Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Sette documenti d’amore

FRAMMENTI DI UN COLLOQUIO AVVENUTO IN UN GIARDINO DEL GARDA

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FRAMMENTI DI UN COLLOQUIO

AVVENUTO IN UN GIARDINO DEL GARDA

IL 10 GIUGNO 1922

Acuit ut penetret.

Amico, possiamo oggi conversare riposevolmente. Sono messo a riposo. Era tempo. I miei giovani imitatori, infatuati di usurpazione, hanno voluto perfino usurpare alla veneranda Accademia della Crusca l’officio di dichiararmi benemerito e giubilato. Proprio in questi giorni ho avuto la gioia di recuperare i miei vecchi libri di Settignano e la mia bella raccolta dei «citati». Apro a caso un volume di «Notizie edite e inedite» e trovo uno straordinario riscontro accademico in una lettera di quel Lorenzo Bellini che è il faceto cantore della Bucchereide: «dicendosi da ognuno unitamente, che le immense mie fatiche durate finora si meritavano ancor prima questo riposo

Ma ancor più singolare è quest’altro passo: «Avendo sentito, dopo la mia giubilazione, varie profezie sopra di me...» Nere profezie, purtroppo. Eccomi oggi superato anche come profeta in patria. Temo che sia per destituirmi anche quella sibilla rustica di Cento che da più d’un anno mi scrive le sue visioni con una ortografia veramente tenebrosa e le indirizza a «Denuzio profeta Gabarriele».

Forse è male ridere così. In tristitia hilaris. Sarò accusato di seguire Giordano Bruno! Parliamo dunque sul serio. Quanta sia la perversione dei costumi politici in Italia e, in genere, delle convenienze usuali appare dall’immenso baccano che si fa intorno a uno scrittore solitario, e per giunta monòcolo, il quale ha seguìto nei suoi studii il più efficace tra i metodi d’indagine: l’inchiesta diretta. La vittima innocente di tante false «interviste» e di tante arrogantissime gonfiature ha esercitato ed esercita, non senza gaudio mentale, una sagace ritorsione scrutando la verità a dentro e provando il tono della sincerità nella coscienza e nella voce degli interlocutori. Credo che taluni di questi portano e porteranno a lungo nel centro dello spirito il segno del non dissimulato acume che li penetrò senza farli sanguinare. Acuit ut penetret. Per mezzo di questi colloquii vigorosi io ora conosco, di tutto il movimento operaio e marinaio e contadino, assai più che non avrei appreso da letture faticose e infide. E risparmio quest’occhio che troppo presto si stanca e s’appanna.

Chi ’l tenerà legato?

Quando il fulvo Commissario del popolo russo passò la mia soglia, mi disse con arguta semplicità: – Grazie. Mostrate molto più coraggio voi nel ricevermi che non ne mostri io nel visitarvi. – Credo che egli avesse ragione. E fin dal primo momento si stupì della mia franca gaiezza e della mia volubile impertinenza. Pensava che io fossi curvo sotto il peso delle mie sciagure e delle ammonizioni altrui. Credeva che la formicolante genìa «di partigianelli novelli e di cortigianelli tirannelli», come direbbe il bilioso Tommaseo, mi avesse imposto tutte le paure, tutte le angustie, tutti gli scrupoli, tutte le meschinità, tutte le ottusità del perfetto «tesserato»: libertas non libera, come si legge sotto l’antico emblema del cane che va errando con al collo la catena in cui s’impiglia. Ma sùbito notò che anche il mio veltro non portava guinzagliocollare e non era incaricato di fingere nessun simbolo dantesco neppure per una qualunque interpretazione officiale del buon dantista Lodovico d’Aragona.

Aria! Aria! E piacenza di quel che mi piace e convenienza di quel che mi pare!

Io non ho mai temuto i contagi, come sapevano i pestilenti di Fiume che non si peritavano di pigliarmi la mano perché io toccassi le loro enfiature. Né ho mai temuto di trarre al servigio della mia causa bella le forze più pericolose, come testimoniano tanti casi della mia vita strategica. E bisogna che amici e nemici si rassegnino a lasciarmi quel che c’è in me di lontano e di misterioso e d’inafferrabile.

Ma la durezza altrui è tanta che non mi giova di aver ripetuto, omai cento volte, come sul camino di ognuna delle mie molte case distrutte, simili ai padiglioni del nòmade, fosse scritto o inciso: Chi ’l tenerà legato?

Tre allusioni per Giorgio Cicerin.

