Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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Commiato del canto

I PRODIGIVM CANIT

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Commiato del canto

I

PRODIGIVM CANIT

Oggi, o fratelli Italiani, è il giorno melodioso della mia intima vita; è il giorno musicale della mia meditazione e della mia confessione: il Ventisette di Settembre.

Il trànsito di mia madre ha riconsacrato per me il numero possente. Ha quasi rinnovellato una deità che in antico, in non so più quale credenza asiatica, raccoglieva sotto il suo genio tutti gli eventi nati nel vigesimo settimo d’ogni mese. Non era la deità di nome Asuman?

Ogni volta mi sembra di entrare nel trànsito. Ogni volta mi sembra di varcare la soglia di un’altra vita, quasi condotto da quella melodia degli spiriti beati che abbagliarono Dante ultimamente apparsi nella sfera del Sole.

Da prima era un aumento di angoscia. Trapassavo per meglio conoscere l’odio la frode la miseria, ogni bruttura occulta o palese, e per più soffrirne, e per più straniarmi?

Ma oggi non sono intento se non alla parola dell’uomo da Padova, inspirato dal Seràfico quando recava il suo fervore per le contrade soprane d’Italia, in riva ai grandi fiumi nutritori dei cigni. «O fratelli, imitiamo il cigno, che muore cantando. Suavius ut canat. Quando vien per lui l’ultima ora, egli apre il varco alla melodia di un lieto dolore

È l’ultima ora? o è la prima?

È questo il mio giorno funerario? o è il mio giorno natalizio?

Presso l’imagine di mia madre è custodito in un reliquiere d’Abruzzo un pugno della cenere rimasta dalla consunzione del rogo votivo che, or è per compiersi l’anno, nella notte del 4 novembre io accesi al combattente senza nome.

«Era d’un sol colore, quel Poverello d’Italia, come se il suo Dio l’avesse rimodellato nella creta del Piave. E d’un solo splendore era la fiamma

Non celebrammo in quella notte sacra il natalizio? E non lo celebrerà fra cinque volte sette giorni tutto il popolo pellegrino? Non lo celebrerà l’Italia rinata nel natalizio del suo martire senza nome e senza corona?

Com’è bello chiamar natalizio il giorno eletto a celebrare la morte del martire nel luogo dove ha sepoltura!

Se v’è il Natale di Roma, v’è anche il Natale d’Italia. E l’antichissima primavera non rifiorisce nel sanguigno autunno? E non è grazia del destino che la divinità umanata dei pastori s’irradii dall’aprile romuleo al novembre italico?

E perché, a condurre il pellegrinaggio, non v’è anche oggi un console di Dio, come Gregorio Magno è romanamente perpetuato nella iscrizione sepolcrale? E perché il nuovo console di Dio, sotto il segno d’Italia, sotto il segno della Vittoria, non condurrà al sepolcro del martire, che è unico e che è legione, le «coorti del popolo» miste d’ogni ordine e d’ogni età, desiderose d’armarsi «delle armi spirituali» che sole varranno alla grandezza della Patria rinata?

Tutto m’è alimento ascetico; e tutto mi giova a congiungere in unità «forma d’ogni bellezza» le cose nate e le nasciture, dai primi crepuscoli dell’evo alle più profonde aurore dell’avvenire.

Non riparla, dopo secoli e secoli e secoli, il Console di Dio? Non ripete egli presso l’altare della Patria, dinanzi al sepolcro del fante «senza figura», l’omelia ch’egli proferì nella basilica di San Pancrazio fuori della Porta?

«Veggo» egli ripete «come in gran numero accorrete alla solennità del martire. Voi piegate le ginocchia, voi vi percotete il petto, voi mormorate le vostre preghiere, voi bagnate di lacrime i volti. Ma palesatemi i vostri cuori. Ma aprite i vostri cuori al raggio di questa grande carità che cangia quest’arca funebre in arca di salute.

Sia questo, o fratelli, o fedeli, sia questo l’Anno di Salute per la Patria che non perisce, che non può perire.

Conoscete, o fratelli, o fedeli, quanto l’amore e la carità nativa della Patria tutti gli altri amori e tutte le altre carità sorvólino e sopravànzino.

