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II
Vedete, o fratelli Italiani, fratelli nel «gentil sangue latino», vedete quante interpretazioni e innovazioni improvvise accompagnano la mia convalescenza pensosa e attenta! «E il mio cor non iscema, anzi s’innova.» Così parla un rimatore ditirambico alla mia sobrietà?
E perché la mia memoria s’infoltisce di questo rigoglio, simile quasi a un gran fieno settembrino che superi il taglio maggese?
Entra nel cerchio del mio mistero lirico un cronichista di Fiorenza antica per misteriosamente rammentarmi che «i compagni mìsono in iscrittura le parole e la notte».
Ho io messo in iscrittura le parole e l’aurora? il colloquio e il mattino?
Il colloquio nell’arengo di pietra e di fronda, il piccolo parlamento arioso e luminoso, è convertito in un messaggio impresso che a voi mando non senza malinconia, quasi fascio di quelle prime foglie morte che cadevano a quando a quando su i nostri pensieri, legato non da una vermena di vinco ma da un ramicello di quei cipressetti qui per me trapiantati nel tempo dell’altra mia vita.
Quando io ero disteso nel mio letto di pena e di ammenda, quando la rinnovata abbondanza della mia intima vita mi pareva sforzare il serrame delle mie ossa dolorose, troppe volte m’accadde di cedere all’ansia di fermar nelle parole scritte l’idea che mi lampeggiava nel cervello percosso ma invitto. Dall’òmero al gómito, dal gómito al polso, dal polso alle falangi, il mio braccio e la mia mano soffrivano nel più lieve sforzo. Il pensiero si trasmetteva al foglio con una specie di dolore folgorante, con una specie di significazione lancinante. Il foglio gualcito strideva, quasi per entro vi si riscotesse l’inerzia del guanciale che l’aveva nascosto e vi insorgessero le ginocchia fasciate di Lazaro. Come al tempo della mia cecità, non so quale offerta eroica, non so qual martirio senza corona e senza palma accompagnasse la confessione solitaria. Il pensiero prendeva luce dall’animo devoto a patire. La fede era suggellata dal patimento. Consumato dal tormento era l’amore. E che è mai oggi quella testimonianza dell’uomo oscuro verso gli uomini ignoti e remoti? Che è mai oggi per me e per gli altri quel che le parole espresse immiserirono menomarono spensero?
Così oggi il mio messaggio non serba tra linea e linea quel mio accento impetuoso che talvolta pareva operare su voi come una energia plastica e quasi rifoggiare i vostri volti intenti e rinnovare la vostra sostanza profonda.
Che importa? Mi basta che voi vi ricordiate di quel mio occhio superstite dove la volontà si raccoglie come in uno specchio ustorio e accende ogni animo accendibile.
E potete poi camminare su queste pagine come su le foglie del piccolo arengo cadute. Cadono dal lato destro che è spento.
Convengono a questo lato dunque le ferite tenebrose?
Ma, quando il sangue finisce di colare, l’anima sgorga e splende. Vi sono ferite eloquenti come labbra; e non soltanto nei campi di battaglia.
Vi furono ne’ miei campi di battaglia ferite di una espressione tanto sublime che mi parve talvolta vedere sopra taluna l’indice della Patria come il dito degli antichi imaginato sopra la bocca del Silenzio divino.
Oggi, fra tanto clamore e tanto schiamazzo, la divina Patria non si tace? Ammutolita, guarda e vigila e aspetta. Vorrei esser degno o farmi degno di interpretare la sua mutolezza con la mia tristezza.
Al dio mutolo erano consacrati il fiore del loto e il fiore del pesco. Non gli consacro io tutti i fiori del mio giardino di consolazione? E il mio giardiniere di consolazione non è un veterano storiato di cicatrici a similitudine del tronco arduo dalle erranti e tenaci stirpi?
Non mai temo le imagini, se pur sieno insolite o discordi o perverse, avvezzo a distinguere e a interpretare quelle che di continuo si generano dal mio occhio destro dove la ferita accese un senso sconosciuto e aperse non so qual comunione con una occulta potenza creativa.
Io ho rinvenuto una piccola testa giovenile, lavorata di rilievo in una làmina d’oro con un sentimento d’arte egizia che mi ricorda la scultura murale di Abido e di Tebe. La fronte è nascosta, fino al sopracciglio arcuato, dalla benda che serra la capellatura acconciata come un laberinto di vie docili. Il naso è lungo e sagace. La bocca è sinuosa e chiusa. La palpebra è abbassata sopra uno sguardo di serpentino incantamento. Tutta l’effigie mi sembra modellata dal dito del Silenzio.
Nel campo del basso rilievo sono inscritte tre leggende da me suggerite all’artefice.
Phœbus elinguis dice la prima.
E la terza: Abscondita modulatur silentia.
Pensavo io veramente a un Apollo senza voce e senza lira, che non degnasse di modulare se non i silenzii della sua vita arcana? O tentavo io di riconoscere in quel lineamento geràtico la remotissima adolescenza solare del Galileo? O mi ritornava nello spirito la visione della caverna che, all’entrare della Vergine Maria, si illuminò come se vi sorgesse il sole e rimase illuminata di giorno e di notte da quella divina luce come alla prima ora dopo l’aurora purpurea?
Un’apparizione più santa oscurava il mito solare e il mito orfico. Meglio oggi la vedo, meglio la comprendo.
Dice il salmo: «Il giorno l’annunzia al giorno; la notte l’annunzia alla notte. E tutti i popoli l’odono, se bene il suo canto sia nel suo cuore perenne. E tutti i miseri l’odono ai confini della terra; ché il suo canto è splendore. Egli ha collocato il suo padiglione nel sole...»