Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le novelle della Pescara
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1 - LA CONTESSA D'AMALFI

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Violetta Kutufà era venuta a Pescara nel mese di gennaio, in tempo di carnevale, con una compagnia di cantatori. Ella diceva d'essere una Greca dell'Arcipelago, di aver cantato in un teatro di Corfù al cospetto del re degli Elleni e di aver fatto impazzire d'amore un ammiraglio d'Inghilterra. Era una donna di forme opulente, di pelle bianchissima. Aveva due braccia straordinariamente carnose e piene di piccole fosse che apparivano rosee ad ogni moto; e le piccole fosse e le anella e tutte le altre grazie proprie di un corpo infantile rendevano singolarmente piacevole e fresca e quasi ridente la sua pinguedine. I lineamenti del volto erano un po' volgari: gli occhi color tané, pieni di pigrizia; le labbra grandi, piatte e come schiacciate. Il naso non rivelava l'origine greca: era corto, un poco erto, con le narici larghe e respiranti. I capelli, neri, abbondavano. Ed ella parlava con un accento molle, esitando ad ogni parola, ridendo quasi sempre. La sua voce spesso diventava roca, d'improvviso.

Quando la compagnia giunse, i Pescaresi smaniavano nell'aspettazione. I cantatori forestieri furono ammirati per le vie, nei loro gesti, nel loro incedere, nel loro vestire, e in ogni loro attitudine. Ma la persona su cui tutta l'attenzione converse fu Violetta Kutufà.

Ella portava una specie di giacca scura orlata di pelliccia e chiusa da alamari d'oro, e sul capo una specie di tocco tutto di pelliccia, chino un po' da una parte. Andava sola, camminando speditamente; entrava nelle botteghe, trattava con un certo disdegno i bottegai, si lagnava della mediocrità delle merci, usciva senza aver nulla comprato: cantarellava, con noncuranza.

Per le vie, nelle piazzette, su tutti i muri, grandi scritture a mano annunziavano la rappresentazione della Contessa d'Amalfi. Il nome di Violetta Kutufà risplendeva in lettere vermiglie. Gli animi dei Pescaresi si accendevano. La sera aspettata giunse.

Il teatro era in una sala dell'antico Ospedale militare, all'estremità del paese, verso la marina. La sala era bassa, stretta e lunga come un corridoio: il palco scenico, tutto di legname e di carta dipinta, s'inalzava pochi palmi da terra; contro le pareti maggiori stavano le tribune, costruite d'assi e di tavole, ricoperte di bandiere tricolori, ornate di festoni. Il sipario, opera insigne di Cucuzzitto figlio di Cucuzzitto, raffigurava la Tragedia, la Comedia e la Musica allacciate come le tre Grazie e trasvolanti sul ponte a battelli sotto cui passava la Pescara turchina. Le sedie, tolte alle chiese, occupavano metà della platea. Le panche, tolte alle scuole, occupavano il resto.

Verso le sette la banda comunale prese a sonare in piazza e sonando fece il giro del paese; e si fermò quindi al teatro. La marcia fragorosa sollevava gli animi al passaggio. Le signore fremevano d'impazienza, nei loro belli abiti di seta. La sala rapidamente si empì.

Su le tribune raggiava una corona di signore e di signorine gloriosissima. Teodolinda Pomàrici, la filodrammatica sentimentale e linfatica, sedeva accanto a Fermina Memma la mascula. Le Fusilli, venute da Castellammare, grandi fanciulle dagli occhi nerissimi, vestite di una eguale stoffa rosea, tutte con i capelli stretti in treccia giù per la schiena, ridevano forte e gesticolavano. Emilia d'Annunzio volgeva attorno i belli occhi lionati con un'aria di tedio infinito. Mariannina Cortese faceva segni col ventaglio a Donna Rachele Profeta che stava di fronte. Donna Rachele Bucci con Donna Rachele Carabba ragionava di tavolini parlanti e di apparizioni. Le maestre Del Gado, vestite tutt'e due di seta cangiante, con mantellette di moda antichissima e con certe cuffie luccicanti di pagliuzze d'acciaio, tacevano, compunte, forse stordite dalla novità del caso, forse pentite d'esser venute a uno spettacolo profano. Costanza Lesbii tossiva continuamente, rabbrividendo sotto lo scialle rosso; bianca bianca, bionda bionda, sottile sottile.