Siamo raccolti intorno alla tomba di un martire generato dal profondo cuore d’Italia e ritornato nel più profondo cuore d’Italia. E voi sapete per qual morte egli consacrasse col proprio sangue il fiore della sua giovinezza, e con qual divino sacrifizio egli consacri il fiore di tutta la giovinezza che gli somiglia per vivere e per vincere, per vincere e per morire.

Ci fu già chi, senza effusione di sangue, ottenne il glorioso trionfo del martirio. Ogni travaglio devotamente patito, e pur l’intenzione sincera e umile del patire, fa l’asceta e fa il martire. Ci sono martiri in ispirito e in opere, come ci sono, oltre i battezzati nell’acqua, i battezzati nello spirito, i battezzati nel sangue.

Non s’ebbe i tre battesimi questo figlio di luce, questo figlio della terra, questo nato del popolo? Nell’acqua, nello spirito, nel sangue si battezzò; e si perpetuò nella causa bella, nella ragione sacra, nel fine alto per cui volle patire e donarsi.

Noi, fratelli, se dare la vita non potemmo, se non diamo la vita, vinciamo almeno l’animo nostro, vinciamo quel che nell’animo nostro è impuro o vano o folle. Un tal sacrifizio interiore a noi vale come il cruento. E occorre, per la nostra pace, che una tal vittoria segua l’altra vittoria. Del medesimo lauro e del medesimo olivo il Re de’ regi coronerà la fede alle cose immortali

Questo ripete il Console di Dio che, santificando il sepolcro del martire novissimo, non ignora come dal suo San Pancrazio si nòmini la gloria di altri martiri giovinetti.

O eternità dell’umana e divina bellezza su tutte le cime e in tutti gli abissi!

Quegli altri martiri non morivano nelle petraie del Carso o nei ghiacciai dell’Alpe o su le ripe dei fiumi veneti, ma sotto le sante mura di Roma. E d’essi anche si può dire come degli ultimogeniti: «Eravate ieri fanciulli; e ci apparite oggi così grandi! Grandeggiate nella nostra speranza, voi che l’avete ritessuta. Signoreggiate il nostro orizzonte, voi che l’avete riaperto

Quando ero al limitare della morte, non mi pareva talvolta essere allineato coi miei compagni sotterra nel cimitero di Ronchi? Non mi pareva d’essere traslatato, quasi ogni notte, di camposanto in camposanto?

E, per grazia di ratto, non mescolai forse le mie ossa anche con quelle della seconda legione lombarda?

Sotto la Porta di San Pancrazio il monco dalla sua barella scosse ridendo il moncherino anche su me «come un aspersorio di sangue» e ribattezzò anche me come gli imberbi, ribattezzò con me «le coorti adolescenti».

Era il gentil sangue latino; era il sangue medesimo che io mutilato anelante di ricombattere vidi risplendere nel d’Ognissanti sul Veliki, quando tutto splendeva «come se tutti i Santi della Patria avessero gettato le loro aureole in quel punto dell’aria dove i soldati balzavano all’assalto».

Nell’assalto carsico il moncherino mi abbagliava come sotto la Porta di San Pancrazio. Anche c’era un ferito che aveva una mano interamente rossa, sfavillante come l’estremità di un tizzo; e le faville tuttavia mi riardono. Il coraggio è lo splendore mistico delle vene mortali. V’appariva e vi spariva un anello d’oro, una «fede» cerchiata a pegno.

Che significa l’aspersorio nel prodigio di Roma?

Che significa la «fede» nel prodigio del Carso?

E che sono gli anni, e che sono gli errori, e che sono le sciagure, e che sono le colpe a una stirpe come la nostra?

Lo stesso monco, lo stesso ferito invitto, grida: «Giovani, ora soltanto l’Italia è giovane, l’Italia è nuova

Dal sempre rinascente eroismo sgorga lo stesso canto.

O Verità cinta di quercia, quando

canterai tu per i figli d’Italia,

quando per tutti gli uomini canterai

tu questo canto?

Io l’odo, io l’ascolto. Sopra la riva destra del Piave, alle reclute del ’99, agli ultimogeniti della Madre sanguinosa, io mostrai l’alloro italiano ch’era risorto a miracolo dal solco della nostra più bella battaglia.

Gridai: «Siete il levame della volontà creatrice

E quel grido non si può spegnere nei cuori predestinati alla vittoria prossima e alla vittoria lontana.

