Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Le novelle della Pescara
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4 - LA VERGINE ORSOLA

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Ora costui fu il galeotto. Portava le epistole di Marcello con le conche piene d'acqua della Pescara su alla casa di Orsola e tornava giù con le conche vuote e con epistole di risposta. Orsola, quando lo sentiva salir le scale, si faceva pallida; cercava pretesti per allontanare Camilla, per essere sola con l'uomo portatore d'acqua e di gioia. Avvenivano allora contatti rapidi, nel sotterfugio; passavano allora tra lei e il galeotto quegli sguardi obliqui di intesa, quei fuggevoli accenni dei muscoli faciali, quei monosillabi sommessi, che son gli aiuti dell'astuzia umana e che a lungo andare stringono legami tra gli ingannatori. A poco a poco nell'amore di Orsola penetrava qualche cosa della viltà di Lindoro; una specie di domestichezza a poco a poco si stabiliva tra l'amatrice e l'ambasciatore. Ella, se costui giungeva nell'assenza di Camilla, lo incalzava di domande, gli parlava da presso facendogli sentire l'alito, qualche volta inavvedutamente gli posava su la spalla una mano. Lindoro scioglieva i freni della sua loquacità, intramezzando parole di gergo, reticenze impudiche, furbi sorrisi rivelatori, gesti ambigui, piccoli schiocchi di lingua e di labbra.

Egli ruffianeggiava con arte, sapeva insinuare sottilmente la corruzione nell'animo di Orsola, sapeva trascinare lentamente all'insidia di Marcello quella preda. E la vergine stava ad ascoltarlo intenta, con in fondo agli occhi una fiamma che cresceva, con in bocca l'aridezza prodotta dall'orgasmo lascivo, senza più interrompere. Lindoro s'accorgeva subito di aver suscitato nella femmina la brama; e dinanzi a quella figura tutta protesa e tutta sconvolta si risvegliava in lui il maschio d'un tratto e l'assaliva la tentazione di cogliere quel fiore ch'egli apprestava al piacere di un altro. Ma la paura sorgente dal fondo della sua viltà lo tratteneva e gli ghiacciava l'ardore.

Così Orsola al fine aveva concesso a Marcello un ritrovo. Si sarebbero ritrovati in una casa remota del sobborgo, in fondo a un vico deserto, dove nessuno li avrebbe spiati, una domenica di giugno, stando Camilla nella chiesa più lungo tempo, facendo buona guardia Lindoro.

Nei giorni precedenti quel gran fatto, Orsola era tenuta da una eccitazione amara, da una specie di febbre che a volte le dava il battito dei denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei capelli, alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più star seduta, perché una furia di mobilità le sollecitava tutte le membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in mezzo a quello stillicidio continuo di sillabe, uno spirito di ribellione le abbagliava la vista all'improvviso, ed ella avrebbe voluto balzare tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte quelle capigliature, rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche, rompere in grida, spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo sguardo freddo e scrutatore di Camilla, poco mancava che ella non svenisse per lo spasimo, per la bile, per l'immenso sforzo interiore di dissimulazione.

Poi, quando Camilla usciva, ella si agitava per tutte le stanze, moveva le sedie, morsicchiava un fiore, beveva d'un fiato un gran bicchiere d'acqua, si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l'irrequietudine, l'esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel tardivo fermento della verginità, si era arricchito ed espanto. La sua testa non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore olivastro di certe razze d'Abruzzo, quelle pure linee del naso e del mento svolgentisi grecamente nella latina ampiezza della faccia. Ma ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti grige, sotto la cascaggine delle pieghe incomposte, celava un bel corpo delicato.

Erano i giorni primi di giugno: sorgeva l'estate dalla primavera, come da un campo d'erbe un àloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di Pescara godeva nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale, come distendendo le braccia verso quei naturali confini d'acqua amara e d'acqua dolce. Salivano alla stanza di Orsola allora le blandizie della temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e rimbalzavano, come una grandine d'oro.

La vergine, se era sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare lungi le vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella blandizia ignota che fluttuava nell'aria.

Cominciava lentamente a spogliarsi, con gesti pigri, indugiando con le dita in torno alle allacciature e ai fermagli, facendo piccoli sforzi svogliati nel cacciar fuori le braccia dalle maniche, fermandosi a mezzo e abbandonando in dietro la testa dai capelli crespi e corti, quella sua testa di giovincello. Lentamente, sotto l'amorosa fatica, dalla informità delle vesti, come dalla scoria del tempo una statua diseppellita, il corpo ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela vile era ai piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio ella come da un piedestallo sorgeva nella luce coronandosi con le braccia, mentre al contatto dell'aria una vibrazione a pena visibile le correva a fior della pelle. In quell'attitudine momentanea tutte le linee del torso si distendevano e salivano verso il capo ricinto; si appianava la leggera onda del ventre non anche deturpato dalla concezione; gli archi delle coste si disegnavano in rilievo. Poi, se un insetto entrava nella stanza, il ronzio aliante in torno ed accennante ad attingere la nudità, il ronzio sbigottiva Orsola; ed era allora un difendersi dalla puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti di muscoli sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei malleoli non bene forti al gioco.

Poi, così eccitata dal moto e calda, ella aveva voglie nuove. Apriva l'uscio, cauta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando nell'altra stanza. C'era un odore di chiuso, quello squallore inanimato che hanno le scuole senza fanciulli. Nelle tabelle quadrate l'alfabeto cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti dominatori del luogo. Orsola si avanzava evitando co' piedi nudi gli interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza di chi cammina scalzo per la prima volta su un piano aspro e la confusione di una donna che non sente più in torno al suo passo l'impedimento abituale della veste. Andava così fino alla terza stanza, dov'era l'acqua. Intingeva le mani, si spruzzava tutta, coraggiosamente, sussultando se una gocciola più grossa le rigava l'epidermide. Usciva di , tutta sparsa di rugiada: andava verso lo specchio di un antico canterano.

Restavano in quel canterano ancóra frammenti di intarsio qua e . Lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno fregi misti d'oro e di colori e in alto due puttini decapitati. Orsola saliva fin , attratta da una irresistibile curiosità di vedersi nuda. La sua persona tutta ancóra fresca di gocciole sorgeva nell'offuscamento dello specchio come in un verdazzurro fondo marino. Ella si guardava sorridendo. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli pareva far tremolare tutte le linee della nudità nello specchio come quelle di una imagine dentro le acque. Allora ella cominciava una specie di mimica vanitosa, guardando riprodursi tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra per mostrare i denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle, presentando la schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro: fin che un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sé, le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna, si rifletteva dalla parete avversa la tabella dell'alfabeto.

 

 


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