Il ritratto a sanguigna, stampato alcuni giorni fa dal Borgese, è di mano sicura, somigliantissimo. Ora imagina il mio piacere mentale nel tentare e provare quella struttura apparentemente rigida e definitiva. Credo che mi divertirò a raccontare l’episodio nel mio libello di giardiniere ironico e patetico. Ti dirò che il Commissario, secondo il modo di Socrate, «sa di musica». Perciò, innanzi a lui, io non ero senza seduzione.

Molta gente benefica si scandalizzò quando io mandai la mia offerta agli affamati russi pel tramite legittimo di un Comitato comunista. So che la medesima gente s’è scandalizzata perché uno dei miei amici indiscreti ha rivelato il mio «alto e fraterno compianto» verso il popolo infelicissimo. Doveva dire «alta e fraterna gratitudine».

Il popolo russo, con un supplizio molto più atroce di quello che gli fu profetato da Alessio, ha liberato per sempre il mondo da una illusione puerile e da un mito sterile. È omai dimostrato per sempre, dalla più vasta e terribile esperienza che sia stata concessa a una dottrina umana, è dimostrato come un governo escito da una dittatura di classe sia impotente a creare condizioni di vita sopportabili. Il campo è sgombro per i costruttori.

Il mio ospite affettava di non voler parlare dello spirito e delle cose spirituali. Si spiritus pro nobis, quis contra nos? Egli mi diceva che in nessun atto del suo governo si trova la parola «spirito», la parola «anima».

Mi piacque di aguzzarmi a segnare su quella «tabula rasa» imagini della storia, ombre del passato, in contrasto reciso.

Gli dicevo, per esempio: – L’imperatore Alessandro Severo, quel savio che successe a Eliogabalo, fece perire con fumo di legna verde un certo Turino che aveva trafficato il suo credito presso i potenti. Durante il supplizio un banditore gridava al popolo accolto: «È punito col fumo per aver venduto il fumo.» Ecco un supplizio ch’era da infliggere ai vostri colleghi di Genova. Ma come avreste voi potuto sottrarvi alla stessa pena? –

Gli dicevo, per esempio: – Quando Carlo Quinto alloggiò in casa dei Fugger banchieri in Augsburgo (la vostra raffinatezza mal dissimulata si ricorda certo del ritratto di Antonio Fugger dipinto da Hans Holbein), il capo della famiglia condusse il coronatissimo ospite nella stanza addobbata e con una polizza di ottocentomila fiorini – ch’era appunto il debito imperialeaccese il fastelletto di cannella posto sotto la catasta della legna nel camino capace. Il vostro amico tedesco ha imitato per voi il gesto del suo vecchio compatriota. Ma non manca forse l’aroma della cannella? –

Gli dicevo, per esempio: – Il nostro divino Cesare Borgia un giorno disegnò di far perire una brigatella di cinque cardinali, e li convitò graziosamente nella sua vigna di San Pietro in Vincoli. Era d’estate; ed egli in compagnia di Papa Alessandro giunse tutto accaldato, prima che arrivassero le sue vittime in porpora. Chiese da bere. Come il capo dei coppieri non era presente, uno dei garzoni ignaro tolse l’inguistara del vino acconciato con la cantarella; e mesceva. Alessandro ne morì. Ma Cesare, che s’era fatto mitridatico, sopportò il tossico. Tuttavia smaniava per il gran fuoco che quello gli aveva messo nelle viscere. Allora, per alleviare il male, fece sventrare un toro pingue e gli si coricò nel cavo della fresca ventraia. Non sembra un’allegoria? E come mai, con tanta arsura nelle interiora, non v’è riuscito di sventrare il Vitello d’oro per accomodarvici dentro, al modo di Cesare? Ritenterete. –

Ma come si fa a rappresentare per la gente grossa una certa specie di sorriso che sola sottigliezza alle parole?

Il testamento di ferro.

Ho creduto di compiere un nuovo atto di abnegazione in servigio dell’Italia dolorosa che sento vivere in me con un continuo aumento di carità; e di questa grazia interiore, più che d’ogni altra, sono riconoscente al mio Dio e alla mia madre.

Sospesa la guerra, avrei potuto considerare come assolto il mio cómpito di combattente e ritornare alla mia arte che mi sembrava più adorabile dopo il sacrifizio. Ma mi parve di dover difendere la vittoria e di doverle ancóra per un tratto camminare allato con la mia piccola compagnia «solo a lei pari», come disse qualcuno che forse oggi mi ha in sospetto e in dispetto. Andai verso un lungo martirio; e, quando mi fu offerta la cessazione della pena a prezzo della gloriòla obliqua, preferii di rimanere solo contro tutti i rischi e contro gli stessi miei partigiani. E si sa quel che poi accadde.

