Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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V I SEGNALI DELL’ERBA

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V

I SEGNALI DELL’ERBA

Ecco su l’erba il quaderno dove i due dottori, il Seràfico e il Cherùbico, registrarono i sussulti del mio polso e della mia tempia. Vi penetrano come segnali i fili d’erba fra pagina e pagina. E sollevano a quando a quando la pagina i fiati della terra che i padri nostri chiamarono «prima vaticinatrice». E la formica presaga cammina su pel margine, e si scontra con la sua compagna cauta esitando presso l’ultima sillaba d’una parola scritta ch’io so. E questo mio sguardo, che le segue, sembra liberato di me, non altrimenti che il mio occhio estinto, non altrimenti che tutto questo mio lato destro impresso nel suolo. E per la commessura coronale s’insinuano e si scontrano i pensieri della seconda morte e quelli della seconda vita.

L’interstizio è forse il punto misterioso in cui si intersecano le linee finite e le linee infinite, quelle imaginali e quelle presenti, quelle che dalla natura si partono e quelle che la superano o stravincono. E forse il luogo dove si avvicendano le dissonanze e le ellissi, gli intervalli incomposti e gli scorci violenti, le difformazioni potenti e le perfezioni fragili, e tutte le alleanze inconsuete e tutti gli accordi insoliti.

Imparo un’arte nuova, come quella che m’insegnarono le tenebre? Son per entrare nello stato di grazia necessario alla mia invenzione prossima? Metà nelle tenebre e metà nella luce, metà sotto la terra e metà sopra la terra, patisco anch’io il responso di Calliope, come il figlio della lacrimata Mirra?

Ma non vorrò più avere per oracolo se non il silenzio.

Mi udite? Tu, dottore, mi odi? O io soltanto ascolto me stesso?

Ecco che la parola si sparge nel silenzio, si allarga sul silenzio, come l’olio d’oliva su lo specchio del mare calmo.

In quel modo che talvolta il vento scrive su la bonaccia o su la sabbia liscia, in quel modo vorrei scrivere il mio libro di domani sul fondo eguale del silenzio.

Ogni mia pagina avrebbe quattro orizzonti, e il mio libro respirerebbe il mistero di tutte le vite remote nell’immensità.

Debbo ricominciare a vivere? Debbo continuare la mia vita strategica, o rinchiudermi nella meditazione e seguire i comandamenti di quella Musa velata che conferisce allo spirito una grazia simile a quella grazia detta abituale dai teologi?

Ma la parola di vita, la grande parola d’ordine, in tutte le lingue classiche, in ogni tempo, è quella che io diedi alla mia volontà di condottiero e ai miei compagni di volo: «Oltre! Più oltre! Ulterius!»

Tornate ancóra verso di me, compagni?

Non temete! Mi leverò. Vi ricondurrò al fuoco. Vi condurrò «più oltre».

Ancóra mi tendete la corona del fante, quella fatta con la coronatura della granata che non mi seppe uccidere? la corona carsica di rame, d’argento e d’oro?

La rinunzio. Portatela alla mia Roma. Posatela sul santo sepolcro.

Un metallo così greve non lascerebbe richiudere la sutura che si chiama coronale.

Mondolfo, o mio portabandiera, perché me la guardi così da vicino? Mi chiedi che io ripeta il tuo gesto.

Dunque neppur tu sei morto? E le nostre Cinque Giornate non avranno mai fine?

Non verso me tendi la mano, ma verso l’Italia. Hai il nome d’Italia impresso nella bocca storta. Inciso l’hai nell’occhio crepato dal colpo fraterno di baionetta; l’hai nel cranio spaccato dal colpo fraterno di calcio.

Per un attimo sollevi la mano, per un attimo tendi la mano piena di materia cerebrale, colma di cervello pesto. Verso me, fratello? verso la Patria?

Voglio che noi troviamo una nuova prodezza. Andiamo insieme, cerchiamo insieme. Non mi lasciate solo. Vado innanzi.

Gli uomini liberi non devono esser protetti se non dalle loro armature di asceti. Mi udite?

All’avanguardia io non prendo con me se non quei compagni che nel pericolo raggiungessero l’apice mistico della vita.

Anche nella guerra, o compagni, avemmo i nostri ascetèrii, donde ci partivamo per le imprese disperate. Per i cómpiti disperati avremo i nostri ascetèrii in pace.

Ogni officina animosa è un ascetèrio, dove bisogna che il lavoro forzi il dolore a farsi operaio splendente come chi confessa la fede o redime la colpa o consuma il martirio o annunzia il prodigio.

Perché non lasciate entrare quell’uomo che piange inginocchiato sopra la soglia mesta?

Son certo che i fianchi gli pulsano dall’ansia della corsa, come al poledro della Maremma.

M’apparisce, anche se voi non lo lasciate entrare. Ha il torso nudo, scarno, con tutte le costole palesi, con tutti i muscoli che gli tremano, con il sudore che gli corre giù a rivoli misto di polvere.

Chi è?

È uno di quei due fanti che cattavano le gocciole nel cavo, distesi su la pietra del Carso, più assetati della pietra? È uno di quei due fanti ridiventato contadino?

Certo ha nelle palme delle mani l’odore dei pampani. Certo ha tuttora le palme inverdite dai pampani.

Riguardava le sue viti; le zappava intorno, attento a non ferire le radici, a non pure scalfirle. Diradava i pampani. Toglieva qualche tralcio vano.

E che ha ora nella destra?

Lo so. Porta un’ampolla piena di balsamo. Mi porta il balsamo del suo Santo, forse rapito all’armadio della sua sacrestia rustica?

Oppure ha forse nel vetro le gocciole della sua sete carsica? E ha tuttavia, conservato più nelle midolle che nei tendini del braccio, ha tuttavia quel gesto che fece verso di me con quella paglia non più paglia ma tutta oro?

Non voglio che voi mi crediate in allucinazione, che voi mi crediate in delirio. Toccatemi. Ho la fronte fredda quasi che nel sonno avessi ricevuto lo stillicidio di quella caverna dove stracco mi fermai come nell’adito del Paradiso.

C’è, sparso per la mia terra, per la mia Italia, un amore che mi vuol guarire, che mi vuol ringiovanire, che vuol ridonarmi il passo e il volo. Che diceva l’altro giorno quel combattente della Spezia? «Ti voglio riveder camminare verso la battaglia come ti vidi sulla strada bruciata di San Martino del Carso, come ti vidi nella via di Rubbia...»

Sì, fra petraie e macerie e buche e macchie schiantate e sterpeti bruciati e carnai brulicanti, io di tutti i miei ricordi scolastici non serbavo se non il «passo di Maratona», quello che stupì il Medo e che stupiva anche l’Austriaco, quello che per noi Italiani significa una nostra vecchia maniera italiana di «venire alle corte».

