Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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IV LA FERITA CORONALE

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IV

LA FERITA CORONALE

Sono disteso nell’erba del prato breve, che è tenera come quella pasciuta innanzi il taglio del fieno. È il guaime di settembre. È il guaime rinato al soffio di quel mezzovento autunnale che in sé mesce l’euro dell’aurora e l’ostro del mezzodì?

Allungo nell’erba il mio lato destro, premo l’erba col mio lato infermo. Sono per metà appreso alla terra, come il bassorilievo aderisce al piano e per metà ne sporge. E, nel mio trasognamento, non so se io a poco a poco mi sprofondi nella terra o se io ne esca. Socchiudo le palpebre; e intravedo la mano radiosa di mia madre posarsi su la mia fronte, che supina s’adegua al mio piede leso.

Mi ha ella tratto dal cuore della terra o dal suo cuore?

Tutti i miei limiti vacillano e s’arretrano, e s’allontanano e dileguano. La mia anima è senza confini come l’aria e come la musica.

Che è questo mistero di me?

Prima di andare alla guerra, or è più che settanni, presi commiato da mia madre inferma e dalla mia contrada natale che anch’ella s’andava vuotando di sangue giovenile. Le anime veramente fraterne non hanno dimenticato quella mia ora di grande prova, della più grande, per cui compresi come nell’orto del Frantoio il Solitario soffrisse più che sul monte del Supplizio.

«Mia madre! Una povera creatura avvilita, percossa, sfigurata; e non so che spaventosa grandezza in cui entro come in un luogo pio e tremendo, come nel mio sacrifizio stesso...»

Qualche gentile anima se ne ricorda.

La mia «testa di ferro», che doveva poi cozzare contro tutti i pericoli e fare de’ suoi più gravi pensieri la sua più pronta audacia, io la posai sopra le ginocchia di mia madre inferma.

E pur la rimembranza di quello strazio, quando la guerra m’ebbe rovesciato nel buio della cecità immobile, parve ancóra in me respingere i limiti della sofferenza umana.

«E come puoi ora, madre, come puoi tu farmi così rimorire?

Oggi è il giorno del mio natalizio

Qualche pietosa anima se ne ricorda. Era il 12 marzo del 1916.

E, per non so qual perfezione della vicenda, come allora io vivente posai il mio capo sopra le ginocchia materne che la morte era per sciogliere, così nella notte del 13 agosto trascorso mia madre fatta immortale prese sopra le sue ginocchia auguste il mio capo moribondo e premette con la sua mano augusta la mia insanguinata bocca.

E non forse la notte a me fu natalizia? Nella terra rimaneva l’impronta del mio corpo martoriato, e nel grembo della vigile pietà era il mio capo di fante senza elmetto. E la mano di mia madre si distaccò dalla mia bocca disfatta e mi tentò le suture del cranio e si fermò nella commessura coronale. Non vi trovò segno di corona civica o rostrata o castrense, ma vi trovò il fendimento, ma vi trovò l’interstizio sforzato dal cuneo di un rivelatore e liberatore invisibile. E forse al solo tocco di quella mano la commessura coronale si risuggellò sopra la verità penetrata. «Il tuo bene non è nella tua gloria. E la tua gloria non è di questo secolo

Oggi la mia tempia e la mia mascella sanate hanno per guanciale il guaime di settembre e per benda la bontà del sole. Ma del dolore opaco, che tuttavia s’insinua per le fibre e per le ossa del mio lato estinto, io faccio quasi un operaio luminoso che m’aiuti a rilevare i miei lineamenti profondi. Ma sembra che da sinistra il mio rilievo divenga sempre più forte. Sembra che il mio dolore divenga la mia più robusta radice. Sembra che lo spirito della terra entri in me attraverso la lividura cupa del costato. Il mio braccio premuto ha un continuo bàttito come se fosse intento a un lavoro sotterraneo, come se si sforzasse di scavare, come se comunicasse le sue vene e le sue midolle e i suoi tèndini a una cieca forza che si volesse fare il suo covo. E l’òmero scoperto mi grandeggia, quasi ad eguagliare i grandi rilievi terrestri sotto il cielo. E i pensieri erompono simili a pietre effigiate che scagliasse verso il cielo un cratere dotato di divinazione e di rivelazione.