«Siete a noi come il fregio vivente del tempio d’anima. Il fango non vi giunge, l’ombra non vi tocca. Siete gli illesi e gli immuni

Chi nel «tempio d’anima» scoperchierà il sepolcro del combattente senza nome? Chi oserà chinarsi a riconoscere l’eroe senza figura? Chi sosterrà, su la sua fronte sommessa, la fólgore dell’immensa trasfigurazione?

Quando io ero sanguinoso e infranto nel mio giaciglio, quando la mia agonia m’era non so che trasognamento, quando i più cari dei miei compagni eroi risalivano dalle fosse al mio capezzale per assistermi e per compassionarmi, una volta mi avvenne di stendere verso la proda la mia gamba destra nelle fasce e di dominare il mio spasimo per dire piano a Enrico Toti: «Prestami la tua gruccia

Il Romano si ricordò che in un altro agosto, due anni innanzi, io avevo detto ai suoi Bersaglieri memori: «Sapete, compagni, che nella gruccia è la figura della croce? Sapete che la parola gruccia viene dal latino barbaro crucia? Non faccio stamani con voi il maestro di scuola; ma voglio che voi sentiate come l’origine non sia nella barbarie remota, sì bene in quella prossima. I Latini bastardi hanno imbarbarito anche la figura della croce; e un Romano della razza di Curzio ha fatto della sua stampella una croce alata e immortalata col divino furore della sua propria anima

Sognavo? Trasognavo? O ero tratto, fuor dalla mia pena, in una visione profetica?

Enrico Toti mi porse la sua gruccia; e io v’inforcai l’ascella dolente, e tentai di trascinare il mio lato stronco.

Dov’ero? in quale paese di pietra?

Chi aveva tagliato in un calvario del Carso quelle scalee? chi aveva estratto dal disperato macigno quelle forme?

«Per combattere bisognava amare e credere. Bisognava a ogni balzo divinare il lineamento d’Italia sotto la crosta estranea. Il getto di una sola vena bastava talvolta a mutare la figura d’un luogo servo foggiata da tante cagioni nella lentezza dei tempi...»

Rifavellavano dunque nel mio petto gli spiriti del Carso come in una fòiba guerriera? Spirava su me l’aura dei tempi, o la bora sterile?

«Sarai come il seme della terra; e ti spanderai verso occidente, e verso oriente, e verso settentrione e verso mezzodì; e tutte le nazioni della terra saranno in te rinnovellate...»

Ero a piè di quella scalèa che con la cima toccava il cielo? Salivano e scendevano per essa gli angeli d’Italia portando sotto le loro fronti gli occhi riaperti dei morti? E il Dio d’Italia creava nel futuro una nuova grandezza e un nuovo segno?

Non era la visione del Golgota; non era la visione di Betel. La gruccia dell’eroe mi rapiva come un’ala cherùbica su per l’altezza. Non più era scagliata ma scagliava. Non più percoteva il nemico ma, secondo il verbo romano, percoteva il patto. Fœdus percussit.

Il sepolcro del soldato senza nome era davanti allo scampato dalla rupe tarpea, che anch’esso non aveva più nome. Nel suggello del marmo la gloria silenziosa pareva «fuoco dietro ad alabastro».

La lupa urlava dal Campidoglio; l’aquila strideva dal Palatino. Ma l’anima credeva udire, di dall’urlo e dallo strido, il cantico degli angeli d’Italia che recavano sotto le loro ghirlande gli occhi riaperti dei morti. E non erano essi intenti a scendere e a salire per la scala celeste, ma «a fondere la lor cittadella musicalmente coi modi proprii ai nervi della vasta cetera e non ai fóri del flauto gracile».

Ero solo con la mia cecità e con la mia veggenza, e con le mie piaghe misteriose e col mio sostegno eroico. Ansavo intorno al sepolcro, cercando nel marmo le commessure, tentando di rimuovere il coperchio. Perché chiamai mia madre?

Ero forse io medesimo il sepolto? Era forse sopra me stesso chiusa la pietra?