Te lo dico, dottore. Quel che tanto mi prude in questo mio stinco sbucciato è il «passo di Maratona». L’ho nell’osso. Fin dal tempo del liceo, fin da quando il «lupo» di Toscana era alunno di Toscana, Milziade me l’insegnava nel piazzale del mio collegio, e sul banco dell’aula me lo rinculcava Erodoto. Irraggiungibile ero nel piazzale, e sul banco la mia irrequietudine faceva scricchiolare il vecchio legno sedentario e per contagio agitava le gambe di tutti i dìscoli.

L’insegnerò anche a te, s’io riponga i piedi in terra. Il buon passo fa la buona via. Il nuovo passo fa la via nuova. Se tu vieni con me per un cammino che tu hai passato cento volte, il cammino ti sembra inconsueto. Intendimi.

Questo pietoso amore d’Italia ha il «passo di Maratona», come se venisse da Raccogliano o da Merna o dal Nad Logem o da Hudi Log o dal Faiti. Colui che piange alla mia soglia non è il maratoneta della pietà?

Veggo a ogni ora giungere un maratoneta da una contrada lontana, seminudo, ansante, villoso e polveroso, fino a piè del mio letto, fino al mio capezzale. E ciascuno mi porta il suo farmaco mirifico, ciascuno mi tende la sua ampolla di balsamo. E mi sento soffiare la sua ansia sul viso, e odo il palpito del suo cuore; e vedo il battito delle sue ciglia, il tremito dei suoi muscoli. E in ciascuno riconosco i segni della schiatta. Questo viene da un tratturo d’Abruzzo, e questo da una tanca di Sardegna, e questo da un trullo della Puglia piana.

Distinguo lo stampo, afferro l’impronta, senza indugio e senza fallo, come se da conoscitore avessi in mano un mattone o un altro pezzo di argilla cotta. Riassumo lo stile originario, fuor dall’intrico dei lineamenti, fuor dalla difformità delle strutture, fuor dalla trasposizione dei piani. Attornio di solitudine l’aspetto che indago, come quando la mia arte solleva da un fondo imaginario un alto rilievo vivente. Determino l’unità della schiatta, e il suo sforzo esterno che si parte dal suo nucleo profondo, e la sua espressione appassionata promossa dal suo istinto dominante. Nella cicatrice, nella ruga, nella barba, nella capellatura, nel cavo della gota, nella prominenza del sopracciglio, nella sporgenza degli ossi, nell’incurvamento della schiena, nell’inclinazione del collo, nella fermezza e nella fuggevolezza dello sguardo, e nei lumi e nelle ombre, interpreto le vicende di ieri, indovino le sorti di domani, sento lo sforzo tragico dello spirito eterno che di dentro lavora e rifoggia la materia a cui è sola difesa la sua propria difformazione nelle lotte e negli anni.

Ecco il maratoneta, nell’ombra che m’appartiene, eccolo espresso in disegno puramente lineare, con la primitiva arte isolana del Mediterraneo. Ora nel mio unico occhio di ciclope la scienza della vita sembra tutto ridurre all’unità perenne e alla semplicità originaria. Serro l’esperimento dei secoli in una linea ignuda, come un precursore dell’arte dorica. Ricomponendo l’architettura di un sol uomo, pongo negli spazii espressivi il mistero della progenie, la tragedia della grande stirpe.

La mia unica pupilla di ciclope sa la virtù della linea pura, per aver guardato con attenzione sempre nuova la linea dell’elica che doveva ogni giorno trarre a volo la mia sete di sacrifizio nel cielo eroico.

«Questa è una bella materia» disse Francesco Francia davanti al bronzo del Buonarroto in corruccio. E io ripetei la parola davanti all’affannato vigore della giovinezza d’Italia.

L’ombra è rischiarata dalla spiritualità della linea che disegnano il mio amore e la mia rimembranza e il mio presentimento perspicaci.

«Questa è una bella linea» io dico oggi. Intendete?

E il Buonarroto non più si corruccia, né si ricorda di quell’altra parola sorda; ma sta sotto la sua fatidica volta, fra la rivelazione del passato e la divinazione dell’avvenire.

E il maratoneta carsico, che forse viene dalla pietà di sotterra, mi pone nella palma della mano supina l’ampolla del balsamo; e s’inchina a baciarmi la benda che serra la fenditura coronale; e non so se stilli sopra me il suo sudore o il suo pianto.

«Come ti chiami? Di dove tu vieni? Tu prolunghi sino al mio sacrifizio la linea della vittoria e la linea della grandezza, o mio fratello senza nome

Egli è dileguato. È scomparso come quel contadino sconosciuto, come quell’eroe rurale che nel campo di Maratona precedette le schiere degli opliti e menò grande strage di nemici armato d’un ferro d’aratro, solo armato d’un vomere adunco.

Agli Ateniesi, che chiedevano il suo nome, l’oracolo di Delfo rispose: «Adorate l’eroe dal vomere

Non così, presso l’Altare della Patria, risponde ai figli di Roma l’oracolo di Roma?

Diminutus lucidior.

Tutta la notte ho udito il concerto dei grilli. Son sicuro che il cielo non era velato. La melodia continua creava le stelle. Nel coro eguale dei flauti vedevo palpitare le stelle, e a quando a quando una consumarsi.

Ho sognato, contenendo con le palpebre il sogno che pareva volesse da me dividersi per fluire nella musica notturna. Ho mescolato il sogno con la pazienza. La mia palpebra più paziente era quella dell’occhio illeso.

Ho potuto contenere il mio sogno, e non lasciarne sfuggire se non quanto ne passava tra i cigli in qualche raro battito. Ma non posso frenare stamani l’abondanza della vita, che mi trabocca. Non posso stamani respirare fra queste quattro mura. Sono trasparente come l’alba. Sono un velo dell’alba, e bisogna che io le sia restituito perché attraverso di me ella sorrida al mio giorno. Se mi scotete, qualche stella celata cade dalle mie pieghe come le lucciole cadevano dal mio grembiule scosso di fanciullo smarrito.

Non basta che voi mi apriate la finestra, che voi solleviate i lembi delle tende. Toglietemi da questa bara calda. Trasportatemi fuori. Sono certo che stamani alla mia porta tre fanti si asciugano dal viso le lacrime o la rugiada. Chiamateli. Sono forse tre «lupi» del mio battaglione. Due mi prenderanno per le ascelle e il terzo per i piedi, senza farmi male, come se dovessimo ancóra varcare la passerella costrutta sul Locavaz ma varcarla all’incontrario, non verso la caverna della Quota 12, non verso il posto di medicazione, ma novamente verso il Timavo perché io possa novamente lavarmi le mani e la faccia nell’acqua lustrale, nell’acqua di Pentecoste.

