Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le novelle della Pescara
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1 - LA CONTESSA D'AMALFI

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Pochi giorni dopo, Violetta Kutufà abitava un appartamento in una casa di Don Giovanni, su la piazza comunale; e una gran diceria correva a Pescara. La compagnia dei cantatori partì, senza la contessa d'Amalfi, per Brindisi. Nella grave quiete quaresimale, i Pescaresi si dilettarono della mormorazione e della calunnia, modestamente. Ogni giorno una novella nuova faceva il giro della città, e ogni giorno dalla fantasia popolare sorgeva una favola.

La casa di Violetta Kutufà stava proprio dalla parte di Sant'Agostino, in contro al palazzo di Brina, accosto al palazzo di Memma. Tutte le sere le finestre erano illuminate. I curiosi, sotto, si assembravano.

Violetta riceveva i visitatori in una stanza tappezzata di carta francese su cui erano francescamente rappresentati taluni fatti mitologici. Due canterali panciuti del Settecento occupavano i due lati del caminetto. Un canapè giallo stendevasi lungo la parete opposta, tra due portiere di stoffa simile. Sul caminetto s'alzava una Venere di gesso, una piccola Venere de' Medici, tra due candelabri dorati. Su i canterali posavano vari vasi di porcellana, un gruppo di fiori artificiali sotto una campana di cristallo, un canestro di frutta di cera, una casetta svizzera di legno, un blocco d'allume, alcune conchiglie, una noce di cocco.

Da prima i signori avevano esitato, per una specie di pudicizia, a salire le scale della cantatrice. Poi, a poco a poco, avevano vinta ogni esitazione. Anche gli uomini più gravi facevano di tanto in tanto la loro comparsa nel salotto di Violetta Kutufà, anche gli uomini di famiglia; e ci andavano quasi trepidando, con un piacere furtivo, come se andassero a commettere una piccola infedeltà alle mogli loro, come se andassero in un luogo di dolce perdizione e di peccato. Si univano in due, in tre; formavano leghe, per maggior sicurezza e per giustificarsi; ridevano tra loro e si spingevano i gomiti a vicenda per incoraggiamento. Poi la luce delle finestre e i suoni del pianoforte e il canto della contessa d'Amalfi e le voci e gli applausi degli altri visitatori li inebriavano. Essi erano presi da un entusiasmo improvviso; ergevano il busto e la testa; con un moto giovanile; salivano risolutamente, pensavano che infine bisognava godersi la vita e cogliere le occasioni del piacere.

Ma i ricevimenti di Violetta avevano un'aria di grande convenienza, erano quasi cerimoniosi. Violetta accoglieva con gentilezza i nuovi venuti ed offriva loro sciroppi nell'acqua e rosolii. I nuovi venuti rimanevano un po' attoniti, non sapevano come muoversi, dove sedere, che dire. La conversazione si versava sul tempo, su le notizie politiche, su la materia delle prediche quaresimali, su altri argomenti volgari e tediosi. Don Giuseppe Postiglione parlava della candidatura del principe prussiano Hohenzollern al trono di Spagna; Don Antonio Brattella amava talvolta discutere dell'immortalità dell'anima e d'altre cose edificanti. La dottrina dell'Areopagita era grandissima. Egli parlava lento e rotondo, di tanto in tanto pronunziando rapidamente una parola difficile e mangiandosi qualche sillaba. Secondo la cronaca veridica, una sera, prendendo una bacchetta e piegandola, disse: « Com'è flebile! » per dire flessibile; un'altra sera, indicando il palato e scusandosi di non potere suonare il flauto, disse: « Mi s'è infiammata tutta la platea! » e un'altra sera, indicando l'orificio di un vaso, disse che, perché i fanciulli prendessero la medicina, bisognava spargere di qualche materia dolce tutta l'oreficeria del bicchiere.

Di tratto in tratto, Don Paolo Seccia, spirito incredulo, udendo raccontare fatti troppo singolari, saltava su:

- Ma, Don Antò, voi che dite?

Don Antonio assicurava, con una mano sul cuore:

- Testimone oculista! Testimone oculista!

Una sera egli venne, camminando a fatica; e piano piano si mise a sedere: aveva un reuma lungo il reno. Un'altra sera venne, con la guancia destra un po' illividita: era caduto di soppiatto, cioè aveva sdrucciolato battendo la guancia sul suolo.