Nelle prime sedie della platea sedevano gli ottimati. Don Giovanni Ussorio primeggiava, bene curato nella persona, con magnifici calzoni a quadri bianchi e neri, con soprabito di castoro lucido, con alle dita e alla camicia una gran quantità di oreficeria chietina. Don Antonio Brattella, membro dell'Areopago di Marsiglia, un uomo spirante la grandezza da tutti pori e specialmente dal lobo auricolare sinistro ch'era grosso come un'albicocca acerba, raccontava, a voce alta, il dramma lirico di Giovanni Peruzzini; e le parole, uscendo dalla sua bocca, acquistavano una rotondità ciceroniana. Gli altri su le sedie si agitavano con maggiore o minore importanza. Il dottore Panzoni lottava in vano contro le lusinghe del sonno e di tanto in tanto faceva un rumore che si confondeva con il la degli strumenti preludianti.

- Pss! psss! pssss!

Nel teatro il silenzio divenne profondo. All'alzarsi della tela, la scena era vuota. Il suono d'un violoncello veniva di tra le quinte. Uscì Tilde, e cantò. Poi uscì Sertorio, e cantò. Poi entrò una torma di allievi e di amici, e intonò un coro. Poi Tilde si avvicinò pianamente alla finestra.

 

Oh! come lente l'ore

Sono al desio!...

 

Nel pubblico incominciava la commozione, poiché doveva essere imminente un duetto di amore. Tilde, in verità, era un primo soprano non molto giovine; portava un abito azzurro; aveva una capellatura biondastra che le ricopriva insufficientemente il cranio; e, con la faccia bianca di cipria, rassomigliava a una costoletta cruda e infarinata che fosse nascosta dentro una parrucca di canapa.

Egidio venne. Egli era il tenore giovine. Come aveva il petto singolarmente incavato, le gambe un po' curve, rassomigliava un cucchiaio a doppio manico, su 'l quale fosse appiccicata una di quelle teste di vitello raschiate e pulite che si veggono talvolta nelle mostre dei beccai.

 

Tilde! il tuo labbro è muto,

Abbassi al suol gli sguardi.

un tuo gentil saluto,

Dimmi, perché mi tardi?

È la tua man tremante...

Fanciulla mia, perché?

 

E Tilde, con un impeto di sentimento:

 

In sì solenne istante

Tu lo domandi a me?

 

Il duetto crebbe in tenerezza. Le melodie del cavaliere Petrella deliziavano le orecchie degli uditori. Tutte le signore stavano chinate sul parapetto delle tribune, immobili, attente; e i loro volti, battuti dal riflesso del verde delle bandiere, impallidivano...

 

Un cangiar di paradiso

Il morir ci sembrerà!

 

Tilde uscì; ed entrò, cantando, il duca Carnioli ch'era un uomo corpulento e truculento e zazzeruto come ad un baritono si addice. Egli cantava fiorentinamente, aspirando le c iniziali, anzi addirittura sopprimendole talvolta.

 

Non sai tu che piombo è a ippiede

La atena oniugale?

 

Ma quando nel suo canto nominò alfine d'Amalfi la contessa, corse nel pubblico un fremito lungo. La contessa era desiderata, invocata.

Chiese Don Giovanni Ussorio a Don Antonio Brattella:

- Quando viene?

Rispose Don Antonio, lasciando cadere dall'alto la risposta:

- Oh, mio Dio, Don Giovà! Non sapete? Nell'atto secondo! Nell'atto secondo!

Il sermone di Sertorio fu ascoltato con una certa impazienza. Il sipario calò fra applausi deboli. Il trionfo di Violetta Kutufà così incominciava. Un gran susurro correva per la platea, per le tribune, crescendo, mentre si udivano dietro il sipario i colpi di martello dei macchinisti. Quel lavoro invisibile aumentava l'aspettazione.

Quando il sipario si alzò, una specie di stupore invase gli animi. L'apparato scenico parve meraviglioso. Tre arcate si prolungavano in prospettiva, illuminate; e quella di mezzo terminava in un giardino fantastico. Alcuni paggi stavano sparsi qua e , e s'inchinavano. La contessa d'Amalfi, tutta vestita di velluto rosso, con uno strascico regale, con le braccia e le spalle nude, rosea nella faccia, entrò a passi concitati:

 

Fu una sera d'ebrezza, e l'alma mia

N'è piena ancor...

 

La sua voce era disuguale, talvolta stridula, ma spesso poderosa, acutissima. Produsse nel pubblico un effetto singolare, dopo il miagolìo tenero di Tilde. Subitamente il pubblico si divise in due fazioni: le donne stavano per Tilde; gli uomini, per Leonora.