Quando Nino Randaccio fu investito da quella raffica di mitraglia e «non si sentì più le gambe» e cadde, mi parve indovinare ch’egli volesse rimaner piuttosto ch’esser ricoverato nella caverna piena d’afa e di lamento.

Non è rimasta l’impronta del mio corpo dove caddi? Non v’è rimasto il segno di tutto questo lato? E non v’è spuntata l’erba?

«Lupi», trasportatemi , ricoricatemi nella matrice della terra. Se non c’è nata l’erba, metteteci un poco di paglia, qualche filo di quella nostra paglia, di quella che certe volte ci pareva splendesse come se la caverna sucida o il fondo della dolina melmosa contenessero il presepe di Betleem. Vedrete che si metterà a splendere prima che il sole apparisca, prima che arrivi il re Magio. Non vi ricordate della nostra battaglia d’oro, o «lupi»? Non vedevate splendere tutto? Il vostro zaino non vi splendeva nella schiena come la bisaccia di san Francesco? Splendevano le croci d’abete, splendevano le barelle; i dischi splendevano come ostensorii...

Via! Non date retta al dottore. Comando io solo. No, non io comando. Obbedite all’amore. Credete che io mi contenti d’un sorso di latte e che poi mi ricopra il viso con la rimboccatura?

C’è alla porta una povera donna che è scesa dalla montagna con un orcioletto di latte per me?

Ebbene, trasportatemi fuori, ricoricatemi . E chiamatela, che venga ella stessa a darmi il latte nella ciotola. E l’ultima sarà la prima.

Innanzi che il sole apparisca, voglio rivedere la luce in una faccia umana. Sapete quale, miei «lupi»? la luce carsica, la luce fraterna del martirio carsico, quella che accompagnava i convogli dei feriti giù per i camminamenti ingombri di carname fracido o lungo i boschi a cuore e i boschi a lancia schiantati incarboniti rinfoltiti da intralci di mutilazioni e da grovigli di viscere.

Lasciate che quella povera donna mi dia su la paglia il latte della montagna, il latte antelucano dove forse la mia anima scoprirà un presagio d’aurora.

Ritroverò in lei quel bene che tante volte mi fu stilla silente di beatitudine in mezzo al fragore della battaglia.

Comprendete? Non queste quattro mura mi serrano, non questo soffitto mi soffoca, non questo chiarore di lucerna mi opprime. Mi serra mi soffoca mi opprime l’angoscia d’Italia, la doglia d’Italia, la disperazione mattutina della seminatrice Italia che tende verso l’oriente le due pugna chiuse, piene di magnanimi semi, e non le può schiudere e non può compiere la perfezione del suo fato nel suo gesto che il fato suo stesso impone. Comprendete questo supplizio? Comprendete quest’ansia di profondarmi nella Patria profonda? Comprendete questa aspirazione verso la vastità umana, verso l’immensità umana?

La sete di tutta la mia notte voi volete placarla col sorso dell’alba. Ma io rinunzio a questa offerta come a quella dei due fanti grigi sul calvario arido. La mia sete non si placa se non quando l’altrui sete si abbevera in me.

E voi pensate che io sia per rinunziare a combattere, mentre cerco una nuova attitudine di combattimento e una nuova allegrezza di vittoria e una nuova larghezza di respiro.

Non siete i tre fanti, non siete i tre «lupi» che in quella sera di maggio vi partiste con me dalle Officine dell’Adria, dove avevamo lasciato un eroe vivo delle mie Canzoni libiche, escito in carne e ossa dalla mia terza rima, il sardo Di Suni? I nostri movevano all’assalto su per l’erta abbagliante di sole, mentre in giù colavano le mandre dei prigionieri. Le batterie tiravano a ostro e a levante di Medeazza. La quinta accompagnava l’assalto alla galleria della Quota 40, e poi spostava il tiro a San Giovanni. Tutti i prigionieri erano avviati a Selz. Un grande fato vespertino fumava dalle rovine dei cantieri, dai fumaioli mozzi, dal ferrame e chiodame contorti, dai bacini d’acqua verdazzurra palpitanti. Vi sovviene? Balzavo di dalle macerie e dagli ordigni, leggero, tuttora alato, ché avevo condotta l’insolita impresa aerea a secondare lo sbalzo delle fanterie e avevo poi riallacciato le mie uose di fante su i miei talari non logori.

Quando entrammo nel camminamento, sul nostro capo le mitragliatrici dei piloti da caccia incominciarono a lacerare il cielo; e tutta la mia prodezza si rifaceva ala ed arma per involarsi di tra la doppia muraglia. Fiutavo l’acredine dell’incendio, mi pascevo del rogo avverso.

Vi sovviene della mia impazienza cruda? A uno di voi, che s’era curvo e mi guardava supplichevole, gridai: «Non so strisciare. Chi striscia non mi può seguire

Mi rispose un lagno umano: non di nemico ma di fratello. E l’angustia del camminamento, che costringeva la mia ira umiliata, si ampliò senza misura col mio stesso palpito.

Incontro si trascinava un fante ferito alla testa da un colpo folle che gli aveva bucato in più parti il labbro la gota il collo e l’òmero senza ucciderlo. Si dissanguava. Il sangue s’anneriva sul grigio; la mano si stampava sul sasso. Il lagno era una bolla scoppiante, la parola era un gorgoglio rosso, era un rantolo caldo e sordo.

Non più udivo il duello aereo; non più levavo il capo; non più disdegnavo di curvarmi. Presi tra le mie mani il capo dell’uomo, interrogai il sangue, feci della mia voce il cordiale che risalda le giunture e ristora i precordii. Tolsi a uno di voi la mia custodia di strumenti e di medicine. Dei vostri ginocchi feci una branda di corsìa. Detersi, esplorai, stagnai, fasciai. Nulla di vitale era leso. Il sangue del ferito separai dal pianto del ferito, con l’anima ridivenuta severa. Ma egli credeva tuttora d’essere in punto di morte, credeva di non poter più parlare, di non poter più ingoiare.

«Bevi» gli dissi. «Puoi bere. Prova a ingoiare un sorso. Ti giuro che puoi.» E accostai alla bocca straziata la mia borraccia di salute. E l’accento della mia voce aveva una dolcezza imperiosa che non poteva essere accolta se non da quell’anima spersa. Eppure mi parve che si ripercotesse in tutte le trincee e in tutte le caverne del Carso e in tutta la conquista del domani.

«Bevi, bevi. Ti fa bene. La gola è salva. Tracanna tutto. La mia borraccia la riempirò al Timavo

Bevve. Si rianimò. L’asciugai con un fiocco di cotone.