Ma Ergisto Bezzi, il Trentino dei Mille, mi aveva consacrato col suo crisma prima di morire; e, prima di morire, aveva detto a uno dei miei capitani, a Battista Adami di Trento: – Come noi guardavamo al Duce vedendo in lui la certezza della vittoria, così voi dovete affisarvi nel vostro Comandante sapendo che egli vuole la salvezza della Patria. –

Durissimo era allora portare il peso di questa parola; ma quanto più è duro portarlo oggi! La guerra mi ha insegnato le più belle cose dell’uomo; e mi ha insegnato anche l’umiltà. Ho voluto rientrare nel silenzio. Ho voluto essere un capo senza partigiani, un condottiero senza seguaci, un maestro senza discepoli. Ho tentato di distruggere in me tutto il gelo e tutto l’ardore della mia vita strategica. Ho tentato di riprendere nella mano monda quello stilo che aveva inciso nelle tenebre della cecità il grido della liberazione, per invocare un’altra liberazione e per esprimere le figure profonde che riapparivano folte alla mia tristezza e alla mia felicità di poeta ritornante seminudo come il figliuol prodigo.

Nessuno saprà qual muta battaglia abbia chiuso in sé questo luogo di pace, e quanto sia crudele in questo luogo di pace non aver pace mai.

C’è chi dimentica le qualità della mia mente, le necessità del mio spirito.

Operaio della parola, io sono stato condannato per sette anni ai lavori forzati del «luogo comune», all’esercizio forzato dell’eloquenza, su la ringhiera, nella piazza, nel campo di battaglia. Per sette anni ho arringato le truppe e le folle, ho maneggiato l’anima del soldato e del popolano, mi sono piegato ai contatti più rudi e talvolta alle mescolanze più repugnanti.

O tregue di solitudine, estasi di respiro, nella stretta carlinga, a quattromila metri di quota!

Nessuno imagina con che ansia io sia entrato in questo rifugio, con che bisogno di sprofondarmi in me stesso e nella più segreta sorgente della mia poesia.

Nessuno ha indovinato il mio nuovo strazio e nessuno ha avuto misericordia di me.

L’azione mi diveniva una catena ribadita, il sacrifizio mi diveniva un castigo immeritato. E c’era chi mi ricordava la parola funebre del vecchio trentino, il testamento di ferro. E c’erano molti che tuttora parevano affisarsi nella mia volontà raccolta.

Uno di quegli sguardi lontani mi divenne visibile, sul principio della primavera scorsa, per una di quelle illuminazioni imperiose che forzano il destino interiore.

Chi potrà mai disperare della nostra gente se, pur tanto avvilita e traviata dai pessimi pastori, è tuttavia capace di raggiungere le più aeree sommità dello spirito?

La fiamma nella neve.

Ecco l’esempio. Uno dei più prodi e dei più schietti tra i miei giovani ufficiali, Guido Narbona, s’era partito con due compagni da una stazione della Valle d’Aosta per salire a quel mirabile pianoro che si stende tra il Cervino, i Gemelli, la Testa del Leone e le altre cime care agli espugnatori di altezze. Ma dopo cinque ore di marcia faticosissima sopra la neve recente, i tre schiatori furono assaliti dalla tormenta; e, disorientati, errarono per altre nove ore nell’ignoto, cercando un rifugio dove potessero almeno sostare.

Stremati, assiderati, con gli occhi gonfi, stavano per cedere alla tentazione del riposo breve, stavano per abbandonarsi a quella tentazione larvata della bianca morte, che già mi tolse il mio sublime Natale Palli; quando scorsero un gruppo di case, e fecero l’ultimo sforzo d’animo per accostarsi alla prima. Aprì la porta una vecchia che li aiutò a liberarsi degli arnesi, li riconfortò d’acquavite, e apprestò un letto di strame dove il sonno li abbatté d’improvviso come un colpo di maglio.

