Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Libro ascetico
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VI NOSTRI MONVMENTA DOLORIS

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VI

NOSTRI MONVMENTA DOLORIS

Quale soffio investe il quaderno segnato dai fili d’erba e scandito dalle formiche? Eran caldi di sole e splendenti di sole i fogli; e forse me li rapisce su pel prato breve quel soffio che i Latini chiamavano misteriosamente afflatus solis, a cui forse oggi il mio spirito obbedisce e forse un giorno sarà per riobbedire la Patria.

Ecco che il quaderno si rifugia sotto le foglie dell’acanto, e si quieta. Il grande acanto vigoreggia fra il sentiere curvo e la muraglia vestita di rosai. V’è anche un afflato della superstizione? Quasi di continuo mi abita. Ora sembra che la pupilla di Callimaco si riapra nella mia pupilla.

L’artefice corintio vide presso una precoce tomba il bel fogliame flessibile inchinarsi e cingere il canestro funebre ov’erano raccolte le reliquie della giovinezza estinta. L’acanto sepolcrale era sorto da una radice occulta.

Questo non mi rinasce dalla radice di quello che recisi col mio pugnale, nel cimitero di Santa Maria la Longa, per coprire col fogliame i cranii sanguinosi dei fanti, dopo la decimazione mattutina?

Una specie di tristezza solare mi viene dal cimitero di Santa Maria, mi viene dal cimitero di Nago, mi viene dall’Altissimo, mi viene dal Monte Baldo. Ecco che tutta la serenità del giorno «natalizio» mi si muta in un’angoscia senza ignavia. Il mio lato infermo continua ad addentrarsi nella terra; e la terra m’imprigiona, mi ritiene, mi riprende. Ma questo fianco non è inerte, ma quest’occhio non è spento. Sprizzo bagliori, sfavillo, fiammeggio. Non lotto con l’Angelo del Cielo ma lotto con l’Angelo della Terra: a corpo a corpo senz’arme. Non ho più il guaime di settembre per guanciale alla mia tempia e alla mia mascella; ma tra la tempia e la mascella mi sporge e mi s’aguzza l’osso come cuneo. Un dolore sempre più cocente mi travaglia questo braccio, come se mi fossero sforzati i legami che me lo commettono alla spalla; né il dolore mi termina all’estremità della mano ma mi sembra che s’irraggi oltre, quasi che dalle falangi delle dita mi si prolunghino ombre di penne.

Quest’angoscia e questa lotta mi vengono dunque dal sogno dell’ala che vuol sprigionarsi e dal sogno del cuneo che vuole addentrarsi?

L’artiere della razza non ha dunque finito di tagliarmi. Il suo scarpello e il suo martello si ostinano in me; e al suo amor del fato risponde il mio amore del fato. Firmius ad opus.

Il più alto insegnamento non mi fu dato da quell’invalido che piangeva davanti alla mia porta?

Egli aveva patito in verità lo scarpello nella sua carne e nelle sue ossa. Il chirurgo l’aveva collocato e ricollocato sulla tavola dieci volte, venti volte, trenta volte; l’aveva fatto a pezzi; l’aveva macellato; l’aveva fasciato e sfasciato; aveva combattuto contro la cancrena invincibile, a forza di tagli, a misura di ferro; aveva tagliato le mani fino ai polsi, e poi le braccia fino al gomito, e poi i piedi e poi le gambe. Ogni volta il paziente aveva senza ira detto al dolore: «Io son più forte di te.» Tanto egli era diminuito nella carne, e tanto era ingigantito nella pazienza. Ogni giorno diveniva egli più taciturno, e ogni giorno la sua voce interiore diveniva più alta, e ogni giorno più profondamente egli la comprendeva e più dirittamente le obbediva. Ogni giorno il silenzio gli portava al sommo dell’anima le cose più nascoste, le ricchezze più inattese, le bellezze più insolite, come un’alluvione placida che in lui sboccasse con una sempre nuova foce dopo avere attraversato la più chiara delle terre promesse. Era alfine per lui, come per me, il silenzio quel latens incrementum che gli antichi legisti assegnavano alle ripe dei fiumi regali e i nuovi legislatori assegneranno alle fortune d’Italia.

