamen.
«Terminazioni e ricominciamenti continui» dice quel savio priore toscano.
Che debbo incominciare?
Sempre risale dal cuore il sospiro che ogni volta avevamo nella guerra partendo per non più tornare, tornando per sempre ripartire.
Là, sul Carnaro, ripudiando la vecchia druda dei vecchi, gridammo: «Noi siamo d’un’altra Patria, e crediamo negli eroi.»
Di là ci pareva che l’Italia meritamente riprendesse il nome basso che le davano gli Elleni: Spuria.
«È spuria, e insieme sporca e novella.» Sono tre epiteti citati in uno dei frammenti catoniani: accordo e disaccordo singolari.
Nella corsa del ritorno, verso sera, facemmo una breve sosta su una bella via arborata del Veneto, in una di quelle vie dov’erano passate le bige mandre inermi dopo l’onta di Caporetto, su una di quelle vie dov’erano passati i carri colmi di truppe inghirlandati di fronde e di fiori per la battaglia del Solstizio.
Balzammo a terra, con non so che palpito improvviso. Sùbito la terra, per le piante dei piedi che la calcavano, ci comunicò un sentimento d’amore che poco dopo ci parve di non poter sostenere, tanto cresceva e si faceva forte. L’ombra degli alberi spogli ma ramoruti ci toccava piamente come l’ombra di una navata dove l’odore dell’incenso e del belzuino somigliasse l’odore della Marca Gioiosa. E i campanili intorno cominciarono a sonare, con una voce che mi sembrava non volesse farsi intendere se non da me solo che avevo nel cuore il rintocco della campana di Arbe, il rimproccio della Granda. E io mi misi a patire e a gioire in ogni zolla, in ogni sermento, in ogni tronco, in ogni selce, e nella proda della via, e nel rigagnolo, e nel mucchio di selci, e nella pietra miliare, e in ogni cosa comune e incolpevole.
O carne della mia carne, anima della mia anima, o consanguinea, ti riconosco! Mi riconosci?
Non era la Spuria. Era l’Italia bella.
Ieri uno dei miei legionarii – da quella città del Piemonte che porta il nome della schiera romana a tre canti in battaglia ordinata – mi mandò in dono un saggio della sua arte ingenua accompagnandolo con parole di gratitudine dove credetti sentire l’accento della sua madre che imagino mite. «Questa gratitudine come potrò io mai dimostrarla? come potranno mai esprimerla i miei cari? Dopo tre anni di guerra atroce, dopo un anno di prigionia spietata, dopo fatiche e ferite e malattie e patimenti e brutalità senza nome, avevo perso il senso umano. A Fiume, miracolosamente, ho riacquistato la gentilezza, mi sono raggentilito. Quale gratitudine può eguagliare tanto benefizio?»
Parola ammirabile e inattesa, e divinamente italiana. Nessun’altra, dei miei giovani compagni, m’aveva toccato così a dentro. E, per la vita che creammo e ornammo e menammo, nessuna testimonianza è più semplice e più alta.
«Non sai tu qual sia la vera gentilezza?» è dimandato nel Laberinto d’Amore.
Credo che sia vera gentilezza questa che oggi mi fa considerare ogni nostra cosa buona e bella come una novità e come una rivelazione e come una donazione insperate. Gentilezza in me e gentilezza in altrui e gentilezza nelle cose: non perduta virtù del sangue e del suolo d’Italia.
Con quali occhi il contadino dell’Attica mirò il primo ulivo che Pallade aveva tratto dalla gleba compiutamente?
La sua meraviglia, immune dal tempo, è passata sul sempre giovine Mediterraneo ed è venuta a rinfrescare i miei cigli come la brezza etèsia.
Ho guardato l’ulivo per la prima volta; e le sue radici difficili hanno tremato in me come le radici stesse della razza che assommo.
Per anni ed anni il mio spirito non era stato consolato dalla fronda di argento glauco. Anni di esilio nella Landa pinosa, lungo la spiaggia dell’Atlantico; anni di guerra negli ignudi gironi carsici; anni di passione civica e di lotta senza respiro nella città assediata.
Che era l’ulivo? dov’era l’ulivo?
Ecco che me lo dona Minerva, come al contadino dell’Attica. Me lo dona all’improvviso la Minerva nostra, la Minerva italica, la Minerva capitolina, quella che diede la parola d’ordine alla battaglia del Solstizio e la condusse col ritmo spedito dei Comentarii.
Lo guardo in rapimento. Se lo tocco, ho le mani monde. Mi siedo sotto la sua ombra casta. La sua ombra mi chiarisce l’anima. Attonito scopro nel fondo le natività dei pensieri che non furono precedute da alcuna annunziazione. Le considero con un tremito che mi varia, appreso da queste foglie dove la faccia è d’un colore e il rovescio è d’un altro colore ma per una diversità così delicata che pare una varianza della luce e dell’etere.
Ulivi del Garda tanto umani! Magri, svélti, col tronco diviso, senza mole, tutti respiro e attenzione, ariosi e ingegnosi, non superano di troppo la statura dell’uomo. Si lasciano cogliere una parte dei frutti dal braccio alzato. Portano ramoscelli più pieghevoli che le vermene dei salci, atti a esser chiusi in perfette corone e a muovere il primo fuoco sotto la catasta.
