Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
Lettura del testo

Commiato del canto

III «PASSA. CAMMINA. VA.»

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III

«PASSA. CAMMINA. VA

Ma dunque anche in Orfeo senza voce e senza corde divien luce la melodia? Mane novo surgens...

Mi ritorna nella memoria un prodigio dell’infanzia di Gesù raccontato alla mia infanzia da mia madre, che sempre mi parve rapita in un confuso vaticinio anche quando parlava del più remoto evo.

«Ottanni aveva Gesù. E un giorno escì dalle mura di Gerico, e camminò verso il Giordano.

E lungo la via, presso la riva del fiume, era una caverna dove una leonessa nutriva i suoi nati. E nessuno s’arrischiava di passare in prossimità del covo.

Or a Gesù disceso da Gerico fu rivelato il pericolo. Ed egli, tra lo sbigottimento di tutti, entrò nella caverna; e sedette sopra una pietra informe.

Lo scorsero i leoni; e mansuefatti gli si prostrarono, e l’adorarono.

E Gesù restò seduto. E i leoncelli strisciavano ai suoi piedi, e gli lambivano le calcagna, e sembravano invitarlo ai lor giuochi; mentre gli adulti non s’ardivano appressarsi, e chinavano la criniera fino a terra, e in segno di blandizia dimenavano la coda.

Allora il popolo, che di lontano non vedeva Gesù nell’ombra del sasso, pensava e favellava: – S’egli non fosse in peccato, e se con lui non fosse in peccato la gente del sangue suo, non si sarebbe egli medesimo offerto ai leoni. –

E, mentre il popolo si piegava e ansava sotto il peso di tali pensieri, improvviso ricomparve Gesù alla soglia della caverna. E lui precedevano i leoni, e ai piedi gli ruzzavano tuttora i leoncelli.

E in disparte i consanguinei di Gesù guatavano senza appressarsi, a capo chino; e il popolo restava discosto, per terrore delle belve, e lasciava in disparte i parenti.

Disse allora Gesù al popolo mormorante: – Meglio valgono, o uomini, queste belve che mi riconoscono e mi seguono, mentre non mi riconoscete e non mi comprendete voi fatti a imagine e a similitudine di Dio. Sono meco addolcite le belve; e gli uomini m’ignorano o mi respingono. –

Così disse; e nel cospetto del popolo s’accinse a guadare il Giordano; e sotto il suo passo l’acqua del fiume si divise come sotto il vomere la terra; e i leoni con lui passarono.

Allora si rivolse egli alle belve seguaci e disse, con voce che tutti udirono: – Andate in pace, e non fate male ad alcuno; e che alcuno a voi male non faccia, finché non siate voi rientrati onde esciste. –

E i leoni presero da lui commiato non con ruggìto né con fremito ma inchinando le lor criniere fino al suolo. E nella caverna si ricoverarono.

E Gesù ritornò alle ginocchia della sua madre

Già verso quel tempo ero abitato da un’anima musicale che pareva simile a una di quelle canzoni della terra d’Abruzzi non più cantate dai cori campestri ma ridivenute sotterranee come le polle o disperse nei vènti del mare e del monte. E da un vecchio libro d’imagini mi risaliva negli occhi la figura d’Orfeo seduto tra due alberi, con la cetra su la sinistra coscia, circondato dalle belve mansuete. E il fluente della mia Pescara già era nel mio sogno puerile un declivio di deità che s’affrettasse ad abbandonare la costrizione delle due rive per confondersi nell’infinita deità del mare e del mondo.

Mia madre mi conduceva per mano, e a ogni passo ella aumentava la mia vita con la sua vita e con la vita di tutte le cose ordinate sul nostro cammino.

Camminavamo lungo la riva destra della Pescara, andando verso la foce, volgendoci verso quella plaga della selva marittima diffusa insino a piè del santo colle dov’ella attende la traslazione nel sepolcro che mi riporrà al suo fianco e riporrà nella sua mano la mia mano ridivenuta infantile.

Non più ella parlava. Tacevamo entrambi; e udivamo approssimarsi l’ànsito di quel mare che doveva essermi nel futuro un così profondo pelago di dolore. Ma l’aumento dell’anima filiale era quasi una perpetua creazione materna. Era come se in lei vivesse una musica ineffabile e da quella musica io fossi per esser nutrito sino al colmo della mia vita e oltre.

Anche allora, come tante altre volte, m’avvenne di sostare un istante e di sospirare, e di levare verso di lei i miei occhi ingranditi a sua somiglianza. Non proferivo sillaba; eppure tutta la mia figura significava: «Ecco che io trabocco

Ella aveva, come tante altre volte, il viso mistico e raggiante della Divinazione. Guardò il corso del fiume, dopo aver guardato il suo figlio.

