Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le novelle della Pescara
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4 - LA VERGINE ORSOLA

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L'istinto della fame si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva la conscienza. Quando dal forno di Flaiano saliva nell'aria l'odore caldo del pane, Orsola chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava rapidamente, con un godimento brutale di tutto l'essere, guardando d'intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le mani il cibo, in sospetto.

La convalescenza era lunga e lenta, ma già un senso mite di sollievo comincia a spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella sana nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si produceva: i polmoni dilatati ora largamente dall'aria vivificavano il sangue carico di sostanze; e i tessuti irrigati dall'onda tiepida e rapida si colorivano ricomponendosi, si rinnovellavano nelle piaghe di decubito, si ricoprivano di cute a poco a poco; e le attività cerebrali a quell'affluire operavano sicure; e le innervazioni negli organi sensorii non più perturbate rendevano limpida la sensazione; e sul cranio i bulbi capilliferi rigermogliavano densi; e da quel riordinamento delle leggi meccaniche della vita, da quel dispiegarsi di energie prima latenti che la malattia aveva provocate, da quella intensa brama che la convalescente aveva di vivere e di sentirsi vivere, da tutto, lentamente, quasi in una seconda nascita, una creatura migliore sorgeva.

Erano i primi giorni di febbraio.

Dal suo letto Orsola vedeva la sommità dell'Arco di Portanova, i mattoni rossicci tra cui crescevano l'erbe, i capitelli sgretolati dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant'Anna nelle screpolature del fastigio non anche fiorivano. Il cielo sopra si apriva in una gentile beatitudine; e per l'aria a tratti giungevano dall'Arsenale gli squilli delle fanfare.

Fu allora che, quasi con un senso di meraviglia, ella riandò l'esistenza trascorsa. Le pareva quasi che quel passato non le appartenesse, non fosse suo; una lontananza smisurata ora la divideva da quei ricordi, una lontananza come di sogno. Ella non aveva più la valutazione sicura del tempo; ella doveva guardare gli oggetti che la circondavano, fare uno sforzo della mente, raccogliersi a lungo, per ricordare. Si toccava con le dita le tempie dove i capelli rigerminavano tenui, e un sorriso vago di smemorata le sfiorava le labbra pallide, le fuggiva negli occhi.

- Ah! - susurrò fioca; e il gesto delle dita alle tempie le ritornava, gentilmente.

Era stata una vita triste ed uguale, in quelle tre stanze, fra tutte quelle piccole statue deformi di Santi, fra tutte quelle imagini di Madonne, fra tutti quei bimbi compitanti in coro ad alta voce per cinque ore del giorno le medesime parole scritte col gesso su la lavagna. Come le martiri gloriose della leggenda, come Santa Tecla di Licaonia e Santa Eufemia di Calcedonia, le due sorelle avevano consacrata la loro verginità allo Sposo celeste, al talamo di Gesù. Avevano mortificata la carne a furia di privazioni e di preghiere, respirando l'aria della chiesa, l'incenso e l'odore delle candele ardenti, cibandosi di legumi.

Avevano stupefatto lo spirito in quell'esercizio arido e lungo di sillabazione, in quel freddo distillìo di parole, in quell'opra macchinale dell'ago e del filo su le eterne tele bianche odoranti di spigo e di santità. Mai le loro mani cercarono la dolcezza delle chiome infantili, il tepore di quel biondo angelico; mai le loro labbra cercarono la fronte dei discepoli, in una effusione di tenerezza improvvisa. Insegnavano la piccola dottrina, i piccoli canti della religione; facevano prostrare tutte quelle teste gioconde lungamente sotto le ammonizioni quaresimali; parlavano del peccato, degli orrori del peccato, delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei grandi occhi si empivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si aprivano allo stupore. Intorno, per le fantasie vive dei fanciulli le cose si animavano: dal fondo dei vecchi quadri uscivano certi profili giallognoli di Santi misteriosi; e il Nazareno cinto di spine e di stille sanguigne guardava da ogni parte con gli occhi agonizzanti, perseguitando; e su per la gran cappa del camino ogni macchia di fumo prendeva una forma atroce. Così infondevano esse la fede in quelle anime inconsapevoli.

Ora il ricordo di quella sterilità si destò in Orsola torbidamente. Ella risaliva, risaliva agli anni più lontani, per una naturale tendenza dello spirito, si rifugiava alle fonti; e una pienezza improvvisa di giubilo la inondò come se in un momento tutta la sua infanzia le rifluisse al cuore.

- Camilla! Camilla! - chiamò. - Dove sei?

La sorella non rispose, non era nell'altra stanza; era forse andata giù, nella chiesa, al vespro. Allora la convalescente fu presa dalla tentazione di mettere i piedi a terra, di provare i passi sul pavimento, così, sola.

Rideva d'un riso timido di bambina che esiti in un'impresa difficile; socchiudeva gli occhi soffermandosi nel nuovo diletto di quel pensiero, palpava con le dita le ginocchia, le caviglie esili, raccogliendosi, come per misurare la forza; e rideva, rideva poiché il riso le insinuava uno sfinimento dolce, una sottile delizia vibrante, in tutto l'essere.

Una freccia di sole strisciava sul davanzale e feriva l'acqua di un bacile in un angolo: il riflesso mobile tremolava nella parete, come una fine trama di oro. Uno stuolo di colombi attraversò lo spazio e venne a posarsi su l'Arco; parve un augurio. Ella pianamente scansò le coperte, esitò ancóra: seduta su la sponda del letto cercava con la punta del piede scarno e giallo la pianella di lana. La trovò, trovò l'altra; ma ora una tenerezza subitanea l'assaliva e le si empivano di lacrime gli occhi, e tutto tremolava dinanzi a lei in un albore indistinto come se le cose intorno si facessero aeree ed evanissero. Le lacrime le rigavano le guance, le si fermavano alla bocca tiepide e salse: ella ne bevve alcune, ne sentì il sapore. Fuori, dall'Arco i colombi a uno a due si rialzavano, frullando. Orsola con un moto delle fauci respinse il groppo del pianto; poi si poggiò su la sponda, premette, si alzò finalmente in piedi; sorrise dagli occhi umidi, guardandosi. Non sapeva di essere così debole, di non potersi così reggere diritta su le gambe; aveva una strana sensazione di formicolìo negli stinchi, di vellicamento nei muscoli, quasi la sensazione d'un ferito che si levi quando l'osso infranto non anche è bene saldato. Tentò di muovere un passo, avanzò il piede, timidamente; ebbe paura, sedette di nuovo su la sponda, guardandosi in torno come per assicurarsi che non la spiava alcuno. Poi cercò un punto di mèta, la finestra; e ricominciò, pianamente, con gli occhi fissi sul piede che avanzava, in equilibrio, stringendosi lo scialle verde al petto, invasa un poco dal freddo. Un subitaneo spavento la prese, a mezzo: ella barcollò, agitò le mani, si rivolse verso il letto, mise tre o quattro passi precipitosi, ricadde su la sponda. Stette un momento , in affanno; rientrò sotto le coperte dove ancóra restava il tepore, s'avvolse e si raccolse rabbrividendo.

- Come sono debole, Signore!

E guardava curiosa sul pavimento il luogo dove ella aveva fatto i passi, quasi vi cercasse le orme.

 

 


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