Ho rifiutato tutti i lauri, anche l’ultima foglia, in onore dei miei morti. Oggi mi piacerebbe d’essere coronato d’ulivo, ma come Temistocle.
Invece di una corona scempia ho un uliveto folto, da dedicare alla divinità e agli eroi.
«Non sai tu qual sia la vera gentilezza?»
Io so che questa è la vera gentilezza.
Per aver voluto donare una città trasfigurata all’amore d’Italia e alla vittoria d’Italia, io sono stato trattato col ferro col fuoco con la frode e con la ferocia. Ed ecco un Italiano che con antica gentilezza offre l’ospitalità a me, alle mie memorie, ai miei lutti, ai miei segni; e mi dona una bella collina pel mio santuario.
«Ditemi, voi sopraggiunti, che domandate? di che avete voi bisogno? e che cagione v’ha fatto pigliare questa spiaggia? Gli Dii mandino i vostri incominciamenti di bene in meglio. E se il vostro principe vuol abitare in queste contrade, e vuol essere nostro compagno, sia il ben venuto ora e sempre.»
Ritornano al nostro spirito trasognato le parole della prisca liberalità che pareva nascere con le spighe opime dai solchi dell’alma parente. Riparla con Vergilio il re Latino.
Come fui laggiù alzato contro il barbaro, così son qui piantato contro il barbaro. Non altra è la cagione. La minaccia grifagna di Dante scolpita nel sasso di Manerba non bastò a difendere dagli usurpatori questo lago che «ha nome Benàco» e che è latino quanto il Trasimeno e quanto il Regillo. Occorre che il sasso si muova e faccia impedimento. Occorre rinnovare tra i Rivieraschi la vigilanza e l’ardore di quel conestabile Francesco Calsone da Salò che non disarmava mai contro gli intrusi e che sapeva – esso il dannato bifolco della carra di Codalonga – come si faccia a sbarrare ponti e porte e strade e ogni sorta di valichi.
«Dio ti guardi, o collina che mi sei fatata!»
Il fato è nel nome, ed è nel nome l’officio. La collina donata si chiama «Il Serraglio».
Che m’importa degli ultimi Gonzaga imbestiati e degli amori di Clara Isabella? E che m’importa del senso donnesco e sultanesco che avvilisce la rude parola dei partigiani e degli oppositori? Che m’importa di femmine e di fiere?
Dino Compagni e Giovanni Villani mi restaurano e mi riconsacrano questo nome di serraglio che sa di legno, di ferro, di pietra, di corda, di catena, e d’animo, e d’ogni arnese e d’ogni volere che basti a serrare a sbarrare a durare a ributtare.
«I serragli erano fatti per la terra» dice l’uno. «Quivi s’afforzarono con sbarre e con serragli» dice l’altro.
Con questo Serraglio ci sforzeremo di asserragliare la Riviera che un tempo la gente veneta nominava «magnifica Patria».
Chiameremo alla riscossa la compagnia del conestabile e quella che contro l’Austriaco fu chiamata «Undecima falange del Benàco»?
Nel primo tempo abitavano la collina i Serviti di San Pietro Martire.
Su la collina purificata dall’offerta costruiremo il santuario della nostra fede che col sangue segnammo. Arx et fanum.
Chiuderemo l’uliveto dell’altura in un chiostro che nel suo ordine paesano accordi il pilastro quadro della cedraia e l’arco intero del palazzo pretorio.
Ciascuno degli ulivi inclusi sarà dedicato da una stele o da un simulacro al nome di uno dei nostri martiri sepolti nel cimitero di Cosàla promiscuo.
In fondo al chiostro edificheremo un’abside che nel campo d’oro porti la figura bianca del Cristo risuscitatore di Lazaro. E nel corno destro e nel corno sinistro aduneremo i gonfaloni le bandiere i gagliardetti le armi gli emblemi le reliquie.
Nel mezzo del chiostro, su l’erba rasa, collocheremo tre arche di macigno insieme legate da un gran rovo di bronzo irto di spine come il serto del Figliuol d’uomo.
Disseppelliremo due salme dalla terra di San Vito per traslatarle a Maderno «in una barca senza remi» come quella dove fu coricato il prezioso corpo di Erculiano.
Nell’arca di destra porremo il primo ucciso dai fratelli, la primizia del sacrificio, la vittima della vigilia: Mario Asso dagli occhi aperti.
Nell’arca di sinistra porremo colui che certo nella vita eterna inclina il suo capo fedele sul cuore di Cesare Battisti come soleva il prediletto del Maestro: Italo Conci trentino di Vezzano.
E io andrò con due dei miei «lupi» di Toscana – con due veterani del Sabotino, del Veliki, del Faiti, di San Giovanni – andrò a cercare sul Timavo le ossa di un fante senza nome; e le avvolgerò in quella bandiera dove il superatore del Timavo lasciò le traccie del sangue e le traccie della sanie, in quel labaro tanto ampio che il 2 gennaio bastò ad ammantare tutti i fèretri.
E porremo quelle ossa nell’arca di mezzo.
E non ci saranno là se non gli alberi santi
e lo sguardo del Figliuol d’uomo che dev’essere tradito e rinnegato dopo avere sciolto la morte dalle sue bende.
uno spirito di sorgente nascosta,
una vigilanza umile e senza susurro
correrà intorno alle tre arche,
isolerà nel vóto le tre arche.