Dopo chi sa quante ore di letargo, Guido Narbona si svegliò accanto ai suoi due compagni addormentati, e udì un rantolo cavernoso interrotto da scoppii di tosse strazianti. Si levò sbigottito; e vide la vecchia accosciata nell’angolo, presso un lettuccio miserabile dov’era coricato un corpo interamente scarnito dal male, un lugubre ossame d’uomo senza età e senza sangue, uno scheletro squallido con le occhiaie piene d’un fuoco non consumato. Quella era veramente una «fiamma nera» accesa tra la vita e la morte; e l’ardito Guido Narbona non aveva mai veduto occhi umani tanto ardere nella fazione di Sernaglia quando l’acqua del Piave al guado rugghiava come se vi si temprasse a masselli l’acciaio rosso.

Tremò sentendosi chiamare da quella fiamma «come fosse la lingua che parlasse». Quelle ossa l’avevano riconosciuto, ed egli aveva riconosciuto quelle ossa. Quello scheletro ardente era uno degli scamiciati di Sernaglia, uno dell’Ottavo reparto d’Assalto, uno dei migliori, uno degli ottimi: era Martin Messelod.

Martin Messelod era stato ferito in quella che a me sembra la più bella battaglia italiana di tutti i tempi, nella battaglia del Solstizio, dove il sangue sparso consacrava il pane rinato e il pane rinato prometteva di rifare il sangue sparso. L’erculeo Martin Messelod, mentre nel combattere superava l’ardire che cercava di superarlo, aveva ricevuto una pallottola nel polmone ed era rimasto in piedi con l’arme nel pugno. Guido Narbona, il suo tenente, l’aveva fatto portar via con la forza dalla linea di fuoco; e non l’aveva più riveduto se non a Fiume, già divorato dalla tubercolosi, smorticcio, febricitante, stillante di sudore mortale, e posseduto da una passione di patria e da una volontà di servire che gli ricostruivano ogni giorno la forza consunta.

L’esodo dalla città, dopo il patto degli altri, è il più doloroso ricordo della mia vita dura. Ma il commiato fra me e la legione di Sernaglialegione fra tutte esemplare – mi fece tanto soffrire che non v’è fallo a cui quel dolore non possa essere ammenda. Tutti volevano soffermarsi davanti a me, nella sfilata, per far pesare sul mio petto la loro fedeltà e la loro tristezza. Taluno chiedeva di potermi baciare, altri mi offriva un fiore d’inverno, altri mi offriva la sua imagine ingenua. Martin Messelod si chinò su la mia spalla, all’ombra dello stendardo, e pianse. Udivo il suo singhiozzo rintronare nelle caverne cupe del suo petto; e temevo che l’angoscia mi vincesse. Ah, chi ha conosciuto un tale amore, come può rifiutarsi di servirlo fino all’ultimo?

, su l’alpe, l’eroe condannato non lacrimò, non si lamentò, non si rammaricò. La ferita del Solstizio non gli bruciava nell’anima se non come un raggio del meriggio vittorioso.

Chiedeva a Guido Narbona che lo prendesse con sé, che lo portasse al piano, che lo portasse di dalla neve e dalla tormenta.

Supplicava i tre ospiti che lo caricassero nella barella; prometteva di camminare a tratti a tratti perché ripigliassero fiato; giurava che in cammino gli sarebbe ritornata la forza. Non aveva pensiero, non aveva parola, non aveva ansietà se non per la causa bella. Voleva rivedermi prima di morire; voleva che io lo aiutassi a riconoscere, prima di morire, il volto della Patria salva.

I polmoni non gli s’erano logorati se non per far più spazio all’animo; e il candore della solitudine non gli s’era disteso intorno se non per contenere un sol lineamento.

Davanti a questo primogenito della grandezza eterna, che m’importa quella gloria che oggi gli amici miei cari mi rinfacciano e mi ridomandano come un dono mal donato o un privilegio mal concesso?

La notte del 4 novembre diedi al fuoco tutte le mie decorazioni di combattente, per farne onore al soldato ignoto; e non le porterò più mai. Così oggi scrollo da me una gloria che m’è capestro al collo e catena al piede. Sono un povero italiano, e non voglio essere se non un povero italiano.

Il groppo delle mie perplessità fu tagliato dal semplice Martin Messelod con la sua lama corta che la sua sola fede bastava a difendere dalla ruggine. E non pretendo di essere lodato se, invece di ritirarmi in un bel ghiacciaio o in una bella fornace dell’Intelligenza, mi ricondanno alla pena di trattare la materia umana. Né mi dolgo di essere sospettato e ingiuriato. Mi basta di non perdere la mia anima. Voglio ancóra tutto rischiare, come ho sempre fatto nella vita trascorsa; ma non posso rischiare di perdere l’anima.

