Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il libro delle vergini
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3 - NELL'ASSENZA DI LANCIOTTO

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La mattina dopo, tornava Gustavo lentamente giù pe 'l viale, insieme con Famulus il grande cane niveo che lo seguiva con quel dondolamento di danza così molle ed elegante nei levrieri. Era una di quelle mattine verginali della primavera che nasce, in cui la campagna ha come un'indolenza di convalescenza nello svegliarsi. Qualche cosa di latteo, un chiarore chiarissimo vagava su 'l verde, sotto li alberi; e su quella massa il sole metteva una radiosità tra bionda e rosea, una trepidazione indistinta. La vecchia terra d'Abruzzi ora s'inteneriva.

Lontano, in fondo al viale, su 'l cupo verde delli aranci, Gustavo scorgeva una macchia bianca simile a quelle che le statue fanno nei giardini. Ma, acuendo egli lo sguardo, il cane gli si piccò dal fianco, quasi avesse odorato la preda, con quelli stupendi slanci di antilope in corsa.

- Famulus, qua! Famulus!

Era la voce di Francesca, tra le piante. Ella ritta aspettava che il levriero la raggiungesse, facendo schioccare le dita, dando quel richiamo squillante all'aria. Gustavo le fu presso quando ella già stava china su 'l cane serrandone il lungo muso tra le mani carezzevoli: bellissima, nella veste mattinale a pieghe ricche dentro cui s'indovinava la flessibilità del corpo vivo, con i capelli dalla nuca tirati , e stretti in un nodo su 'l sommo della testa come in certi ritratti settecentisti, così curva su l'animale che supino agitava le zampe sottili e nervose verso di lei, mostrando il ventre smilzo color di carne.

- Buon giorno, signora.

- Oh Gustavo, buon giorno! - rispose ella drizzandosi con un movimento vivace, leggermente colorita nella faccia dall'essere stata china. E mentre gli tendeva la mano, lo guardò curiosamente socchiudendo gli occhi: poiché ella dal letto s'era levata con la sua bella serenità. Poi alternando per gioco la voce, soggiunse:

- Donde venite, o signore?

Gustavo capì e sorrise; egli non l'aveva chiamata a nome nel saluto per una debole trepidazione di fanciullo; ora si pentiva, voleva parlare sicuramente, dire molte cose.

- Di lontano, Francesca. Sono uscito all'alba, ho condotto meco Famulus. L'aria frizzava. Abbiamo preso per i campi, abbiamo attraversato la pineta... La pineta è tutta fiorita di violette; c'è l'odore della resina mescolato all'odore dei fiori... Se sentiste! Ci andremo a cavallo, un giorno, quando vorrete... Siam passati anche dalla fattoria sotto i colli; c'è il prato tutto bagnato di guazza. Scappavano i conigli da tutte le parti. Famulus n’ha afferrato pe 'l collo uno; glie l'ho fatto lasciare. Dopo il giro lungo, ci siam messi pe 'l viale. Famulus vi ha scoperto da lontano e vi è corso in contro per leccarvi le mani. Voi gli date troppi pezzi di zucchero a questo vecchio ghiottone: lo guasterete, Francesca...

Parlò ancora; perché Francesca lo ascoltava. Quando apparve Eva con l'aria spaventata gridando:

- Corri, mamma! Nonna grande si sente male.

Accorsero insieme. Trovarono Donna Clara su 'l letto in preda a uno di quelli attacchi nervosi di freddo che la facevano tutta tremare e le squassavano le povere ossa. Non poteva parlare: un pallore quasi livido le occupava la faccia, dove il mento aveva un battito rapido e li occhi parevano perduti nelle loro orbite sotto la palpebra semichiusa. Non si poteva far nulla per aiutarla; bisognava aspettare che quel momento passasse. Gustavo le teneva la mano calda sulla fronte gelata, pendendo con un'espressione di timore e di tenerezza da quel povero volto illividito, mettendole nel volto il respiro caldo, chiamandola sommesso, a tratti con la bocca presso alle orecchie di lei. Ella doveva sentire; perché allora nel globo giallognolo delli occhi ricompariva l'iride verso gli angoli, e nelle labbra lottava contro il battito convulso un moto vano di sorriso. Il sole non entrava ancora nella stanza; un fiammeggiamento d'oro si frangeva su i vetri chiusi. A poco a poco nell'inferma il ribrezzo si placava; ella aprì due o tre volte la bocca aspirando l'aria, ad intervalli, debolmente. Come a poco a poco la penetrava il calore, su la faccia il pallore diveniva più dolce. Volse li occhi a quelli che le stavano accanto; poté sorridere allora abbassando le palpebre, senza parlare. Una stanchezza immensa le invadeva tutto l'essere; e in quella prostrazione ella conservava ancora la sensazione del ribrezzo che l'aveva scossa; mentre, dinanzi alla felicità crescente del mattino primaverile, un rimpianto amaro, il rimpianto di qualche cosa d'irrimediabile, singhiozzava in lei. Tutto era finito; ella era vecchia, ella doveva dunque morire. E la stanchezza seguitava ad invaderla; uno smarrimento dei sensi, un tepore grave dalla testa ai piedi s'impossessava di lei.

- S'addormenta - sussurrò Francesca.

- No, sviene - disse Gustavo, pallido, che aveva sentito affievolire nei polsi della madre i colpi della vita.

- Correte, Gustavo: su nella mia stanza, accanto al letto c'è una fiala di cristallo. Portatela qui.

Egli andò, salì le scale correndo, entrò nella stanza. Malgrado la commozione filiale, un'impressione viva di odore e di freschezza gli batté nella faccia e lo fece trasalire; un'impressione di luce rossa, come d'un gran polverio roseo, dove nuotavano le esalazioni tepide del bagno, dove viveva ancora il profumo naturale della cute femminile, quel profumo che turba. Egli cercò la fiala accanto al letto, la cercò senza guardare; nel letto le coperte rovesciate lasciavano vedere il lenzuolo bianchissimo dove rimanevano ancora le impronte del corpo che ci aveva giaciuto. Saliva di l'odore di Francesca, quello che ella soleva avere.

Egli cercando mise le mani in qualche cosa di morbido; era forse una camicia ravvolta, chi sa, qualche cosa ch'ella aveva già dovuto portare. L'odore gli rimase forte nelle mani. Trovò la fiala, uscì, tornò giù correndo.

 

 


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