 

A' vezzi miei resitere

non è si facil gioco...

 

Leonora aveva nelle attitudini, nei gesti, nei passi, una procacità che inebriava ed accendeva i celibi avvezzi alle flosce Veneri del vico di Sant'Agostino, e i mariti stanchi dalle scipitezze coniugali. Tutti guardavano, ad ogni volgersi della cantatrice, le spalle grasse e bianche, dove al gioco delle braccia rotonde due fossette parevano ridere.

Alla fine dell'a solo gli applausi scoppiarono con un fragore immenso. Poi lo svenimento della contessa, le simulazioni dinanzi al duca Carnioli, il principio del duetto, tutte le scene suscitarono applausi. Nella sala s'era addensato il calore: per le tribune i ventagli s'agitavano confusamente, e nello sventolìo le facce femminili apparivano e sparivano. Quando la contessa si appoggiò a una colonna, in un attitudine d'amorosa contemplazione, e fu rischiarata dalla luce lunare d'un bengala, mentre Egidio cantava la romanza soave. Don Antonio Brattella disse forte:

- È grande!

Don Giovanni Ussorio con un impeto subitaneo, si mise a battere le mani, solo. Gli altri imposero silenzio, poiché volevano ascoltare. Don Giovanni rimase confuso.

 

Tutto d'amore, tutto ha favella:

La luna, il zeffiro, le stelle, il mar...

 

Le teste degli uditori, al ritmo della melodia petrelliana, ondeggiavano, se bene la voce di Egidio era ingrata; e gli occhi si deliziavano, se bene la luce dalla luna era fumosa e un po' giallognola. Ma quando, dopo un contrasto di passione e di seduzione, la contessa d'Amalfi incamminandosi verso il giardino riprese la romanza, la romanza che ancóra vibrava nelle anime, il diletto degli uditori fu tanto che molti sollevavano il capo e l'abbandonavano un poco in dietro quasi per gorgheggiare insieme con la sirena perdentesi tra i fiori.

 

La barca è presta... deh vieni, o bella!

Amor c'invita... vivere è amar.

 

In quel punto Violetta Kutufà conquistò intero Don Giovanni Ussorio che, fuori di sé, preso da una specie di furore musicale ed erotico, acclamava senza fine:

- Brava! Brava! Brava!

Disse Don Paolo Seccia, forte:

- 'O vi','o vi', s'è impazzito Ussorio!

Tutte le signore guardavano Ussorio, stordite, smarrite. Le maestre Del Gado scorrevano il rosario, sotto le mantelline. Teodolinda Pomàrici rimaneva estatica. Soltanto le Fusilli conservavano la loro vivacità e cinguettavano, tutte rosee, facendo guizzare nei movimenti le trecce serpentine.

Nel terzo atto, non i morenti sospiri di Tilde che le donne proteggevano, non le rampogne di Sertorio e Carnioli, non le canzonette dei popolani, non il monologo del malinconico Egidio, non le allegrezze delle dame e dei cavalieri ebbero virtù di distrarre il pubblico dalla voluttà antecedente. - Leonora! Leonora!

E Leonora ricomparve a braccio del conte di Lara, scendendo da un padiglione. E toccò il culmine del trionfo.

Ella aveva ora un abito violetto, ornato di galloni d'argento e di fermagli enormi. Si volse verso la platea, dando un piccolo colpo di piede allo strascico e scoprendo nell'atto la caviglia. Poi, inframmezzando le parole di mille vezzi e di mille lezii, cantò fra giocosa e beffarda:

 

Io son la farfalla che scherza tra i fiori...

 

Quasi un delirio prese il pubblico a quell'aria già nota. La contessa d'Amalfi, sentendo salire fino a sé l'ammirazione ardente degli uomini e la cupidigia, s'inebriò, moltiplicò le seduzioni del gesto e del passo; salì con la voce a supreme altitudini. La sua gola carnosa, segnata dalla collana di Venere, palpitava ai gorgheggi, scoperta.

 

Son l'ape che solo di mèle si pasce;

M'inebrio all'azzurro d'un limpido ciel...

 

Don Giovanni Ussorio, rapito, guardava con tale intensità che gli occhi parevano volergli uscir fuori delle orbite. Il barone Cappa faceva un po' di bava, incantato. Don Antonio Brattella, membro dell'Areopago di Marsiglia, gonfiò, gonfiò, fin che disse, in ultimo:

- Colossale!

 

 


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