Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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La sagra dei Mille

Orazione per la sagra dei Mille

V

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V

O primavera angosciosa, stagione di dubbio e di patimento, di speranza e di corruccio!

Voi non udivate se non il romore cittadinesco, se non il clamore delle dissensioni, delle dispute, delle risse. Voi tendevate l’orecchio al richiamo dei corruttori. Consumavate i giorni senza verità e senza silenzio.

Ma i lontani scorgevano, di sotto alle discordie degli uomini, la patria raccolta nelle sue rive, la patria profonda, sola con la sua doglia, sola col suo travaglio, sola col suo destino.

Si struggevano di pietà filiale divinando il suo sforzo spasimoso, conoscendo quanto ella dovesse patire, quanto dovesse ella affaticarsi per generare il suo futuro.

E pensavano in sé: «Come soffri! Come t’affanni! In quale ambascia tu smanii! T’abbiamo amata nei giorni foschi, t’abbiamo portata nel cuore quando tu pesavi come una sciagura. Chi di noi dirà quanto più, ora, ti amiamo?

Tutta la passione delle nostre vite non vale a sollevare il tuo spasimo, o tu che sempre la più bella sei e la più paziente. Come dunque ti serviremo?

Uomini siamo, piccoli uomini siamo; e tu sei troppo grande. Ma farti sempre più grande è la tua sorte. Per ciò dolora, travaglia, trambascia. Tu avrai i tuoi giorni destinati».

E si mostravano i segni.

Quando nella selva epica dell’Argonna cadde il più bello tra i sei fratelli della stirpe leonina, furono resi gli onori funebri al suo giovine corpo che fuor della trincea il coraggio aveva fatto numeroso come il numero ostile.

Parve ai poeti che i quattro figli d’Aimone discendessero dalle Ardenne per portar su le spalle la bara del cavaliere tirreno.

Il primogenito, che m’ode, quegli dalla gran fronte, s’avanzò nel campo quadrato, dove gli altri uccisi dei nostri giacevano in lunga ordinanza; si chinò, smosse la terra, ne prese un pugno, e disse:

«Rinnovando un costume di nostra antica gente, su questi cari compagni che a Francia la libera hanno dato la vita e l’ultimo desiderio all’Italia in tormento, spargiamo questa fresca terra perché il seme s’appigli

Allora lo spirito di sacrifizio apparì alla nazione commossa.

E venne un altro segno. L’estremo dei martiri di Mantova, il solo dei confessori intrepidi sopravvissuto alle torture del carnefice, Luigi Pastro, pieno d’anni e di solitudine, spirò la sua fede che, attanagliata dalle ossa ancor dure, non poté partirsi se non dopo lunga agonìa.

Quando i pietosi lavarono la salma quasi centenaria, scoprirono intorno ai fusoli delle gambe i solchi impressi dalle catene. Erano , indelebili, da sessant’anni; e parve li rivelasse agli Italiani per la prima volta una grazia della morte.

Allora lo spirito di sacrifizio riapparì alla nazione che si rammemorò di Belfiore.

E venne un altro segno. Un’ira occulta percosse e ruinò una regione nobile tra le nobili, quella dov’è radicata dalle origini la libertà, quella dove il Toro sabellico lottò contro la Lupa romana, dove gli otto popoli si giurarono fede, si votarono al fato tremendo e la lor città forte nomarono Italica.

Quivi la virtù del dolore da tutte le contrade convocò i fratelli. Il lutto fu fermo come un patto. Lagni non s’udirono, lacrime non si videro. I superstiti, esciti dalle macerie, offerirono all’opera le braccia contuse. Nella polvere lugubre le volontà si moltiplicarono, prima fra tutte quella sovrana. L’azione fu unanime e pronta. Una spiritale città fraterna sembrò fondata nelle rovine, pel concorso di tutti i sangui; e, meglio che quella del giuro, poteva chiamarsi Italica.

I fuorusciti di Trieste e dell’Istria, gli esuli dell’Adriatico e dell’Alpe di Trento, i più fieri allo sforzo e i più candidi, diedero alle capanne costrutte i nomi delle terre asservite, come ad augurare e ad annunziare il riscatto. Il fratello guardava il fratello, talvolta, per leggere nel fondo degli occhi la certa risposta alla muta domanda.

Allora lo spirito di sacrifizio entrò nella nazione riscossa, precorse la primavera d’Italia.


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