È questo il segno di Giona?

È questo il segno della lotta di Iabboc?

Quando agonizzavo, io credo che i visitatori fedeli e infedeli volessero «vedere da me qualche segno».

Dei due segni mistici il secondo m’era già familiare; e mi si presentava frequente allo spirito, fin dai giorni di quella sciagura che alla mia costanza era già apparsa oscuramente come «la dodicesima vittoria».

Ma, quando agonizzavo, il desiderio confuso del mare mi convertiva in naufrago inabissato, sotto il primo dei due segni. Pareva che il pensiero mattutino del marinaio di Buccari si facesse carne smorta. «Stanotte il mio corpo può essere un pallido sacco d’acqua salsa, in fondo al Carnaro, o rigettato sopra una spiaggia di Veglia, di Cherso, dell’Istria. Non sono forse maturo per la morte

Ero il non esanime naufrago della Patria.

Giona non era il naufrago di Dio?

Il Signore lo aveva gettato al fondo, nel cuor del mare; e la corrente lo aveva circondato; e tutti i flutti gli eran passati addosso.

Le acque lo avevano intorniato fino all’anima; l’abisso lo aveva aggirato; l’aliga gli s’era avviticchiata intorno alla testa.

Egli era disceso fino alle radici dei monti; aveva sentito le sbarre della terra sopra di sé in perpetuo.

Dal «ventre del sepolcro» egli aveva gridato: «Io sono respinto dinanzi agli occhi tuoi; ma pure io vedrò ancóra il Tempio della tua santità

Quando agonizzavo, il turbamento della mia coscienza pareva sovrapporre altre vene alle mie vene, contrapporre altro respiro al mio respiro, trasporre in sostanza penosa i miei pensieri disciolti. Ero rimasto tre giorni e tre notti «nel cuor del mare», o ero rimasto tre giorni e tre notti «nel cuor della terra»?

Talvolta credevo sentire nelle mie narici la schiuma salsa o il detrito dell’alga risecca; ed era l’umore prezioso del mio cervello. E, per un ricordo che mi risaliva dai piedi fasciati, mi trasfiguravo in quel rottame umano che una mattina, dalla mia casa d’esilio, avevo scoperto sul banco di sabbia, laggiù nell’insenatura dell’Atlantico. Rivedevo io stesso il sangue versato dalle mie orecchie e dalla mia bocca tingere la poltiglia acquidosa, e la rena scorrere lenta nel cavo e mescolarsi al sangue. Mi sentivo presi nel nodo scorsoio i malleoli paonazzi, e tratto con la gomenetta legata a poppa. La testa mi pendeva giù, col naso pieno di coagulo rossiccio.

E non avevo orrore della visione; ma sostenevo in tutto me il sentimento pacato d’una fatalità profonda.

Poi, con un impulso improvviso, repugnavo all’approdo, repugnavo al trasporto. Mi lasciavo rapire tra due acque, da una corrente che pareva l’impeto d’una volontà cerulea. Andavo a cercare nei gorghi i miei compagni marini. Andavo a consolare i morti di Lissa, che erano stati riconsegnati al nemico. Non potevano piangere, non volevano piangere. Ma sentivo in alto passare una barca di vivi riconsegnati anch’essi al nemico; e i singhiozzi dei vivi fendevano l’Adriatico. E sentivo in me tutto il male che il taglio di quella prua infelice faceva all’Adriatico.

Ma come parlavo, se il flutto mi riempiva la gola? E come parlavo, se la terra mi cementava le mascelle?


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