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III
Fuoco d’amore, d’acerrimo amore, di indomabile amore, quale recavano chiuso nel petto i predestinati in quella sera di prodigio, su questo lido ove siamo attoniti di udire l’ansito del mare e il palpito dei viventi, tanto esso è remoto nella più ardua idealità, come il piano di Maratona, come il promontorio di Mìcale, anzi di là da queste imagini venerande, oltre ogni segno;
ché là erano schiere ordinate, navi munite, impeto disegnato, nemico aperto, ma qui non altro che un’ebra consecrazione all’ignoto, qui non altro che una nuda devozione alla morte, non altro che passione e travaglio, offerta e dono, canto di commiato, oblìo del ritorno, e il potere mistico del numero stellare: Mille.
Le madri, le sorelle, le spose, le donne dilette venivano sul cammino, traevano dalla Porta Pila a Quarto, alla Foce, piangendo, pregando, consolando, sperando, disperando, con lacrime calde, con voci tremanti, con tenere braccia;
e nessuna di quelle creature vive era ai partenti viva come quella cui s’offerivano in eterno, come quella che abbandonava il suo corpo notturno al mare di maggio, viva con un soffio, con uno sguardo, con un viso indicibili, amata d’amore, eletta di dolore: la donna dei tempi, la donna dei regni, l’Italia.