Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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La sagra dei Mille

PAROLE DETTE AL POPOLO DI GENOVA NELLA SERA DEL RITORNO

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La sagra dei Mille

PAROLE DETTE AL POPOLO DI GENOVA

NELLA SERA DEL RITORNO

[iv maggio mcmxv]

O genovesi, eccomi vostro in presenza come già fui di lontano, con voi tutto, alla vigilia della gran giornata, per pregare e poi per lottare, eccomi devotissimo.

Un Genovese ritorna alle sue mura, ritorna al suo porto (consentitemi quest’orgoglio che è anche umiltà), uno il quale fu fatto cittadino in San Giorgio per grazia del canto, per miracolo di quella tazza da secoli arcana, onde in giorni di milizia ei vide ritraboccare il sangue del novel patto, e lo cantò.

Ma è questo un ritorno? e dov’è la mia vita distante? E quanto lasciai dietro me, opera o sogno, pertinacia o tristezza, pazienza o languore, che mi vale in questi attimi? Non so se io abbia rivalicato un confine di monti, ritraversato un paese primaverile. Monti non ho veduto, non boschi in foglia, non fiumi in piena, se non a tratti dietro un velo; ma anime accese e protese, ma apparizioni d’amore, ma trasfigurazioni fraterne. Prima di riconoscere il volto della patria, ne ho ribevuto l’alito affocato. Dianzi, in quel primo grido, in quel primo saluto, la città non m’era di pietra ma tutta d’umana sostanza: non so che stellato di occhi, sotto le stelle del cielo.

Perché voi mi veniate incontro con tanto impeto, vi porto io dunque un dono di vita? Se io venissi ad annunziare una vittoria, non altrimenti sarei d’ogni parte acclamato.

Ebbene, sì, compagni, porto un dono di vita e annunzio una vittoria. Se vi fu tal Romano che recava nel seno della toga la pace e la guerra, da scegliere, non v’è più scelta per noi. Ve lo dico già in questa prima ora, in questa notte di veglia. E vi dico che tanto la nostra guerra è giusta, da non potersene recare il pegno se non con le mani velate, come delle cose più sacre usavano i padri nostri.

Per ciò conviene pregare. Per ciò conviene che ciascuno di noi stanotte abbia un’ora di raccoglimento, un’ora di preghiera, nel nome dell’Eroe che santifica questa veglia. Udremo allora forse, nel silenzio, una di quelle sue parole fulminee che illuminavano la faccia del destino; poiché la faccia del destino sembra si rinfoschi e l’anima della patria ridiventi ansiosa...

No, non ci turbi la notizia improvvisa di un’assenza che non può esser cagionata da un divieto oscuro ma sì dal dovere della vigilanza estrema, dalla necessità di stare a buona guardia. In alto la fede! In alto i cuori! Il dubbio non ci tocchi. Noi non lasceremo disonorare l’Italia; non lasceremo la patria perire.

Tutta Genova è in piedi, stanotte, come nelle adunanze delle grandi deliberazioni. E la fede di Genova ritrova l’antica parola del suo potere civico, il grido breve della volontà latina: Fiat! Fiat! Sia fatto! Si compia!

Quel che è necessario, si compia!

La integrazione della patria si compia!

La resurrezione della patria si compia!

Questo vogliamo, questo dobbiamo volere.

Genova, la città che assalta il cielo con la scala titanica dei sovrapposti palagi e sembra avere in sé un impeto di ascendere, che dalle sue vecchie fondamenta la sollevi su per le sue giovani alture, come a veder più lontano; Genova, che dantescamente dei remi fece ala a sé per traversare i secoli con un battito assiduo di potenza; la più feconda delle stirpi italiche, migratrice come Corinto e come Atene; quella ch’ebbe in retaggio lo spirito dell’Ulisse tirreno per tentare e aprire tutte le vie, per popolare i lidi più remoti, per fornire uomini e navi a tutti i principi, per dare capitani a tutte le armate, per portare nell’Atlantico le costumanze del Mediterraneo, per instituire con incomparabile sapienza di leggi il primo Consolato del Mare, per iniziare nel Breve della Compagna il primo Contratto sociale; la razza assuefatta all’avversità, secondo l’eterna parola di Vergilio, indomita in resistere, cercare, durare: la più antica nella successione della romanità se si pensi ch’ebbe i consoli prima d’ogni altra, la più nuova nel presentimento dell’avvenire se si consideri la recentissima figura del diritto foggiata nel suo porto dalla sua gente di mare; radicata nel più profondo passato, protesa verso il più remoto futuro; simile a un nodoso albero di vita travagliato da una perenne primavera; nel suo stesso aspetto vecchia come le metropoli che compirono il lor destino magnifico e giacquero sotto il cumulo inerte della loro storia, giovine come le dimore edificate con rapida sovrabbondanza dalle civiltà avveniticce che s’armano d’armi improvvise per la lotta e per la signoria; Genova è degna di sollevare un’altra volta al conspetto della nazione, in un’ora ben più tremenda, nel più arduo punto del nostro cielo, quella «tazza di salute» che è il simbolo della vittoria interiore su la viltà, sul tradimento, su la paura, su ogni miseria e contagio d’uomini e di cose.

Levò la tazza. E il popol disse: «Credo».

«Credo.» Sia la parola iniziale della nostra preghiera notturna.

«Ora e sempre» risponderà da Staglieno una voce sola e sublime, a cui l’augurio è promessa, la speranza è certezza, il proposito è compimento.

Il lido ligure è il lido delle maravigliose dipartite. Lo spirito, che trasfigura le terre e le genti, lo predilige. Lo spirito lo abita.

Non riempie esso, laggiù, la cavità di quel bronzo che veglia sul mare stellato? Il metallo del treppiede fatidico non doveva essere più penetrabile dal soffio del nume.

O compagni, ma l’oracolo che attendiamo, non è già inciso nei nostri cuori? non è già fisso alla cima della nostra volontà concorde?

Che volete voi?

In antico un re grande fu ardito d’affrettare il responso, di forzare la sacerdotessa ambigua serrandola nelle sue braccia terribili.

Domani un grandissimo popolo, con la sua stretta potente, otterrà la sentenza ch’ei vuole.

Che volete voi, o Genovesi?

Nel vostro Consolato del Mare è quel capitolo dove si dispone che, se patron di nave vorrà crescere la nave, egli lo debba dire a tutti i compagni e, se tutti i compagni vorranno, egli la può crescere, e «in questo non v’è contrasto nessuno».

Che volete voi, Genovesi? che volete, Italiani? menomare o crescere la nazione?

Voi volete un’Italia più grande, non per acquisto ma per conquisto, non a misura di vergogna ma a prezzo di sangue e di gloria.

Fiat! Fiat! Si faccia! Si compia!

Viva San Giorgio armato!

Viva la giusta guerra!

Viva la più grande Italia!



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