«Coraggio! Hai potuto bere. Non hai nulla di grave. Ora parla. Sei del secondo battaglione? Tornerai a combattere, compagno. E vinceremo

Con lo stesso fiocco tentai di levarmi il sangue di sotto le unghie, ma non riescii bene. Affidai a due di voi il fratello bendato, perché lo accompagnaste a un carro d’ambulanza, sotto le Officine dell’Adria. Vi sovviene? Seguitai pel camminamento, verso la Quota 18, col «passo di Maratona». Di sopra i parapetti della trincea scorgevo la zona glauca dell’acqua. Trovai nella caverna del Diavolo Zoppo il colonnello Sartirana e i suoi ufficiali. Come avevo trascurato di prender meco il mio elmetto, il capitano Montanari mi offerse il suo, ch’era munito degli schermi contro le schegge. Soltanto allora m’accorsi ch’ero orbo; e mi premetti con l’indice la palpebra sinistra per esser certo che l’altra pupilla non lasciasse passare la troppa luce di dentro in fuori. Tastai gli schermi.

Una voce di dentro mi ripeté, senza ombra di ammonimento e di minaccia, la parola che è in Luca: «Questa notte ti sarà ridomandata l’anima tua.»

Era il vespro. Pareva che già vampeggiasse nell’aria il mistero della Pentecoste. Le «quote» erano umili e ignude. Ma Giovanni Randaccio mi veniva incontro, a braccia aperte, da qual vertice della magnanimità silenziosa?

«Nell’alba seguente ti sarà ridomandata l’anima tua.»

Non vi rattengo. Non domando che voi mi ascoltiate, che voi mi seguiate.

Il dottore pensa che talvolta io mi lasci trascinare dalla parola come da un bisogno subitaneo di correre o di volare. Ma, se parlo così, la cagione è sotterra. Credo che non potrò parlare lungo tempo.

Mi ritorna nella memoria la sentenza di un savio dell’India, proferita sopra la tomba del grande Macedone.

«Alessandro parlava ieri più che oggi non parli. Ma oggi egli c’insegna assai più che ieri non c’insegnasse

Medito, e comprendo.

Non dalla parola mi lascio trascinare ma da non so che sovrumana ebrezza d’immensità, di dallo spazio e di dal tempo.

Spezzo l’ala e spezzo la clessidra.

Io sono forse un frammento di avvenire, caduto di non so dove, incalzato dall’ansia dei morituri.

Come mi sembra bello che il vincitore sia mortalmente ferito!

«Dimmi! Dimmichiedeva a ogni tratto il mio grande compagno del Timavo, mentre il suo martirio passava dalla paglia alla barella, dalla barella al carro, dal carro alla branda. «Dimmi! La quota è tenuta dai nostri? È sempre tenuta

Io aveva già altre volte deluso il morente. Egli mi aveva domandato, nell’orrore dello spasimo inumano, tre volte mi aveva domandato il «farmaco liberatore» che io solevo portar sempre meco per esser pronto ai casi estremi. Me l’aveva domandato, sommesso, con le labbra bianche presso il mio orecchio chino, con un accento che ancóra dentro mi sconvolge e mi rimorde.

Io non l’avevo liberato dalla sua carne. Io gli avevo rifiutato il farmaco segreto. Io avevo potuto sostenere il suo patimento e il suo cruccio. Io avevo potuto udire il suo sospiro de profundis: «Non posso più.»

M’ero poi confessato. Avevo rivelato ad altri lo strazio della mia coscienza fraterna. E Raffaele Bastianelli m’aveva assolto. E io stesso oggi non vorrei abbreviare la mia stessa agonia, che considero come un «passaggio tra due luci» qual fu quella.

Ma il morente mi chiedeva di confermargli la vittoria; e laggiù, di dal Timavo, la vittoria l’avevano strangolata e calpestata i traditori!

Tra la mia angoscia e quell’agonia sublime si divincolava lo straccio miserabile della fellonia, si rigonfiava il ciarpame floscio della viltà. «Dimmi

Avrei dovuto rispondergli questo: «Tu sai, il primo battaglione del 149° reggimento aveva raggiunto la cresta della quota coronandone con le prime ondate il margine di ponente, sùbito seguìto da reparti del nostro 77°, che tentavano di piegare verso levante ma non senza travaglio.

Con le mitragliatrici, postate nel boschetto, a tramontana della quota, il nemico batteva entrambi i battaglioni, mentre qualche nucleo li assaliva con le bombe manesche e qualche altro cercava di rimontare verso la cresta pel versante da ostro. Tu sai. Bastava anche un piccolo gruppo di buoni fegati per respingere il contrattacco austriaco e per dar tempo ai rinforzi di raggiungere la sommità e di tenere la posizione saldamente. Ma certo l’infamia era premeditata. Il nemico non poteva tentare d’aggirarci se non dal lato sinistro, ché l’ala destra era poggiata al termine del mare. Una quarantina d’uomini, della terza compagnia appunto, incominciò a issare cenci bianchi su le baionette: camicie e brache! Gli ufficiali si slanciarono urlando e minacciando con le pistole spianate. I vigliacchi tirarono sul tenente Litursi, tirarono sul capitano Corbi. Ecco che la resa infame cangiava le sorti. I nostri del 77°, i tuoi, si opposero allo sbandamento, disperati; ma furono infine travolti. Il nostro primo battaglione in gran parte si salvò a nuoto. Tu eri atterrato. Tu eri assassinato come la vittoria. Avevi sotto il capo la mia bandiera, la vasta, quella che io volevo issare a fortuna su la torre di Duino ancóra in piedi e poi su la torre di Miramar e infine in San Giusto. E la vittoria assassinata t’era accanto, col capo sul medesimo guanciale, supina su la medesima paglia. E mescolavate sangue a sangue

Giovanni Randaccio, che era insensibile dalla cintola in giù, che non aveva quasi più polso, che si raffreddava a poco a poco, Giovanni Randaccio non pensava se non alla vittoria. «Gabriele, dimmi! La Quota 28 è tenuta

Tra me e il suo affanno l’orribile verità pareva fosse per mozzare a entrambi il fiato e il dolore. Io la serravo tra i denti. E, non so perché, temevo che la porta si dovesse spalancare con un grande fragore e dovesse precipitarsi contro il letto quel Gennaro Pantaleone, quell’artigliere della settima batteria, che aveva ucciso i due gendarmi austriaci e s’era gettato in mare e aveva raggiunto per mare la Quota 12.

«Dimmi

L’eroe non poteva non morire vittorioso. Era bellissimo, come se lo riscolpisse nel marmo sepolcrale quel medesimo artiere della stirpe che lo aveva formato in carne. Respirava e soffriva tuttavia; ma era già la perfezione della sua propria statua, simile al guerriero supino di Ravenna spoglio del suo arnese e della sua spada lunga, sol coperto di lana bruna e rozza.

La menzogna mi attraversò l’anima come un guizzo abbagliante di folgore celeste!

