Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Per la più grande Italia
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La sagra dei Mille

Parole dette nell’Ateneo genovese il vii di maggio, ricevendo in dono dagli studenti una targa d’oro

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Parole dette nell’Ateneo genovese il vii di maggio, ricevendo in dono dagli studenti una targa d’oro

@ gabrieli nvntionova qvi patriae

decorans tempora lavrograndia

et fortia excvditfataqve italis

maiorapraecepit

Come ringrazierò il Rettore Magnifico, il Collegio insigne dei Dottori, voi tutti, o giovani, voi figliuoli non inermi dell’armato San Giorgio e voi qui convenuti dalle terre lontane, pellegrini d’amore in veste affocata, simili a quelli che passavano nelle imaginazioni di Dante prima dell’esilio; come vi ringrazierò d’avermi accolto in questa sede severa dei vostri studii e delle vostre prove, d’avermi ammesso a questo focolare del vostro spirito, il più profondo fra tutti, dove due dei fratelli vostri immortali – l’uno coronato di mirto e di lauro, l’altro di cipresso e di querciacustodiscono la fiamma che qui arde ai Penati del pensiero italiano?

Quella fusione magnanima che l’altro ci parve udir crosciare, nella ragunata del popolo intorno all’alto simulacro, quella fusione di sangui e di anime, io la sento in voi maravigliosamente perfetta, o compagni della più bella fra le mie speranze, o voi che per tanti anni, con sì costante fede, io ho annunziati, aspettati, invocati, ecco, non invano.

Come ho veduto splendere i vostri occhi sul lido, e nelle piazze e nelle vie e nei giardini! La bellezza d’Italia è così forte che, mentre nel ritorno la presentivo, mentre la riconoscevo, ella sembrava mi trapassasse, sembrava mi fendesse il petto, mi percotesse con una gioia che era quasi dolore. I monti, la neve e l’ombra nei monti, i torrenti, i fiumi, i boschi rinverditi, le nuvole, i fiori, e quel che su la terra è il cielo unico d’Italia, il lume d’Italia, l’odore d’Italia, non comparabile ad altri mai, tutto m’era ebrietà e ansietà di passione. Ma nei vostri occhi, ma nei vostri visi, ma nelle vostre fronti imperlate di sudore, ma nel vostro soffio che mi ravvolgeva, ma nel sorriso di tutta la vostra freschezza io ho sentito una primavera più potente che quella delle selve, dei colli, degli orti, ho sentito una rinascita più impetuosa che quella di tutte le altre creature.

Ieri in quel giardino di Andrea Doria, ove era disceso quel muto Leone di Trieste che stava in capo alla strada dei Giustiniani, voi faceste di voi catena intorno a me, camminando lungo i balaustri e lungo le siepi. Annodati per le braccia, vincolati per i polsi e per le mani, stretti l’uno all’altro, catena e ghirlanda, forza e gentilezza, resistenza e grazia, accesi in volto, accesi negli occhi, fermi e pieghevoli, voi eravate una vita sola.

Siete una vita sola, siete una giovinezza sola, siete un’altra «Giovine Italia». E il «fuoruscito senza Beatrice», rivivente, adolescente come voi, un poco più pallido di voi, ma immune dalla lesione degli anni, immune dalla morte, vi conduce, come uno di quei semiddii che guidavano le primavere sacre verso le conquiste misteriose. E Goffredo è presente, con la sua bella chioma intonsa, con i suoi belli occhi marini; e ha seco le sue armi. Egli torna dall’aver lavato il cavallo polveroso nel Timavo, come l’uno dei due Dioscuri lavò il suo, quando il Timavo era fiume latino. Egli ora ben conosce la via che passa da Aquileia e va verso San Giusto, e più oltre e più oltre. Egli ve l’addita, egli ve la mostra. E Jacopo Ruffini, non deterso del sangue che oggi luce d’oriente, sarà inviolabile alfiere alla coorte giovenile.

Giovani, or è moltanni, a un’altra adunata di giovani dicevo: «Oh, se io potessi tendere a ciascuno la mia mano fraterna e leggere nei limpidi occhi il proposito certo!». Dicevo: «Voi siete la imminente primavera d’Italia. La mia fede la mia costanza la mia aspettazione mi fanno degno di essere l’annunziatore della vostra volontà vittoriosa». La vostra volontà vittoriosa è in piedi; è armata; sta per irrompere. Se vi guardo, se vi considero, l’Italia mi sembra una vergine terra come quando apparve ad Acate proteso dalla nave fatale, come quando per la prima volta su questo Mare Tirreno risonò nelle voci d’allegrezza il divino suo nome.

Stanotte, prima dell’alba (e sia l’alba che nelle sue dita di rosa brandisca il giavellotto del nostro Dio romano), stanotte molti di voi partiranno per le terre di lungi, per i focolari di lungi. Divampi nei vostri petti, o messaggeri di fede, o pellegrini d’amore, quella fiamma stessa che ardeva nei giovinetti notturni al sasso di Quarto!

Se è vero, come è vero, come io giuro esser vero, che gli Italiani hanno riacceso il fuoco su l’ara d’Italia, prendete i tizzi con le vostre mani, soffiate sopra essi, teneteli in pugno, scoteteli, squassateli ovunque passiate, ovunque voi andiate. E appiccate il fuoco, miei giovani compagni, appiccate il fuoco pugnace! Siate gli incendiarii intrepidi della grande Patria!

Stanotte, come si vedevano nella notte omerica i roghi accesi di monte in monte per annunzio di vittoria, noi vedremo in sogno splendere lungh’essa l’Italia le vostre fiaccole correnti, fino a Marsala, fino al Mare d’Africa.

«Partite, apparecchiatevi, ubbidite» diceva il sacerdote di Marte agli imberbi consecrati. «Voi siete la semente di un nuovo mondo

«Partite, apparecchiatevi, ubbidite» io dico a voi, poiché mi fate degno di consecrarvi. «Voi siete le faville impetuose del sacro incendio. Appiccate il fuoco! Fate che domani tutte le anime ardano! Fate che tutte le voci sieno un solo clamore di fiamma: Italia! Italia


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