Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il libro delle vergini
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3 - NELL'ASSENZA DI LANCIOTTO

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3 - NELL'ASSENZA DI LANCIOTTO

 

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- Oh, Donna Clara, salute!

All'augurio ella sorrise tristemente; poiché sentiva che la buona salute a poco a poco la abbandonava, forse per sempre.

Tentava di rimanere ancora in piedi, di tenere in piedi quella grande sua macchina ossuta contro l'affievolimento crescente: pareva così forte, malgrado una fitta irradiazione di rughe, malgrado una bella colorazione di nevi senili. E poi allora principiavano li allettamenti della primavera, così dolci nella campagna ove ella viveva da tanti anni, principiavano allora quei buoni tepori aspettati che l'avrebbero fatta guarire, che l'avrebbero salvata certamente. Bastava ch'ella avesse la virtù di non cedere a quella spossatezza, bastava ch'ella non si accasciasse, bastava che la nuova aria l'entrasse nei pulmoni, le accelerasse il sangue. Questa fiducia le ravvivava lo spirito, la faceva essere quasi ilare, le faceva amare i clamori infantili, di cui Eva rallegrava le stanze, le faceva amare li squilli di canto di cui la nuora empiva le volte. Quel profumo di giovinezza umana che saliva tutt'intorno, e quella benevolenza della stagione nascente l'eccitavano, le davano una specie di energia momentanea che certi liquori dànno, la turbolenta sollevazione di vita che ha l'infermo se oda una musica allegra passare. C'era in tutto questo però qualche cosa di amaro, l'acredine che viene immancabilmente da ogni lotta. Quando la nuora, vedendola pallida nella zona di sole che traversava i vetri della finestra, smetteva di cantarellare, presa dal rispetto pietoso che hanno i sani per i sofferenti e le chiedeva se proprio si sentisse bene, Donna Clara rispondeva:

- Sì, Francesca, mi sento bene. Cantate pure.

Ma il tono sordo della voce svelava una irritazione repressa; e Francesca se ne accorgeva.

- Volete, mamma, che vi faccia preparare il letto?

- No, no.

- Avete bisogno di nulla?

- Ma no, di nulla...

L'impazienza irrompeva. Ella apriva le vetrate e poggiava i gomiti sul davanzale, cercando di respirare largamente la salute nell'aria. O chiamava a sé la piccola nipote Eva, che le si gettava addosso con la furia cieca dei fanciulli ebbri di chiasso ridente nella faccia rossa di calore tra l'abbondanza del biondo.

- O nonna grande! - gridava la bimba incurante della pena recata alle ginocchia della vecchia nell'urto dell'accorrere. E rimaneva a riposarsi, mentre Donna Clara godeva immergere le dita signorilmente lunghe nella vitalità di quella chioma che esalava il profumo naturale dell'infanzia, come in un bagno salutare. Per un momento quell'espansione di tenerezza le faceva bene, sentiva per un momento da quel piccolo corpo, ancora tutto vibrante de' moti anteriori, ripercuotere in sé una sensazione di gioia incosciente; o meglio, ella . sentiva che in quel piccolo corpo qualche parte del suo proprio essere viveva come per passaggio di eredità, e ne gioiva. Sollevava il capo della bimba; la voleva guardare in quei puri e profondi occhi, quasi sempre dalla meraviglia fatti maggiori.

- Ha li occhi e la fronte di Valerio; non è vero, Francesca?

- Sì, mamma; ossia li occhi vostri e la fronte vostra.

Allora le rughe nella faccia di Donna Clara si aggruppavano come raggi, nella luminosità che loro dava la compiacenza del sorriso.