- Come mai, Don Antò? - chiese qualcuno.

- Eh guardate! Ho perfino un impegno rotto - egli rispose, indicando il tomaio che nel dialetto nativo si chiama 'mbìgna, come nel proverbio Senza 'mbigna, nen ze mandé la scarpe.

Questi erano i belli ragionari di quella gente. Don Giovanni Ussorio, presente sempre, aveva delle arie padronali; ogni tanto si avvicinava a Violetta e le mormorava qualche cosa nell'orecchio, con familiarità, per ostentazione. Avvenivano lunghi intervalli di silenzio, in Cui Don Grisostomo Troilo si soffiava il naso e Don Federico Sicoli tossiva come un macacco tisico portando ambo le mani alla bocca ed agitandole.

La cantatrice ravvivava la conversazione narrando i suoi trionfi di Corfù, di Ancona, di Bari. Ella a poco a poco si eccitava, si abbandonava tutta alla fantasia; con reticenze discrete, parlava di amori principeschi, di favori reali, di avventure romantiche, evocava tutti i suoi tumultuarii ricordi di letture fatte in altro tempo: confidava largamente nella credulità degli ascoltatori. Don Giovanni in quei momenti le teneva addosso gli occhi pieni d'inquietudine, quasi smarrito, pur provando un orgasmo singolare che aveva una vaga e confusa apparenza di gelosia.

Violetta finalmente s'interrompeva, sorridendo d'un sorriso fatuo.

Di nuovo, la conversazione languiva.

Allora Violetta si metteva al pianoforte e cantava. Tutti ascoltavano, con attenzione profonda. Alla fine, applaudivano.

Poi sorgeva l'Areopagita, col flauto. Una malinconia immensa prendeva gli uditori, a quel suono, uno sfinimento dell'anima e del corpo. Tutti stavano col capo basso, quasi chino sul petto, in attitudini di sofferenza.

In ultimo, tutti uscivano l'uno dietro l'altro. Come avevano presa la mano di Violetta, un po' di profumo, d'un forte profumo muschiato, restava loro nelle dita; e n'erano turbati alquanto. Allora, nella via, si riunivano in crocchio, tenevano discorsi libertini, si rinfocolavano, cercavano d'imaginare le occulte forme della cantatrice; abbassavano la voce o tacevano, se qualcuno s'appressava. Pianamente se ne andavano sotto il palazzo di Brina, dall'altra parte della piazza. E si mettevano a spiare le finestre di Violetta ancóra illuminate. Su i vetri passavano ombre indistinte. A un certo punto, il lume spariva, attraversava due o tre stanze; e si fermava nell'ultima, illuminando l'ultima finestra. Dopo poco una figura veniva innanzi a chiudere le imposte. E i riguardanti credevano riconoscere la figura di Don Giovanni. Seguitavano ancóra a discorrere, sotto le stelle; e di tanto in tanto ridevano, dandosi piccole spinte a vicenda, gesticolando. Don Antonio Brattella, forse per effetto della luce d'un lampione comunale, pareva di color verde. I parassiti, a poco a poco, nel discorso, cacciavan fuori una certa animosità contro la cantatrice che spiumava con tanto garbo il loro anfitrione. Essi temevano che i larghi pasti corressero pericolo. Già Don Giovanni era più parco d'inviti. « Bisognava aprire gli occhi a quel poveretto. Un'avventuriera!... Puah! Ella sarebbe stata capace di farsi sposare. Come no? E poi lo scandalo... »

Don Pompeo Nervi, scotendo la grossa testa vitulina, assentiva:

- È vero! È vero! Bisogna pensarci.

Don Nereo Pica, la faina, proponeva qualche mezzo, escogitava stratagemmi, egli uomo pio, abituato alle secrete e laboriose guerre della sacrestia, scaltro nel seminar le discordie.

Così quei mormoratori s'intrattenevano a lungo; e i discorsi grassi ritornavano nelle loro bocche amare. Come era la primavera, gli alberi del giardino pubblico odoravano e ondeggiavano bianchi di fioriture, dinanzi a loro: e pei vicoli vicini si vedevano sparire figure di meretrici discinte.

 

 


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