Ora perché l’invalido invitto non aveva pianto per misericordia di sé e piangeva per compassione di me?

Lo chiamai; lo tenni davanti a me; lo presi per i moncherini; misurai l’angustia del suo tronco e l’immensa conquista della sua anima.

«Chi sei?»

Gli rivolsi la domanda come a un’apparizione sovrumana. Se egli avesse conservato in sé il suo orgoglio d’uomo, si sarebbe tutto illuminato d’orgoglio al mio accento; o avrebbe mostrato quella tristezza di non essere un dio, e neppure un semidio, che tanti eroi hanno sofferta e soffrono.

Così mutilato, così mangiato dalla cancrena, così ridotto dai ferri, con tanta fermezza nelle labbra, con tanto splendore negli occhi, mi rispose piano, abbassando la palpebra sul raggio dello sguardo: «Sono un povero cristo, che fatico a digrossarmi

Quella risposta sommessa fu, per me avido di chiusa perfezione, un ammaestramento che animerà il mio sforzo fino alla morte, fino al «trapasso fra due luci» che oggi non più m’auguro veloce ma considero lento per agio di compiutezza.

Nel mutilato l’umiliazione splendeva più che questo sole su quel torso di marmo lunense. Come si chinava e atteggiava le labbra a baciarmi le mani, io gli ricordai quella umiliazione luminosa che per la Persona del Verbo fu il poter dire incarnandosi: «Io sono minore del Padre

E riposai la mia guancia, dalla parte dell’occhio perduto, sopra l’òmero che reggeva il moncherino; e soggiunsi, anch’io piano: «Come te, io sono minore della Patria; e sono minore di te, minore di tutti; e anch’io, come te, fatico più di prima, fatico giorno e notte a digrossarmi

Perché lo rivedo a un tratto, , a fior dell’erba, come se sorgesse da terra, come se le gambe gli fosser rinate e gli si fosser radicate in terra? L’ombra dell’acanto lo giunge.

La concordanza degli eventi talvolta è condotta da non so qual nascosta volontà che in essa imprime o per essa esprime un segno ideale.

È vero, è vero: l’artefice della mia gente non ha ancor finito di tagliarmi. Il suo scarpello e il suo martello si ostinano in me; ma il suo amor del fato è men forte che il mio amore del fato.

Non vi si pensa quanto sangue costa.

Ogni colpo del martello infaticabile io lo sento accompagnato da questo verso di Dante, come ogni colpo di scure nella foresta è accompagnato dall’ànsito espresso in grido. E pochi versi dell’ottava bolgia, pochi versi della fiamma a due punte, mi dànno tanta passione come questo del nono cielo cristallino.

«Non vi si pensa quanto sangue costa

Aiutami, o Grande Mutilato, a svincolarmi dal masso bruto. Aiutami a strappar quest’ala, quest’ala destra, da questa specie di ganga arida che me l’avviluppa.

Ma è l’ala, o è la gruccia che mi prestò Enrico Toti una notte perché potessi alzarmi e girare intorno al sepolcro e tentare di scoprirlo?

Tua, o di quale dei tuoi fratelli ciechi e storpii e monchi, è quella risposta data a chi fingeva d’inginocchiarsi davanti al santo sepolcro e poi manometteva e percoteva i «martiri sopravvissuti»?

«Miseri noi, non tutti possiamo essere il soldato ignoto

Molto a lungo io ho meditato il monumento ai martiri dell’ala. Ma non sono anche «martiri dell’ala» gli eroi sopravvissuti?

Oggi mi sembra d’aver pronte a quella mole le quattro statue angolari. E forse in una io vedo scarpellato me stesso.

Sono i quattro colossi che, nel tempo della servitù e della bassezza, furono tratti dal ninfeo mediceo e posti in nuova luce dove il David in piedi è anche oggi la virtù di tutta una gente giovine e rinnovellata che con la ferma audacia si drizzi alla soglia del Mondo, pronta a distruggere per edificare.

Sono quattro dei dodici Schiavi che dovevano esser collocati contro i pilastri del Mausoleo di Giulio II. Sono quattro personae marmoree di quella «Tragedia della Tomba» che non è se non la tragedia della volontà titanica in lotta contro la natura e contro il fato, opera che trascende la celebrazione di un pontefice per celebrar l’eterna ansia del prigioniero terrestre che si chiama uomo.