Non ho oggiorgogliodisperazione bastevoli a ripetere la sentenza di Severo: Omnia fui, nihil prodest. «Tutto fui, e nulla giovaOpero, e non dispero. Servo, e non dubito. Nascondo la persona, e diffondo lo spirito. Non chiedo, e non attendo. Persevero, e non mi converto. Mi conquisto ogni giorno, e ho quel che ho donato.

L’arengo in fiore.

Conquistarsi ogni giorno è, per un uomo, conquistare a sé stesso la sua propria libertà.

Ma il sentimento della libertà non può essere alto se non nell’uomo compiuto, non può vivere e respirare se non nell’unità di tutte le forze morali e nell’armonia di tutti gli atti efficaci.

L’uomo veramente libero è l’uomo intiero. Per ciò mi piace che i giovani scolari della Prima Olimpiade abbiano intuito questa verità fondamentale e abbiano dichiarato che per essi la fusione delle «tre discipline» tende a formare l’uomo intiero.

Ma quella celebrata nell’aprile non è la Prima Olimpiade; è la Seconda. La Prima Olimpiade della nuova giovinezza italiana fu celebrata nella battaglia del Solstizio, conforme il rito primitivo. , tutti avevamo in bocca una freschezza di novità così forte che ne eravamo inebriati come da un filtro di ringiovanimento. L’ho già detto. Nessuno aveva più di vent’anni. Perfino i veterani avevano vent’anni. Tutta l’Italia aveva vent’anni per combattere, per vincere, per vivere, per morire.

Ha vent’anni anche l’Italia combattiva d’oggi, quella che ieri ben vendicò nelle vie e nelle piazze gli eroi abbattuti nei rigagnoli, i feriti vilipesi, i mutilati derisi e percossi. Ma dov’è la novità?

La legge del taglione è vecchia come la barbarie; e, in ogni modo, molto più giusto sarebbe esercitarla contro i malvagi ispiratori che contro il triste popolo illuso e deluso. Bisogna liberare il popolo dai demagoghi; bisogna liberarlo dalle false dottrine e dalle coordinate menzogne che lo stupidiscono e lo fiaccano; bisogna insegnargli a conquistare la patria e la libertà nel più altero senso ideale; bisogna farlo artefice della potenza nazionale per quel medesimo spirito religioso che conduceva il lavoro delle antiche maestranze a edificare l’edifizio pubblico con le pietre «adunate da un decreto di gloria»; bisogna alzargli la testa e allargargli il respiro, perché la sua opera non sia una pena odiosa ma un sempre rinnovato dono fraterno; bisogna dirgli che da più di vent’anni c’è in Italia un Canto di Calendimaggio, un canto di lavoratori liberi, fresco come l’orlo marino della veste d’Italia, il quale attende di essere fatto carne e di esser fatto coro.

Io parlo ai miei operai nel mio giardino. Li faccio sedere. Io rimango in piedi. Mi conoscono. Sanno, per testimonianze certe, che – da quando col mio lavoro ho potuto costituire una tenda o una casa mia, cioè da anni molti – sempre i miei famigli di qualunque sorta hanno mangiato il mio medesimo pasto e che questa «eguaglianza», già cantata da me in un poema ignoto che si chiama Laus Vitae, non fu mai neglettadiminuita. Sanno che il mio primo amico, l’amico della mia prima infanzia, fu un poverello che si chiamava Cincinnato, e che il primo racconto (caro al mio buon Ferdinando Martini) fu scritto in memoria di quel poverello capelluto; e che gli davo ogni giorno la mia merenda; e che, quando mia madre una volta lo seppe e volle rinnovarmela, io non la presi perché mi pareva di sentir menomato il piacere dell’offerta; e che questo, di me, piacque a mia madre e che questo, di me, piace anche a me.

Ma dove se ne va anche il mio pudore della vita nascosta? Tanto dunque tempi e uomini sono avversi alla gentilezza? e il contagio della fatuità prende i più schivi?

Così, contro l’abituale disattenzione e l’abituale dimenticanza, io sono stato costretto a illustrarmi e a citarmi, ma non senza brevità discreta, nel mio libello che s’intitola «Il sermone nel giardino».

Discordia demens.

Sono nel libello rappresentati, con la massima sincerità, uomini, eventi, idee, passioni. Tutti gli uomini di buona fede, in questa ora così perigliosa per la Patria, debbono fare un esame di coscienza tanto severo quanto sereno, e porre la loro coscienza in rapporto diritto con la coscienza nazionale e con i problemi nazionali. Questo io faccio. E può essere quasi il testamento del mio spirito «liberato e liberatore».