Poi, quando Eva, presa da una nuova frenesia di agitarsi, le guizzava sotto la carezza sfuggendo, Donna Clara restava in una specie di stupefazione, come chi senta mancare uno stimolo dilettevole in una parte delle membra, e tema che scuotendosi anche l'ultima ondulazione del diletto vanisca. A poco a poco la fatica di tenersi contro il languore diventava penosa, e quella ostinazione di resistenza a poco a poco cedeva; e prima un 'inquietudine vaga che si andava determinando via via in timore, e quindi un terrore vero, il terrore di chi avendo esaurito il coraggio si trova senza scampo dinanzi al pericolo, strinse la vecchia anima e la irrigidì. Il corpo aveva bisogno di star disteso e di non più gravare su i muscoli affievoliti; poggiando il capo alla spalliera della sedia e rilasciando le membra, l'inferma provava un sollievo. Ma quel gran letto cupo, tutto chiuso in torno dalle cortine di damasco verde, ma quel gran letto occupante da solo tutta la camera, dov'era morto cinque anni innanzi il marito, quel letto le aggravava il terrore. Ora non ci sarebbe entrata mai; le sarebbe parso di seppellirsi per sempre, di soffocare. E invece ella conservava, nel turbamento, la bramosia dell'aria piena e della piena luce; ella odiava l'isolamento, per l'illusione che il contatto e la vista delle cose forti giovani e liete l'avrebbero lentamente rinnovata.

Così, quando Gustavo, il figlio minore, con la dolcezza la persuase, ella volle che le mettessero un piccolo letto nella camera all'angolo della casa, sopra la gran tettoia delli aranci, tra mezzogiorno e levante dove si vedeva il cielo, dove erano le due larghe finestre aperte alle invasioni del sole.

 

A pena fu adagiata, a pena ebbe il presentimento che non si sarebbe forse alzata mai più, successe in lei al terrore una calma singolare. Ora ella attendeva; e nulla più triste di quella lunga attesa, di quella lenta deperizione d'una creatura umana, di quella consacrazione sicura alla morte.

La nuova stanza aveva le pareti nude, l'aspetto di un luogo fin allora disabitato. A traverso i vetri di una delle due finestre si scorgeva l'ultimo limite della pianura e la linea scura de' colli, e dietro i colli, su 'l cielo vivo, il profilo di Montecorno, quella figura dolce di dea supina che sotto la neve pare una immensa statua di marmo abbattuta lungo la terra d'Abruzzi, la protettrice della vecchia patria, che i marinai dalla costa salutano con effusione d'amore come un giorno i nauti del Pireo salutavano l'asta di Atena. Sotto l'altra finestra si rischiarava ai buoni soli una fila di aranci.

E i giorni passavano. Valerio lontano non sarebbe tornato che fra due, fra tre mesi forse. Dal letto dell'inferma si diffondeva per tutta la casa il silenzio; era quella soffocazione o attenuazione di tutti i rumori, di tutte le voci che si fa in torno ai malati per non disturbare il riposo. Il medico, un piccolo uomo dalla faccia tutta rasa, quasi lucida, veniva ogni sera, poco prima del tramonto, alla stessa ora. Nella stanza cominciavano le ombre, rotte talvolta da un ultimo bagliore che dalla finestra di mezzo entrava a sfiorare il letto; un domestico portava il lume coperto da una gran ventola verde. Quando il medico era uscito, restavano nella stanza Gustavo e Francesca, seduti accanto al letto, silenziosi, dominati da quella luce eguale, ascoltando le voci fievoli che mandava la campagna nel lontano. Eva piegava la testa nella gravezza del sonno, inondando le ginocchia della madre con i capelli di sotto a cui usciva il respiro, senza che si vedesse la bocca. Erano i capelli una morbida massa palpitante.

- Sentiteli - disse una volta Francesca al cognato, accarezzandoli con la compiacenza delle madri felici.

Gustavo v'immerse le dita leggere appressandosi col chinare il corpo senza levarsi dalla sedia; e nel solco s'incontrarono le mani fuggevolmente. Pure, a quel contatto i due giovani per un moto istintivo le ritrassero. Si guardarono dopo, con la meraviglia curiosa di chi abbia d'un tratto scoperta per caso qualche cosa fin allora inaspettata, nascosta; nessuno dei due, prima, aveva pensato che da quell'avvicinamento di epidermidi sarebbe scoccata quella scintilla. E insieme guardarono la vecchia; dormiva Donna Clara; aveva gli occhi chiusi, doveva dormire. Stettero un momento ad ascoltare quella respirazione un po’ roca che pesava nel silenzio.

- Oh mamma! - mormorò la voce d'Eva mentre di tra il biondo sbucava la faccia increspata nella confusione fastidiosa del primo svegliarsi.

 

 


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