La riva era solitaria, e pareva già imitare la sabbia marina prima d’incurvarsi tra dolcezza e amarezza. Pareva che presso la foce l’acqua imitasse il pianto della sorgente. Pareva che il sogno della cima remota s’attristasse nell’agguagliarsi a una grandezza indomita.

Mia madre si piegò su la mia fronte; e mi baciò, con una bocca che pareva ancor ritenere il soffio del raccontato prodigio.

Poi mi avviò con la mano fino all’orlo della corrente; e mi disse: «Passa

Ci sono dunque parole di bocca umana assunte come astri nel cielo interiore, nell’intimo firmamento? E di che suono composte? spirate da qual comando?

Ella mi disse: «Passa. Cammina. Va

Ci sono dunque sorrisi che l’uomo non sconfidano dell’obbedire al comando sovrumano ma gli tolgono il peso delle ossa perché trascenda il suo potere e superi il suo destino? C’è un sorriso che fa del labbro appena commosso il margine estremo dell’anima?

Non fisai il sorriso materno che accompagnava la parola; né avrei potuto. Ma lo conobbi in aspetto fugace di bagliore come s’ella sorridendo sciogliesse i suoi limiti nella splendidezza dell’aria e dell’acqua e di non so qual crepuscolo eterno.

Era con me la mia madre presso il fiume eterno? Credeva ella che anche su me fosse una divina e tremenda necessità di passare all’altra riva separando il corso dell’acqua?

O era ella un’apparizione di Fede non coronata? O risplendeva in lei la fede come «maravigliosa certezza di cosa non vedutasaputa»?

Ella mi disse, forse nell’oscuro sogno, forse nella veggenza abbagliante: «Passa. Cammina. Va. Non senti i leoni? Non senti la leonessa

Verso la parola non mi volsi; ma tenni lo sguardo fiso alla fiumana colma che pareva soffocasse anch’ella il suo respiro per non traboccare. E credo ch’io non sorridessi.

E anche oggi so come avvenne in me ch’io troncassi in me l’atto rapido di scalzarmi. E anche oggi so come avvenne che dalla mano di mia madre si sciogliesse la mia mano, e che io facessi l’atto di balzare verso l’acqua.

«Figlio

Non era il rugghio della leonessa? Non era il grido erompente dalle viscere e dalle midolle?

«Figlio! Figlio

Mi sentii riprendere, afferrare, sollevare, quasi rapire alla cima d’un cuore e d’un amore e d’un fervore e d’un presagio senza limite e senza tempo.

Mia madre serrava il mio viso fra le sue palme, come se nel cavo delle palme volesse raccogliere l’acqua e l’anima commiste, e la volontà e la preghiera e l’offerta, e tutto quel che in me era di lei, e tutto quel che in lei era di me.

E nel fondo dei miei occhi cercò la sua speranza e la sua consolazione, e la sua stessa trasfigurazione di dalla sua stessa morte.

Chi mai dirà fin dove possa discendere, fin dove possa ascendere lo sguardo umano? Chi mai dirà fin dove possa giungere il prodigio della madre che in sé redime il suo figlio da ogni miseria carnale e lo custodisce nel suo spirito come in un luogo di assidua creazione e di assidua perfezione?

Ella voleva scrutare le mie pupille, penetrare le mie pupille; e non più poteva soffrire di chinarsi verso di me. Si gettò in ginocchio, a un tratto, per agguagliare il suo cuore al mio cuore, per avvicinare il suo sguardo umano e divino al mio sguardo umano e divino, quasi per preservare con le sue ciglia quel ch’era nato in me e quel che in me nasceva e stava per nascere.

In quell’attimo fui la sua creatura e la creatura dell’indistinta bellezza.

«Figlio! Figlio

Ruppe in lacrime. Il suo primo singhiozzo m’echeggiò addentro come se ella avesse profondato in me non so qual bene e ne avesse fatto l’eco del suo sacrifizio irrivelabile. Mi sentii inondato come dal battesimo del pianto presago. Quando ella s’accosciò e fece l’atto di asciugarsi il viso stillante, io scorsi le impronte che le sue ginocchia avevan lasciate nella creta e nella sabbia del lido.

E il suo pianto fra le due palpebre aveva in sé l’eternità del suo fiume fra le due rive. E il pianto e il fiume avevano una sorgente senza nome e una foce senza nome, sgorgati entrambi da non so che grandezza e bellezza, sboccati entrambi in non so che bellezza e grandezza.

Ma ora so che il comando su l’orlo della corrente natale fu il comando di tutta la mia guerra, rinnovato attraverso gli anni ansiosi. E oggi ritrovo le impronte delle ginocchia materne, non nella creta e nella sabbia del lido natale ma nella solitudine del mio muto eroismo da cui dovrò dipartirmi per mostrare il prodigio e il passaggio ai giovani leoni.

E nell’una e nell’altra impronta oggi ritrovo il pensiero che condurrà la mia devozione e il pensiero che mi salverà l’anima.

Divisum iungam.


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