C’è oggi in Italia una giovinezza esplosiva e una decrepitezza ingombrante. Ci sono dottrine senza sale e senza cemento, istituti politici più morti d’una cassapanca fessa e tarlata, idee stracche che non operano più del fumo o di un otre, demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida, conservatori che non si affannano a conservare se non quel che è già corrotto, combattenti che disconoscono la vittoria, eroi che rinnegano e profanano il sacrifizio, asceti che bestemmiano la luce mattutina; e, commisti e frammisti, un vigore ansioso di esprimere e di costruire, un convincimento d’orgoglio nei destini prossimi, una fede ebra nell’apparizione necessaria di una idea dominatrice e creatrice, un bisogno eroico d’obbedienza a un ordine che sollevi le sue architetture ignote di dalle più ardue fortune e dalle più potenti espressioni della razza in cui furono elaborate tutta la storia e tutta la civiltà del mondo.

Il contrasto è insano, la lotta è incomposta. Ma prevarranno le forze fresche, prevarranno le volontà nuove, prevarranno i valori schietti. Prevarranno i miracoli di virtù e di invenzione che fanno di questo nostro popolo miserabile e ammirabile il serbatoio spirituale della terra.

«D’ogni lavoro ha fatto un’arte compiuta; d’ogni tumulto, una conquista subitanea. Nelle alluvioni più torbide ha preso la creta delle sue figure armoniose. Con la cenere di tutti gli idoli ha rialzato la deità del suo Genio.» Queste parole furono pronunziate dinanzi alle compagnie dell’ultimo bando, dinanzi agli ultimogeniti della Madre sanguinosa, dinanzi alla cerna di tutta la razza, prima della battaglia, prima che nel solco della battaglia risorgesse l’alloro. I giovani parevano udirle con gli occhi, tanto gli occhi sfolgoravano levati come se esse fossero per dispiegarsi nell’aria a guisa di un vessillo sormontato dall’aquila.

Avevo già rinvenuto nel mio cuore latino l’antico grido guerresco della gente di Enea, l’alalà che fende l’aria senza lacerarla. Ma i giovani, che oggi lo gridano anche sopra la violenza inutile e sopra il castigo ingiusto, sanno essi da quale prova fu riconsacrato la prima volta?

Il primo alalà.

Avevo già condotto due volte la mia squadra notturna sopra l’inferno di Pola, nell’agosto del 1917. La terza notte, sul 9 agosto, aspettavamo nel nostro campo della Comina l’ordine di partenza. I meccanici avevano già mosso le eliche. Le fiamme verdi rosse azzurre gialle, versicolori come il velo d’Iride, già irrompevano dai tubi di scarico. La bellezza crinita dei velivoli si accendeva nell’afa buia. Tutti avevano già le loro trecce di fuoco, avevano già la loro pulsazione di folgore.

A ogni tratto i miei compagni impazienti, superando il rombo, mi gettavano l’urrà, mi scagliavano l’urlo barbarico «che ci venne dalla patria degli ukase, che è la benedizione del pontefice moscovita». Scotevo la testa, minacciavo con la mano. Si ostinavano.

Allora, d’improvviso, non dalla mia memoria di scuola ma dalla mia oscurità più profonda, sorse l’altro grido e mi attraversò il petto come un guizzo di strale. «Compagni!» E tutti si radunarono intorno. E, quando io ebbi parlato, tutti si mondarono la bocca dall’urrà col rovescio della mano. E tutti sùbito trovarono il nuovo tono, come se fossero giovani Achei dalle belle gambiere trasportati nel mito d’Icaro.

Comandai: «Silenzio. Non qui ma laggiù, su Pola romana, consacreremo il grido della nuova forza d’Italia. Quando tutte le bombe sieno state mandate al segno, ciascuno equipaggio – prima di virare per la rotta del ritorno – si leverà in piedi, compreso il pilota di destra, e lancerà il grido attraverso i fuochi di sbarramento

Chi si trovò una volta sopra Pola di notte, sa qual fosse l’inferno delle batterie e dei proiettori. Il comando fu eseguito, con una divina fierezza. L’alalà fu inaugurato al vertice della più bella virtù giovenile. Summa petit. Su la rotta del ritorno ci pareva che tutte le stelle fossero da noi conquistate all’Italia.

Nella via insanguinata, nella piazza clamorosa, nella casa arsa, nell’officina distrutta, voglio che oggi per l’anima di tutti i giovani Italiani passi questo ricordo.


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