Ora mi sembra che soltanto oggi sien quasi dissepolti e tratti fuori dall’ombra ove pativano e riapparsi mentre noi crediamo sentire su la fronte un soffio di novissima libertà e crediamo scorgere all’orizzonte di dalla lotta un novissimo segno. Mi sono presenti, mi sono prossimi come quell’acanto.

Quale dianzi il fremito di quel fogliame corintio evocava al mio sogno Pallade dall’elmo corintio con l’occhio duplice e col nasale diritto, tal lo spasimo di questo mio òmero compresso mi evoca i prigioni e me li fa qui presenti e pazienti e impazienti, quasi or ora l’ultimo colpo dello scarpello divino abbia levato una scintilla e una scheggia dal blocco bruto.

Vi palpita e vi dolora, nella silenziosa pietra, questa mia forza, questa nostra italiana forza che tenta di sprigionarsi dalla terra che la tiene. Impedior.

Immobili cariatidi a sorreggere un sepolcro, essi sembrano gonfiarsi d’un’aspirazione che non soltanto l’imagine dell’impeto ma il presentimento dell’ala nascitura, veraci figli di colui che per anni stette sospeso alla volta della Sistina come al cielo della sua volontà e all’altezza del suo ardore.

«Io non vi comando se non di essere. Non mi giova la preghiera; mi giova che voi siate liberi, perché il mio cuore in me sia più grande e perché voi e il fuoco e il fulmine e il vento possiate parlare insieme come fratelli

Così diceva egli alle sue creature. E così dice oggi agli uomini italiani il genio d’Italia, nella nuova immensità e terribilità della vita.

«Siate liberi. Ma che la vostra libertà non somigli alla fronte bassa della Tirannide coronata di stupidezza. Libertas non libera. La libertà è gemella della disciplina, e la disciplina è signora di tutte le armonie. L’accettazione eroica dei grandi fati umani imminenti libererà tutte le vostre forze per le vostre opere. La visione di una grande mèta vi porrà sopra i vostri atti e sopra i vostri giudici. Dove sono le eterne impronte d’Italia? Dove sono le eterne matrici d’Italia? Sono ingombrate di fango o di grumo? Rinettatele. Ma i creatori di potenza, i creatori di virtù, i creatori di bellezza possono anche spezzare le antiche forme e interrompere le antiche tradizioni, per liberare la vita nuova che freme e urge. La Patria, anche a prezzo del più lungo dolore, può aumentarsi d’una vita ch’ella è per creare di dal suo limite. Ma è necessario ch’ella creda in sé e ch’ella maturi i suoi disegni nella sua più profonda sincerità. «La fede non è forse il vero miracolo annunziatore dell’Iddio?» ha detto un asceta. E Dante, il padre Dante, nel cielo secondo di Mercurio non canta il Paradiso ma l’Italia e il comandamento divino che sta su la compiuta grandezza d’Italia.

Gli uomini, frate, e il paese sincero

nel qual tu sei, dir si posson creati,

sì come sono, in loro essere intero.

Creati in loro essere intero! Ecco il segreto dell’angoscia.

Per ciò nessuna opera mi sembra oggi più appassionata di questi colossi incompiuti e nessuna mi tocca più a dentro. La pietra che li serra non sembra dorata dal flutto di quattro secoli ma dalla giovine aurora che sorge sul mondo.

Non altrimenti oggi l’arcangelo d’Asia si scrolla. Si leva, raddrizza le penne contorte dell’ala, promette un nuovo segno e un nuovo grido ai suoi popoli.

Troppo fu tradito, fu troppo avvilito il mondo. Non più basta la violenza ottusa, non più basta la frode aguzza. Il velo dell’avvenire prossimo non può essere sollevato se non dall’Eroismo e dalla Santità. Il prossimo avvenire ha per il veggente un aspetto eroico e un aspetto ascetico. La sua bellezza sta per crearsi dall’armonia delle più alte aspirazioni umane e dall’urto delle più severe energie umane intese a dominare le cose e a superar sé stesse.