L’imagine di mia madre evocava l’apparizione di un’altra madre. Rivedevo la cassa nera e muta dove il cadavere di Natale Palli era stato suggellato da mani estranee, tolto dal suo lenzuolo di neve eterna. Rivedevo la vecchia casa del Monferrato come ampliata dal battito continuo di un’ala invisibile. Rivedevo la cappella mortuaria folta di corone moribonde. E rivedevo la madre, dal dolore fatta simile alla fiera nel covo deserto e simile alla Maria sotto la croce salubre, la rivedevo girare di continuo intorno al legno muto, e tentare di rompere il suggello, e tentare di sconficcare i chiodi, e spezzarsi le unghie nello sforzo, e logorarsi le dita, e schiacciarsi il viso contro l’asse opaca, e imprimere nell’asse la sua disperazione e la sua speranza.

Non ero solo? Chi rispondeva al mio grido? Chi era con me?

Taceva la lupa, taceva l’aquila. Non per la scalèa discendevano i nunzii d’Italia, ma salivano i secoli di Roma immuni di cenere e di polvere, con la bocca animosa di futuro, simili a potenze profetiche rivolte verso un’aurora promessa o temuta.

Mi parlava la voce materna di Roma, fra l’altare e la tomba. «Tu vedi rilucere il marmo. Dentro arde la mia lampada. Dentro splende la inestinguibile luce latina, o figlio dei miei figli

Io non cessavo di tentare la pietra che pareva alleviata dall’intimo bagliore.

«Vuoi tu scoperchiare il sepolcro? T’è forse la gruccia gloriosa come la marra ignara di quell’uomo che un giorno scoperchiò quel sepolcro su quel Palatino dove i primi arcadi coloni avevano alzate le capanne senza il presentimento dell’Urbe? E che mai son per me nove secoli? Non li odi tu cantare stanotte come le nove Camene che abbiano appreso i toni e i neumi dal Console di Dio

Ed ella soggiunse: «Tu hai tentato e tenti la pietra. E forse – non ne tremi? – forse Vergilio lascia che Dante a questo eroe senza nome faccia coperchio di quello scudo ove il dio effigiò per Enea le gesta future dei nepoti e la mia gloria e l’ordine de’ miei fati dall’allattamento ferino dei due gemelli alle mie grandi battaglie e alle mie grandi vittorie e alla mia grande pace

E ancóra soggiunse: «Odi. Nel pensiero di Vergilio non io fui l’ultima a nascere delle città italiche? E oggi non affanno io di me maravigliosamente l’Italia nuova, quasi io fossi ancor non nata alla grandezza e alla bellezza che tu intravedi e in cui tu credi? E ben so che l’affanno di tutti non eguaglia l’affanno tuo solo.»

Soggiunse: «Odi. In questa tomba è trasposta la mia Ara massima, riconsacrata al massimo dio della gente latina, al Sole. E qui, come l’alba domanda il sacrifizio, anche il tramonto chiede l’offerta. E tu ricorda ai costruttori di ogni altra ara giusta, ricorda che l’eroe massimo di mia gente dormiva sopra foglie in un piccolo tugurio, forse come questo eroe postremo; e che, quando discese agli inferi, aveva una ghirlanda di foglie. E ai tuoi lavoratori tu rammenta come le foglie, dalla parte che toccava le tempie e il capo, imbiancassero per il sudore

Al confine della vita, al limitare della morte, la mia anima religiosa non riconosceva né il limitare né il confine. Il mio sentimento religioso si effondeva di da tutti i dommi insegnati e da tutti i riti trasmessi. La religione m’era la perpetuità della stirpe e la virtù del sangue. A me guerreggiante era l’arme da lancio e la piastra e la maglia, come a tutta la mia gente. A me interprete era la mediatrice fra i mondi storici e i mondi ideali, la rivelatrice della tradizione e del vaticinio, dell’indefinito e dell’infinito, del presagio e del sogno, del pensiero e dell’atto, dell’inconsapevolezza e della sapienza, della parola e del silenzio, della forma e del colore, del simulacro e del libro. A me signìfero era la testimonianza dell’unità profonda assomigliata al piano dove si sollevano e si avvallano le onde, e v’hanno la radice e il pendio e il fianco e il dorso e la cresta. A me vessillifero era l’indizio del movimento unico inteso a cercare i suoi varchi i suoi guadi i suoi ponti, le sue vie ignote, le sue mète certe.

In quella notte senza stelle la gruccia dell’eroe non mi fu la marra del contadino e la croce del rivelatore?

Con l’aiuto della gruccia ricercai la commettitura, e rimossi il coperchio con l’aiuto della marra. Erano i primi anni del secolo undecimo? erano i primi del vigesimo?

