Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il libro delle vergini
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2 - FAVOLA SENTIMENTALE

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Un giorno il conte, prima del pranzo, annunziò la venuta della baronessa De Rosa, seconda moglie del fratello Federico, reduce dai trionfi estivi di Rimini e di Livorno. Egli mostrò a Cesare una lettera azzurrina stemmata in oro.

- Leggi - disse.

Cesare la prese; e l'odore acuto emanante dal foglio gli mise nell'anima un turbamento strano, gli suscitò come una inquietudine. Pe 'l foglio saliva una volata di piccole cicogne bianche, e fra le cicogne i caratteri piccoli e nervosi s'incalzavano in violetto, squisitamente.

- Quando arriverà? - chiese Galatea.

- Domani.

Giunse, in fatti. Ella era una ben giovine zia, una splendida figura di andalusa dalle nerissime iridi piene di desiderii e di misterii.

- Oh, mia bella bionda! oh, mia bella bambola bionda! - esclamava, stringendo fra le braccia Galatea, sconvolgendole i capelli su la fronte, tormentandola di baci.

- E voi, Cesare? Anche voi siete qui, nel castello solitario, paggio, trovatore, cavaliere... come?

E rideva in certi piccoli tintinni di cristalli e di metalli vibranti, piegando il capo in dietro, mentre le gengive rosee le si scoprivano un po' crudelmente e il petto le sussultava sotto la corazza di raso.

- Non temete gl'incantesimi, Cesare?

Ella era così; parlava con una volubilità petulante e cinguettante, con un adorabile brillio di erre. Contro li erre l'onda fresca della voce pareva che si frangesse e s'increspasse.

- Sempre qui, sempre qui, Galatea? Non vorrai mai rompere il tuo cerchio magico, dunque? Ve la rapirò conte, ve la rapirò questa vostra Jolanda dalli occhi pensosi... Ma tu hai proprio due smeraldi per occhi, Galatea! Perché mi guardi così? Ti piaccio?...

E s'impazientiva nel togliersi i lunghi guanti di camoscio nero che le serravano le braccia fino al gomito.

- Andiamo. Conducimi.

A quell'irrompere improvviso di allegria li echi della sala si svegliarono, le sonorità cupe delle volte fremevano; un solco di profumo seguiva il fruscìo di Vinca sopra i pavimenti di mosaico antico, a traverso le stanze piene di legno scolpito e di tappezzerie sfiorenti.

Accanto a quella donna, Galatea prima si sentì presa come da uno stordimento; poi come una irritazione sorda l'assaliva contro quella mobilità nervosa, contro quelle onde acri di odore che a lei davano la nausea, contro quelli scoppî di risa che a lei ferivano i timpani acutamente. Ella avrebbe voluto ribellarsi a certe furie di baci, a certe carezze vivaci, a certe lusinghe svenevoli.

- Bambola bella! - sussurrava spesso Vinca, a denti stretti, a labbra aperte, con un piccolo vezzo felino, mentre serrava la tempia della fanciulla tra le palme e l'attirava alla bocca.

- No; non mi chiamate più così, zia, vi prego - ruppe una volta Galatea, con un lieve tremito d'ira nella voce.

- Bambola bella! - ripeté Vinca. E gittò all'aria una di quelle fresche risate scampanellanti, abbandonata su 'l divano con tutta la persona, in un atteggiamento provocatore. Su 'l divano il sole, entrando dalla finestra, rinvermigliava i fiorami di seta smorti nel vecchio tessuto di argento: e da quel fondo emergeva il bel corpo femineo chiuso nell'abito di casimiro, avvolto nel pulviscolo dei raggi. Era un quadro di tinte dolci; dalla parete pendeva un arazzo scolorito ove due cavalieri inseguivano una cerva fuggiasca. Vinca rideva: le risa nel sole pareva brillassero. Quando apparve su la soglia Cesare:

- Entrate, dottore, entrate - esclamò la zia, ergendosi e tendendo le mani verso il giovine. - Placate Galatea, per carità!

Ma la fanciulla ora sorrideva sottilmente. Cesare, senza volere aspirò il profumo fine di violetta che si insinuava per l'aria, il profumo stesso della lettera con le cicogne: al senso del piacere le narici gli trepidarono. Egli veniva dal tanfo grave dei volumi tarlati, dal silenzio della biblioteca ove il richiamo delle risa di Vinca era giunto. Era giunto nel silenzio, mentre egli curvo su le pagine sentiva dalle pagine liberarsi la sana giocondità delle canzoni goliardiche precipitanti con un scrosciar vivace di rime latine nella fuga del ritmo.

 

O! o! totus floreo..

 

Egli aveva teso l'orecchio; e nell'orecchio gli squillarono per un istante le risa con i chicchiriamenti di una strofe pazza.

 

Veni, veni, venias,

ne me mori facias,

hyria hyria nazaza

trilliriuo.

 

Tutti li ardori e le cupidigie della giovinezza parvero ridestarsi d'un tratto nel sangue di lui come a una musica di battaglia e di vittoria, e rigerminare con nuova violenza. Gli parve di sentire in tutte le membra come un crepitio d'involucri spezzati e di gemme rompenti, sotto la grandine allegra di quelle risa e di que' ritornelli.

 

O! o! totus floreo.

 

Egli scattò in piedi. Quella fredda solitudine l'opprimeva; egli la odiava, quella solitudine...

- Entrate, dottore, entrate - fece la voce cristallina della baronessa.

Con che felice audacia il corso della baronessa si staccava dal vecchio fondo biancastro a fiorami rossi! Dai fini lobi delle orecchie i cerchi d'argento a contrasto del tono bruno delle gote le pendevano zingarescamente; e su le gote una peluria lievissima le fioriva ombreggiando anche il labbro superiore, lievissima.

- Senti, Galatea, bambina; facciamo la pace - sussurrò ella con un accento pieghevole e carezzevole. - Andiamo giù, nel viale: andiamo al sole con Cesare... Vuoi venire?

- No, zia; lasciami qui. Non posso andare al sole, io - rispose Galatea, sommessa.

- Venite voi, Cesare? - chiese Vinca al giovine.

Cesare le offrì il braccio, inchinandosi.

 

 


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