Mi chinai sul mio fratello, e risposi: «Sì, Nino, la quota è tenuta. La Quota 28 è nostra.»

La menzogna illuminava anche quella fronte immortale!

Per raccogliere l’ultima forza e l’ultima fede egli cancellò il sorriso quasi infantile della vittoria, e severo m’impose: «Me lo giuri? Gabriele, me lo giuri

Non so che istinto mi ritrasse la mano che teneva il suo polso freddo, e mi ritrasse lo sguardo ridivenuto spasimoso a un tratto come nell’ospedaletto dei ciechi di guerra. L’occhio m’andò al ferito di sinistra. E, come nella caverna tetra, come sul guanciale della bandiera, mi parve di rivedere la vittoria assassinata. C’era , sopra un traversino, qualcosa di simile a una zolla intrisa di sangue nero: una faccia interamente cancellata da una scheggia, dove il respiro strideva tuttavia tra i frantumi delle mascelle e le zacchere di mota.

«Te lo giuro. Sei vincitore! Sei vincitore

Era un giuramento iniquo, al conspetto della morte? Era un’empietà mortale? Ma mi sentivo come avvelenato di luce. Credo che la menzogna mi facesse lucente la bocca come se io avessi masticato il fosforo. E non mi veniva quel fosforo dal pianeta foriero del giorno?

«Sorgerà per te qualche fosforo apportatore di luce dentro al cuor tuo.» Una voce santa mi assolveva, mi mondava.

«E quando questo corruttibile avrà rivestita incorruttibilità, e che questo mortale avrà rivestita immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: La morte è stata abissata in vittoria. Absorta est mors in victoria.» Una voce santa cancellava il mio peccato, e allontanava da me la visione vile, e sollevava il mio coraggio contro il presagio, e armava la mia fede contro il tradimento già covato, contro la sciagura già sospesa.

Il cadavere del vittorioso non meritava d’esser lavato nella più chiara fonte del Timavo, dove c’eravamo purificati insieme sotto il segno d’Italia, sotto il segno di Roma?

Ma le tracce del suo sangue rimasero nella mia bandiera. E vi restano indelebili.

Quando contro la Patria fu consumata a Caporetto l’infamia ch’ebbe i suoi precursori ignominiosi sul Timavo, la mia stessa agonia fu esaltata dal mio stesso grido. «Sei vittoriosa, o Italia. Sono con te le tue undici vittorie; e questa è la tua dodicesima. Te lo giuro

L’eroe del Timavo mi parlava dentro. «Come giurasti a me, così giura alla Patria: con lo stesso cuore invitto, con la stessa bocca di bragia

Ora il Timavo è un fiume arcano o è un mito possente?

C’è un Timavo purpureo, fatto d’innumerevoli sorgenti umane, fatto di tutto il giovenile sangue adunato; che corre sotterra, che cerca la sua via, che cerca il suo fato, che ha la sua foce nel futuro.

Stanotte nell’insonnio l’udivo rugghiare da vicino, l’udivo rimbombare da lontano. E lo sentivo di continuo soffrire.

Diceva l’eroe: «Soffre. Le correnti di sotterra soffrono. Teme di perdersi. Ha la volontà di apparire. Giovinezza d’Italia, indocile forza d’Italia, dagli la sua via, dagli la sua foce, dagli il suo fato, toglilo dal suo buio

E Roma diceva al fiume, fisando imperterrita le obliquità e le asperità e le infedeltà e le impunità: Altior non segnior.

Ci furono, nella nostra guerra santa, subitanee comunioni umane che senza ostia eguagliavano in altezza le eucaristiche. In certi attimi, in certe ore, in certi giorni, a noi combattenti avvenne di comunicare con quanto di divino era nel nostro spirito. Ci avvenne di attuare in noi, fra noi, la più intima e compiuta comunicazione con la divinità del cielo, della terra e del mare, dovunque fossimo combattenti celesti o terrestri o marini. Senza l’atto del partecipare al sacramento eucaristico, noi ci sentivamo sublimati in ciascuno e in tutti; e credevamo che dalla stessa nostra miseria umana sorgesse una divinità redentrice e trasfiguratrice. Non occorreva che noi rinnovassimo l’offerta del sacrifizio dinanzi all’altare castrense, sotto le specie del pane e del vino. Nella trincea, nella carlinga, sul ponte, e da poppa e da prua, ci offerivamo alla Patria sotto le specie dell’ardore e del sangue; e di quel che era in noi divino facevamo lei tutta quanta divina.

Ridivenuta solitaria e triste, quale delle nostre anime non si volge verso quella grazia e non si studia di ricevere nuova grazia?

Il Corpo della Patria non patisce in questa travagliata pace di stirpi come nella non conclusa guerra di stirpi? E non si attende da noi, oggi più che ieri, il «sacrifizio in rendimento di grazie»?

E non ritroveremo noi, duri combattenti convertiti in duri costruttori, non ritroveremo noi nel cotidiano sforzo la sola ragione eroica di vivere?

E non v’è contro di noi una nuova schiavitù da abolire, una nuova barbarie da respingere?

Fin dalla mia prima giovinezza, fin da quando nel mio studio toscano educavo il mio corpo a essere il Donatello di sé stesso e facevo del pulpito aereo di Prato il nido dei miei più freschi pensieri, io sentii che nessun’altra terra come la mia Italia ebbe una rispondenza tanto perfetta con la struttura spirituale dei suoi uomini ottimi: clarorum virorum. Fin da allora sentii tutta la sua forza e tutta la sua bellezza tendere di continuo verso una suprema espressione umana.

E, quando nel tumulto di Fiume io mi posi a disegnare il nuovo ordinamento dello Stato libero, riescivo a placare ogni mia ansia e a comporre ogni mio dubbio respirando verso l’ora suprema della storia d’Italia.

L’Italia ebbe nella sua storia un’ora in cui l’armonia tra la sua sostanza e la sua progenie parve meravigliosamente piena, così che in un equilibrio indicibile si composero le sue potenze naturali e le viventi opere dei suoi figli. La durezza dei suoi monti, il corso dei suoi fiumi, la foggia delle sue valli si riconobbero nelle pulsazioni della sua vita civile.

Se oggi quest’armonia è rotta, non sarà dato a noi di ricrearla?

Come nella battaglia io avevo coi miei compagni una comunione senza ostia, che di ardire in ardire spingeva me e loro di dall’umano, così oggi ho in me un canto eucaristico senza parole.

Se potessi modularlo, io vorrei offerirlo ai miei fratelli lavoratori perché accompagnassero con quel canto il lavoro e da quel canto illuminati rinvenissero nel lavoro le più fresche e le più salubri sorgenti della bellezza e della gioia.

Forse il canto di domani incomincerà come il remotissimo: «L’uomo narrami, o Musa...»