Abbattuto sono e incompiuto? Che importa, se lo scarpello tuttavia mi ferisce? Questi quattro colossi mi rivelano oggi il mio dolore e il mio sogno. Tralasciandoli, lo scarpello non obbediva alla cecità del caso ostile ma alla veggenza d’una fatalità ammirabile. Non un colpo né mille colpi del ferro tagliente avrebbero potuto aggiungere qualcosa a questa perfezione di dolore e di sogno.

Guardali, o tronco d’uomo muto. Contemplali dall’ombra dell’acanto.

Sono le imagini ideali degli eroi di ieri, degli ignoti, degli obliati, dei sopravviventi, dei morti. Guardali, fratello. Questo non è tagliato in un sasso del Grappa? e questo in un sasso del Montello? e questo in un sasso del San Michele? e questo in un sasso del Faiti?

Credi tu che nella nostra guerra avessero le ali soltanto i combattenti che volavano su Pola, su Cattaro, su Vienna? Non erano alati tutti i combattenti che andavano «oltre» le loro forze umane, il loro coraggio umano?

Le grandi volontà di vittoria, su qualunque suolo, in qualunque altezza, somigliavano a questi volenti.

Non te ne ricordi, legionario? Riconducimela tu stesso quella mia lontana ebrezza. Ridimmele tu stesso le mie parole. Riparlami tu stesso di quei volenti e di quella stella ch’essi fisavano.

«È sempre alla sommità del cielo la mia stella, la nostra stella. È senza declinazione, è senza tramonto. E sempre noi siamo e saremo fisi in essa.

È così alta che non la riflettono soltanto le acque dell’Adriatico. La rispecchiano i più lontani mari; ne rifrangono la luce i più profondi oceani.

Quando ad alcuno di voi offro in premio o in dono la stella d’oro a cinque punte, incido nell’oro: Proxima semper. Conoscete questo latino meglio di me. Prossima sempre.

La nostra stella è dentro il nostro cuore e a sommo del nostro firmamento: è prossima e remota.

Ma da ora in poi voglio mutar motto. Voglio per voi prendere il motto d’un vescovo di Aquileia, di quell’Aquileia dov’è colcata la primizia dei nostri morti. Era un Veneziano della stirpe dei Barbaro. E nella stella inscrisse: Volentes, volenti. Anche questo latino lo conoscete meglio di me.

Mi tolgo la mia stella dal cuore e ve la do con questa sola parola: Volentes.

Tutti, o giovani, siete i volenti e siete i potenti della nuova Italia

Guardali, o tronco d’eroe, questi volenti e potenti e dolenti. Nelle loro ossature e musculature appenate sembra che il punto più appenato sia l’òmero, dove il desiderio dell’ala pulsa come uno spasimo sacro. Le braccia sembrano contratte dall’angoscia della trasformazione, in parte ancóra apprese alla pietra, con le mani inarticolate, informi.

Non così te le senti tu qualche volta, di dai tuoi moncherini?

Due di costoro sembrano già vinti dal peso, rassegnati all’oppressura, tristi nell’inutilità dello sforzo. Ma gli altri due, aderenti con tutto il dorso al masso, appariscono ancóra nell’atto di generar sé stessi da sé, e hanno dietro di loro la materia bastevole a formar l’ala.

Uno ha tutto il capo serrato nella dura ganga e i piedi interamente imprigionati; e si divincola per sollevarsi; e la sua bocca senza respiro e i suoi occhi senza vista pur vivono entro la massa ottusa.

Il compagno volge verso il cielo, volge verso l’Oriente un viso vasto come quello di Pan, come quello di colui che abbia posseduto il Tutto nel suo pensiero e dal Tutto sia esule.

La sua schiavitù è più disperata d’ogni altra, perché la sua fronte era segnata per la suprema vittoria.

La sua interrogazione angosciosa è quella di tutti gli eroi ch’ebbero fede nell’onnipotenza dello Spirito e patirono l’ingiustizia della sorte e la ribellione della materia. Forti sono le cose e lo Spirito non ha se non il soffio; ma immortale è lo Spirito, e le cose appartengono alla morte.

Il deluso interroga: «Il corpo non è più della veste? la vita non è più del nutrimento? più dell’atto non è la volontà? il cuore, più della mano? la lingua, più della parola? il capo, più della corona? Se i cieli sono il dominio dello Spirito, non s’inclineranno essi fino a me?»


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