Giaceva nel sepolcro Pallante di Evandro o il fante del Timavo?

Vi giaceva intatto un eroe giovinetto «dal viso di fanciulla».

Come aveva egli combattuto? Cavaliere appiedato come al bivio di Paradiso. Conduceva cavalleria arcade mista all’etrusca. Riconosciuto svantaggioso il terreno, aveva comandato che la cavalleria appiedasse. I guerrieri non avvezzi incuorava con l’esempio non mai restando di assalire e di uccidere. Sempre s’avanzava e sempre combatteva, e del suo coraggio faceva il coraggio di tutti.

Or chi gli viene incontro? chi per affrontarlo discosta i suoi, ed apre alla sua forza il varco?

Il grande Turno?

Non importa. Pronto alla vittoria o alla morte, il giovinetto si scaglia pel varco tremendo. E il nemico gli è innanzi.

Per un attimo l’imberbe leva gli occhi al cielo d’Italia. E dal cielo ode la sentenza sublime che sembra fargli triplice il cuore e l’arme: la vita è breve, e sol la gloria l’allunga.

Sì, quegli che cade è Pallante, poiché vedo l’asta di Turno scagliata passar lo scudo e la corazza e il petto.

Vedo il giovine strapparsi il ferro dalla ferita. Vedo i compagni riportare sopra lo scudo il cadavere del giovine eroe «per cui il primo giorno di guerra fu il primo della gloria e l’ultimo della vita». O dolor atque decus magnum... Canta Vergilio?

E il morto ritorna nel cuore della Patria. «Il feretro è un graticcio di rami, e lo giuncano le foglie. E i guerrieri pongono su esso il giovinetto che pare un fiore colto da una vergine delicatamente; che conserva la sua forma e il suo colore, sebbene non nutrito più dalla terra...»

Canta Vergilio? Ma per noi non aveva ricantato sul Timavo nella notte di Pentecoste?

Fontem superare Timavi era inscritto nel poema delle origini. E le tre parole dell’emistichio parevano divenute un comando conciso pei soldati della quarta Italia, dopo mille e mille anni.

Eravamo portati dalla ventesima onda dei secoli: dieci e dieci: dal secondo flutto decumano.

Quando mi chinai verso la fonte misteriosa, prima d’entrare nella battaglia, scorsi chinato al mio fianco un giovinetto che non mi disse il suo nome. Immergemmo le mani nell’acqua lustrale; e io credetti bagnarmi la fronte nel poema delle origini. Risollevandomi intravidi la faccia notturna di Roma.

O era la lampada inestinguibile del valore latino, della virtù latina? o era la stessa lampada, che solitaria vegliava da secoli nel sepolcro scoperchiato dalla marra dell’ignaro?

, sul Palatino, gli accorsi, invasi da superstizioso terrore o dementati da viltà, tentarono di spegnere la fiamma. Non i soffii turpi valsero ad abbassarla, non a estinguerla valse la bava senile, non il getto della saliva putrida. Il terrore fu vano, la viltà fu vana, l’ignoranza fu vana. Ma narra la leggenda dell’evo oscuro che alfine una mano temeraria spezzò la lampada e domò sotto il frantume la fiamma prodigiosa che stridette e gemette e disparve.

È la leggenda remota? è la leggenda di ieri?

Le gole empie io le ho serrate, le bocche empie io le ho suggellate, le mani empie io le ho troncate.

La lampada vige, la lampada arde, la lampada splende, non più nel sepolcro arcano del figliuolo di Evandro ma nel sepolcro ben costrutto del fante senza nome; che è l’ara massima della Patriaquae maxima semper Dicetur nobis et erit quae maxima semper.

Io la scopersi, io la guardai, io mi riempii della sua luce quest’occhio superstite e n’ebbi rischiarato a miracolo quest’occhio estinto, nella notte senza stelle. E non soltanto il marmo sepolcrale ne luceva come alabastro ma ne luceva tutto l’ossame eroico.

L’antichissimo padre di nostra gente era d’origine sacra, e in forma umana era detto Latino. Ma un giorno, nella battaglia, non si vide più; era tornato dio.

Questo Latino giovinetto era figliuolo d’uomo nella battaglia; ed ecco, nel sepolcro, è tornato dio.

O Madre, e quel che ti daremo vinca

di santità quello che t’offerimmo.

Pur t’offerimmo quel ch’era in noi divino.


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