E v’è una Odissea latina, una Odissea romulea, l’Odissia di Livio Andronico, che incomincia: Virum mihi, Camena...

Ma l’uomo – quello che incontriamo ogni giorno, quello che ogni giorno indaghiamo e interroghiamo, quello che nella lotta è al nostro fianco o è contro il nostro pugno o è contro la nostra clava – l’uomo non rimane a noi tuttavia sconosciuto?

«L’uomo narrami, o Musa...»

Odo cantare il gallo. Io non posso dormire; e voi vegliate ancóra con me!

Odo e vedo. Il mio gallo non getta il suo grido vermiglio d’aurora, ma un grido nerazzurro, che iterato si fa violetto, innanzi l’alba. È lugubre. Frustra conturbat.

Ascoltate?

Diceva l’eroe galileo: «Voi ascoltate con un orecchio, ma l’altro è impenetrabile

Andate. Riposate. È ancor notte. Io posso vegliar solo.

Che dicevo dell’uomo?

Bisogna che io reprima tutti i moti della pietà di me, dell’orrore di me stesso, della vertigine incontro al martirio che m’è inflitto e al cómpito che m’è assegnato.

Sono io l’interprete del mio enimma? E, per affrontare l’enimma del mondo, l’interprete non ha altra via se non quella fallace del suo proprio laberinto?

Tutti gli uomini che seguono l’eroe, e gli obbediscono, partecipano dell’eroe. Né questi senza di loro sarebbe.

Bisogna che io mediti questo pensiero, bisogna che io lo contempli addentro, per farmi sicuro.

L’eroe non è dunque se non l’apparizione improvvisa d’una forza generatrice che, invisibile ma veggente, ferve nella profondità della moltitudine?

Misero quel popolo che non si riconosce nei suoi eroi!

Quando gli eroi sono rivelati e celebrati, la storia degli eroi costituisce la vera storia della lor gente.

Per ciò si può, nel modo liturgico, chiamar natalizio il giorno della celebrazione corale.

E il popolo veramente grande foggia il suo dio a similitudine di sé con la pura sostanza dei suoi eroi.

E il suo dio ha per segni gli alti pensieri armati.

E questa appare la prima sentenza incisa nelle sue tavole: «Il sacrifizio perfetto è sempre una vittoria futura.»

E questa appare la seconda: «Il sacrifizio è la più alta delle vocazioni ed elevazioni in terra.»

E questa appare la terza: «Quel che è scritto col sangue non potrà mai essere abolito.»

E fino a quando, o miei dottori, miei carcerieri devoti, mi terrete voi fra queste quattro mura miserabili?

La più angusta delle caverne carsiche, il più cupo degli antri, al paragone m’era senza limiti, m’era senza fondo, m’era un vestibolo dell’infinità, m’era simile ai precordii della madre terra. Il mozzicone di candela acceso in un cavo della roccia m’era come la lampada inestinguibile nel sepolcro di Pallante: mi rischiarava un lungo portico di architettati secoli latini.

C’è ancóra laggiù qualche fòiba chiamata dal mio nome, qualche dolina chiamata dal mio impeto?

C’è tuttora laggiù, davanti all’Osservatorio delle Bombarde, a ponente del Veliki, di dove ci partimmo nell’ottobre del 1916 per espugnare la Quota 265, c’è tuttora quel braccio levato fuori dei sassi, con la mano rattratta?

Il cadavere era mal sepolto, a fior del suolo. I soldati carponi erano costretti a passarci sopra. Il tritume del sasso e la mota rossiccia s’incorporavano con la carne e con le ossa, di sotto al calpestio. Così il passaggio s’era fatto sodo come una soglia cementata; e il braccio del morto pareva impietrito. Ma spesso i soldati non erano attenti a evitare l’intoppo. Io li avvertivo; ché m’ero messo a incoraggiare la sfilata del 14° perché non s’arrestasse e non si curvasse quando rugghiava la granata o più fischiava la fucileria. «C’è un braccio . Non lo pestate. È rivolto contro il nemico. Ha il pugno quasi chiuso. Vedete. Ha le dita rattrappate, tranne l’indice. Vedete. Vi mostra lo sperone del Bosco a cuore. Vi segna la nostra linea giù per la strada che scende a Loquizza. Al Pecinca occupiamo le pendici di nord. Tutta la difesa austriaca da San Grado a Nova Vas, la dobbiamo rompere. Questo morto rivuole il suo fucile. Non lo pestate. Si dissotterra da sé. Stanotte fa da guida alla Brigata, con Gorello...»

Vedevo rilucere il bianco degli occhi levati verso l’anima della mia voce. La mano del morto la secondava. Ogni mio gesto mi pareva una infusione del mio sangue fraterno in quell’altro gesto di sotterra. Ogni piede premuto su quel corpo mal sepolto dava un tonfo sordo; e il ritmo continuo imitava quasi un battito terragno. E la vita scorrente non lasciava orma su quella morte confitta.

Era una notte di luna, l’undecima notte di ottobre: il plenilunio. Un immenso velo bianco di pace si spandeva su le bolge e su i gironi e su gli scheggioni dell’inferno carsico. Stavo tra i sassi e i sacchi e gli uomini ammassati. Vedevo passare nel chiarore le mandre dei prigionieri color di fanghiglia. Taluni portavano a spalle i loro feriti; e la dolcezza della notte pareva agguagliare il lamento straniero con quello dei nostri che scendevano a gran pena per l’altro cammino ingombro di truppe e di salmerie. Il dolore italiano invocava: «Oh mamma!» A ogni tratto il viso di mia madre mi balzava dal mezzo del petto; e quel braccio di martire, tutto un seccume forte di cartilagini e di tendini e di ossi, pareva ogni volta tremare come se anch’esso mi fosse dentro.

Sul mio capo era come uno zirlare continuo, nell’aria lattea. Era come una migrazione micidiale di uccelli canori. La dolcezza della notte mutava il gran sibilo mortifero in un concerto di zirli, come se volesse incantare il coraggio e velare la necessità di uccidere. A quando a quando, una granata scoppiava con una gran fiamma rossa. I razzi illuminanti rischiaravano la vetta del Veliki che, nella minima pausa, poi s’addolciva e s’inazzurrava. I soldati, a ogni mio avvertimento, mi lanciavano uno sguardo così affettuoso che tutta la chiarità del plenilunio pareva stemprata nella madreperla dei loro giovani occhi.

Come le masse erano tutte riordinate per l’assalto, io mi chinai a toccare il pugno chiuso che esciva di sotterra, e sfiorai con le labbra le mie dita consacrate, come si fa dopo averle intinte nella pila dell’acqua santa o dopo aver toccata la reliquia benedetta.

