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La sagra dei Mille Parole dette agli esuli dalmati ricevendo in dono il libro che afferma dimostra e propugna l’italianità della Dalmazia, stampato in Genova |
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Parole dette agli esuli dalmati ricevendo in dono il libro che afferma dimostra e propugna l’italianità della Dalmazia, stampato in Genova
Questo libro d’amore, di fede e di rampogna un Italiano dovrebbe oggi riceverlo in ginocchio, umiliato nell’atto di chiedere il perdono e di fare l’ammenda. A me rimanere in piedi davanti a voi, reverente ma non vergognoso, è consentito dalla coscienza di non aver mai dimenticata quella che Antonio Baiamonti, il «podestà mirabile» di Spàlato, chiamò «figlia minore d’Italia», quella che «seconda Italia» chiamò il dantesco Tommasèo. Ma l’Iddio degli eserciti mi conceda di potermi inginocchiare, in uno de’ giorni prossimi, dinanzi a quell’uno de’ vostri altari sotto la cui tavola i padri lacrimando riposero il ripiegato gonfalone republicano.
Se in Genova io nòmino Sebenico, Zara, Traù, sobbalzano nel sepolcro di San Matteo le ossa di Luciano d’Oria, che seppero il sale dell’Adriatico. La sua vittoria e la sua morte si commemorano alla stessa data che ci adunò sul lido di Quarto: il cinque maggio. Veggo le città dalmate insanguinate e affocate, prima che il ferro di Donato Zeno finisca sul ponte l’ammiraglio ancóra urlante dalla bocca squarciata: «San Zorzo! San Zorzo!»
Ma un’altra visione mi viene da un’altra vittoria inscritta fra le liste bianche e nere del tempio navale. È come un’allegoria della nostra lunga cecità. Nelle acque di Curzola, Lamba Doria, avendo disposte le sue galee sopra vento, con polvere di calce viva bruciò gli occhi dei Veneziani condotti dal Dandolo; e sgominò quei disperati ciechi.
Mi sembra che da una simile cecità ostile siamo noi rimasti afflitti, dopo la sciagura di Lissa. Non abbiamo veduto, non abbiamo voluto vedere quel che i vincitori operavano, senza tregua, senza misericordia, per cancellare ogni vestigio del nostro dominio su la costa orientale, per distruggere ogni traccia d’italianità su la bella spiaggia latina non consacrata soltanto dal sangue ma dallo spirito, non conquistata soltanto dalle armi ma dalle arti, non soltanto nostra per antica signoria ma per sempre novo pensiero, non soltanto ricca di reliquie mute ma di cultura eloquente. Noi abbiamo lasciato compiere su voi, per anni e per anni, le più inique persecuzioni, o fratelli nostri magnanimi che opponeste alla minaccia il coraggio, all’ingiustizia la pazienza, la maschia gentilezza alla stupida atrocità. Noi non abbiamo osato aiutare né confortare la triste e taciturna lotta proseguita da voi, o fedeli di Roma, per custodire la benedetta lingua d’Italia, per difendere i documenti dell’alta origine, per serbarvi contro tutti e contro tutto italiani. Come i marinai del Dandolo, noi abbiamo distolto dalla battaglia i nostri occhi dolorosi!
Chiediamo perdono, facciamo ammenda. I nostri occhi alfine si riaprono, sanati dal vento salutifero che soffia su tanta strage, su tanta virtù, su tanto orrore, su tanto amore. Di rimorso e di pietà dovremmo piangere, o fratelli; ma non piangiamo, sì bene guardiamo fermamente il destino.
Questo libro, che voi ponete nelle mie mani, è un atto di possesso. È breve, e pure ha grande peso. Ci significa, chiaro e conciso, nello stile di Roma, che la Dalmazia appartiene all’Italia per diritto divino ed umano: per la grazia di Dio il qual foggia le figure terrestri in tal modo che ciascuna stirpe vi riconosca scolpitamente la sorte sua; per la volontà dell’uomo che moltiplica la bellezza delle rive inalzandovi i monumenti delle sue glorie e intagliandovi i segni delle sue più ardue speranze.
È questo un vangelo dalmatico su cui possiamo giurare.
Sotto la forza latina di Roma, dei Papi, di Venezia, come sotto la forza barbara dei Goti, dei Longobardi, dei Franchi, degli Ottoni germani, dei Bisantini, degli Ungari, degli Austriaci, la vita civile della costa di là, come quella della costa di qua, fu costantemente di origine e di essenza italiane. Fu, è, sarà. Non il Tedesco dell’Alpe, non lo Sloveno del Carso, né il Magiaro della Puszta, né il Croato che ignora o falsa la storia, né pure il Turco che si camuffa da Albanese, niuno potrà mai arrestare il ritmo fatale del compimento, il ritmo romano. Io ve lo dico, fratelli, ma voi lo sapete. Su questo vangelo dalmatico possiamo far giuro.
L’antichissima via consolare, che si partiva da Salona per a traverso la Bosnia, non è tuttavia battuta? Ella è, voi lo sapete, il solo cammino che allacci i borghi solinghi e i villaggi dispersi. Ella è così bene condotta, così bene costrutta, così bene assodata che gli uomini dovranno seguirla sino al termine degli evi.
Più lungi, su l’altro versante del monte Kvaratch, le rovine robuste d’una città operaia romana si levano in mezzo ai prati e alle selve, in vista alle cime cerulee della Serbia guerriera.
Or sembra che quivi il genio del luogo, genius loci, non sia nella lapide inscritto ma grandeggi tuttavia e del suo soffio riempia la curia, il tribunale, l’ipocausto, gli altari, i focolari. Il castro, dissepolto su la riva destra del torrente Saso, ha tuttavia la sua muraglia ben commessa, contro cui non valsero quindici secoli edaci.
Che mai può dunque valere lo sforzo de’ barbari contro la legge di Roma? Là dove tali fondamenta ponemmo, là il genio del luogo ci aspetta; là torneremo, là ritroveremo i segni vetusti e intaglieremo i nuovi.
Se stretta è la vostra spiaggia, o Dalmati, amplissima è la civiltà che l’illustra. Siete quasi orlo di toga, ma tutta la toga è romana.
Rallegratevi, miei giovani compagni. Il tempo di servire è compiuto, il tempo di patire è compiuto. È giunto il tempo di combattere e di redimere; il tempo di liberare e di rivendicare è imminente.
A Lissa perì da prode il guardiamarina dalmata Giovanni Ivancich, somigliante forse a taluno di voi che mi guarda con accesa la battaglia negli occhi lionati.
Come ti chiami, tu che arrossisci, fanciullo? Me lo dirà forse la gloria domani, me lo dirà domani la libertà nel suo grido sopra il mare sonoro.
Su questo vangelo dalmatico, intanto, giuriamo con un’anima sola.
Così sia, per i figli dei figli e nei secoli dei secoli.