Allora un piccolo fante, uno di Jesivivo e si ricorda?), m’afferrò la mano; e la tirò verso il cuore, e si chinò, e me la baciò con tanto fervore e con tanta riconoscenza e con tanto fremito che io dissi in me a mia madre fisa: «Ora posso morire

Ho udito sonare a notte tarda quel mio piccolo organo che ha le sue canne allineate come le file dei libri negli scaffali ov’è incluso. E la mia memoria non ha riconosciuto l’autore di quel Ricercare; ma ha risospinto la mia vita sul parapetto di quella trincea carsica che d’improvviso, ecco, mi riappare simile al somiere di uno smisurato organo, simile a quella specie di vasto banco sul quale riposa il carico di tutte le canne.

Dopo l’impresa contro le opere austriache condotta su la nostra Parenzo dove un mio vóto giovenile era tuttora inginocchiato dinanzi i musaici dell’Eufrasiana rivolta a occidente, io avevo rinnovato il mio vóto di fante nella chiesa di Doberdò dinanzi gli elmetti e le scarpe dei morti ammucchiati su gli altari in luogo dei sacri arredi.

Già la chiesa di Doberdò aveva trasposto tre de’ suoi registri alla Quota 121, sul vallone della Pietra Rossa. C’erano lassù tre ordini di trincee profonde. E quei divini fanciulli dei nostri fanti fangosi avevano dato a ciascuna un bel nome. La prima si chiamava Trincea della Speranza, ed era come il registro soprano. La seconda si chiamava la Trincea del Sogno. La terza si chiamava la Trincea dei Morti.

Ma nella chiesa vicariale di Opachiasella i fanti avevano rapito dalle rovine tutte le canne abbattute e disperse dell’organo; e ciascuno aveva salvato la sua nella sua trincea e pareva con essa aver geminata la canna del suo fucile. E, nella fossa che correva giù dalle macerie di Nova Vas al borgo distrutto dei calderai slavi, non era sceso dall’ignoto un fabbricatore d’organi cieco che dovesse radunare e riordinare le canne raccolte dagli Angeli della battaglia sul petto dei caduti e accordarle pel Magnificat di Santa Cecilia romana? Il coraggio aveva il soffio di mille mantici; e il sangue dava al metallo digradato una misteriosa tempera.

Perché da Nova Vas a Doberdò questa notte si risveglia il grande organo angelico? Perché lo riodo e lo rivedo stanotte grandeggiare di martiri e di canne, di armonie e di sacrifizii?

Rimettetemi in piedi. Risollevatemi all’apice mistico della vita, come su quel parapetto.

Imperversava il nembo di ferro e di fuoco. L’Austriaco rovesciava su tutta la trincea il flagello dello sbarramento. Il terreno destinato all’assalto era tutto crateri e tuoni e schianti e rugghi e scheggiame doppio. Del bosco di contro non rimaneva se non uno sterpeto nericcio, uno spineto falbo, forse avanzo di pini arsi, forse mucchio grumoso di rimasugli umani, forse spaventacchio di stecchi e cernecchi. L’orrore ingigantiva perfino gli uomini accosciati e raggomitolati nel fosso come il tormento in fondo alla più truce delle bolge dantesche. I colpiti qua e rimanevano come confitti nella poltiglia rossa, come invescati nei rifiuti del rancio, come cementati nel sasso trito; o si torcevano intorno a quel che d’essi era reciso e ancor vivo; o si rotolavano intorno all’addome sparato o si trascinavano ululando. E l’attesa immobile incominciava a battere le mascelle; e qua e lo stridore dei denti incominciava a mutar la trincea in geenna.

Allora io gridai, sollevato a un tratto da una veemenza che non era se non impeto di salvezza: «Coraggio, figliuoli! Non è nulla. Ora io vi copro.» E balzai sul parapetto, anima ignuda.

«Immune come un’anima mentre eri preziosa materia Riviveva in me, risplendeva in me la parola che di me aveva scritta sul foglio XXV della carta austrungarica un eroe che nella sua arca d’Aquileia è più felice di me profondato in questo mio guanciale molle?

Non preziosa m’era la mia materia ma anco men pregiata del panno grigio che a piè del parapetto conteneva tanta costanza di umili miei compagni. La voce usciva dalla mia gola come da una tromba d’argento senza ritorte. Squillo succedeva a squillo. Sentivo nella trincea i sussulti del coraggio commosso, distinti come nel fondo dell’occhio bendato i contraccolpi dei crateri irrompenti.

«Chi è Carponi s’avvicinava un uomo vivo: un buon sergente mandato dal superiore a chiedere chi fosse «quel pazzo esposto sul parapetto» e a ordinare che il pazzo si mettesse al riparo e vi rimanesse fino al segnale dello sbalzo.

Risposi che più tardi al superiore avrei dimostrata la necessità morale del mio atto e avrei scusata la mia disobbedienza incolpevole. Ma non so che divieto interiore m’impediva di dire il mio nome, di ridurre sotto un nome noto quel sentimento senza figura e senza confine. Lo dissi, a bassa voce contro l’orecchio che si tendeva inquieto; e mi parve di umiliarmi, mi parve di macularmi davanti alla mia purità, mi parve di menomare la mia candida offerta.

E ora sento, e ora comprendo come quell’intimo divieto, più che il dominio eroico di me fragile, mi facesse degno di rimanere su l’apice mistico della vita.

Dottore, dottor seràfico, o mio fratello Francesco delle Veglie, comprendi tu? Ero insofferente del mio nome allora, e oggi sono insofferente del mio nome. Lascia che la notte lo cancelli e che l’alba mi trovi ignoto. Ignoto sia quel che in me è più vasto e più lontano.

, su l’orlo della fossa tetra, l’uomo dell’ordine ritraendosi pareva mi portasse via la più segreta essenza della mia gioia. La voce animatrice mi s’ammutolì nella gola. Mi sentii men leggero nel respingere la morte, nel difendere dalla minaccia la mia gente, nel raccogliere in me le onde sempre più larghe dell’amore sprigionato. Mi sentii come riscolpito, non di dentro ma di fuori. Il mio scheletro si rivestiva di forme, quasi risonante nell’involucro. La spina della mia schiena lo raddrizzava e lo sosteneva, con iscrolli di volontà. Ero la faretra sospesa delle mie ossa. Divenivo dunque la statua alzata sul grande ipogeo carsico? il simulacro eretto su la inestricabile necropoli petrosa?

Dai crateri già spenti, dai truci imbuti già quietati, dalle doline già sedate, dalle rovine non più fumide, da tutto il deserto forato e squarciato, io traevo il silenzio che l’approssimarsi della sera appesantiva sul cuore della terra. Di dagli scoppii assordanti, di dalle vampe ancóra spesse, il silenzio m’era presente e reale come la benda verde sul mio occhio perduto. Potei distinguere, dopo un intervallo indefinito, un nuovo passo d’uomo sul margine dell’ipogeo.

«Chi è ?» Avevo la pistola nel pugno. E il mio nome, singhiozzato, quasi spasimato, mi disarmò. E due braccia convulse mi strinsero; e il mio petto fu serrato contro un altro petto, il mio cuore fu premuto sopra un altro cuore. E sentii qualcosa di umido e di caldo sul mio viso accostato da quell’altro viso. Ed era non so che pianto fraterno; era, come nella canzone friulana, la mia «rugiada della sera».

Allora, nel silenzio verticale come i subitanei cipressi rossastri e come i fulminei pini sanguigni che le granate esprimevano dalla petraia, mi sembrò che dalla trincea folta si levassero le canne degli organi e le canne dei fucili e che si moltiplicassero e che brillassero e che si accordassero in un solo registro soprano, e che la possente armonia religiosa soverchiasse e domasse l’uragano del ferro e del fuoco.

Comprendi?

Da Doberdò la Trincea della Speranza arrivava fin dove io più non ero solo. E la Trincea del Sogno traversa stanotte il mio carcere astruso.

Nella mia vita ardente e paziente io salgo di travaglio in travaglio. E mi torna spesso nel pensiero quel passo della vecchia cronica di Donato Velluti: «Ma uscimmo dalla brace e rientrammo nel fuoco.» Più spesso mi torna nel pensiero la lotta del Primogenito con l’Angelo.

Vi ricordate di quel passo della Genesi? Io mi ricordo del fresco di Benozzo nel Camposanto di Pisa, contemplato non senza malinconia mentre i lievi rosai della morte fiorivano nella terra d’Oltremare traslatata dalle galere di Ubaldo.

Il Primogenito, con la gente del sangue suo, aveva passato nella notte il guado di Iabboc. Com’ebbe condotto di dal torrente anche le sue masserizie e il servidorame, restò solo con la sua anima. E un uomo gli si fece innanzi all’improvviso. E sùbito si abbracciarono essi a corpo a corpo senz’arme per abbattersi l’un l’altro; e incominciarono a lottare gareggiando in varie prese e in sgusciar da esse. E dei due per lunga ora non cedette alcuno, ché forza era opposta a forza, destrezza a destrezza, ànsito ad ànsito. E già le stelle impallidivano al primo fiato dell’alba.

Allora lo sconosciuto, vedendo che non potea vincere il lottatore, gli toccò l’anca dov’è incavicchiata la coscia, gliela toccò al muscolo della commessura; e la coscia ne fu tutta intormentita e senza forze.

Era la destra? Il Primogenito ebbe tutto il lato destro percosso, così come io l’ebbi? Soffro tuttora al costato, all’anca, al ginocchio, allo stinco.

In quella notte d’agosto misteriosa, lottai forse con l’Angelo anch’io? Le giunture delle braccia tuttora mi dolgono per gli sforzi, e mi dolgono i lombi.

Lo sconosciuto disse al Primogenito: «Lasciami andare, ché spunta l’alba

E quegli disse: «Io non ti lascerò andare, che tu non mi abbi benedetto

E lo sconosciuto: «Quale è il tuo nome

Domandò il nome, come fu a me domandato su l’orlo di quel girone carsico. Ma alla medesima domanda egli oppose: «Perché domandi del mio nome?» E non volle rivelarsi.

Ma l’altro fu certo d’aver veduto Iddio a faccia a faccia. E zoppicava dalla coscia, andando verso il nuovo sole.

Mi piacerebbe di veder trattata una tal lotta dall’arte michelangiolesca. Come il Buonarroto non ne fu tentato quando egli stesso su l’impalcatura della Sistina lottava con l’Angelo e faceva allo sforzo «petto d’arpia» o tendevasi «com’arco soriano»?

Alle reclute del 1900, una sera in riva al Piave maschio, figurando le imagini della gioventù eroica quali appariscono nella gran volta esemplari, mi piacque di rappresentare il creatore titanico «quello dalla fronte quadrata incisa di sette linee diritte, il più triste della nostra razza: quello che vide svergognata la sua città, la libertà spenta nel vomito, l’Italia data per secoli alla voglia dei padroni...»

E già alle reclute del ’99, sotto un argine del fiume santo, avevo evocato tra acque e nubi quel tagliapietra di colossi nell’atto di riscolpire l’Italia «disposta a lasciarsi premere da ogni prodigo e da ogni violento».

Non la riscolpirebbe egli, anche oggi, a somiglianza dell’Aurora e non le scaglierebbe il martello furibondo per costringerla a levarsi, e a lottare, e a esser prode con gli uomini e con Dio, e a rivincere?

Udite, maestri d’opere, operai di otto ore e della vita intiera, hymni totius anni, miei compagni, miei fratelli, che ricominciate ad amare e a rivelare e a foggiare le belle idee della bontà e le buone idee della bellezza, uditemi. Ogni muscolo bene esercitato ed esperto e assiduo e vigile, ognuno dei vostri muscoli armoniosi, oggi mi sembra che sia per aggiungersi alla forma e al vigore della Patria. Ha bisogno d’irrobustire la sua forma e di moltiplicare il suo vigore, oggi, la Patria.

Non ha guadato anch’ella il torrente? e non lotta anch’ella con l’ignoto «fisa guardando pur che l’Alba nasca»?

Le domanda l’ignoto il suo nome, come nella Genesi, ma per inebriarsi della iterazione. «Italia! Italia! Italia

Ed ella domanda a lui il nome; ed egli tace, ma la benedice, ma non vuole se non benedirla, ma non sa se non benedirla.

E non importa che, superato il campo e il modo della lotta, ella da un lato vacilli nei suoi primi passi verso la nuova aurora, verso il nuovo sole. Fin gli ultimi segni del contrasto voi cancellerete; fino il male ultimo voi sanerete.

Riscolpitela.

In ogni officina, in ogni bottega, in ogni scuola, o maestri d’opere, o allievi, o studiosi, abbiate la sua statua vera, la sua figura sincera, liberata dei suoi vecchi attributi, spogliata dei suoi vecchi emblemi. Datele una fronte più larga, una fronte più alta. Toglietele il gravame della vecchia corona turrita, o mozzate almeno le torri. Le ricostruiremo noi; le convertiremo noi in fari dello spirito inestinguibili, di dalle nubi, di dagli stessi limiti dell’ala icaria, fino alle stelle, fino alla sua stella.

Riscolpiscila, o Lavoro d’Italia. La riscolpiscano in te la potenza e la libertà e la novità di un Michelangelo che, tutto al suo scarpello e al suo martello e all’amore dell’arte sua e del suo destino, abbia sdegnato pur di soffermarsi un attimo presso le ginocchia di Vittoria Colonna.


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